Tutti conoscono il mito greco del vaso di Pandora, che ormai è entrato nel linguaggio comune e viene usato come metafora. Una volta scoperchiato escono, uno dopo l’altro, tutti i mali del mondo: dolore, affanni, malattie, morte che travolgono inesorabilmente tutta la specie umana. Ma, nonostante l’apparenza, non è un mito catastrofista. Pandora, per volere di Zeus, chiude il vaso prima che possa uscirne la Speranza, “l’ultima a morire” e qualche tempo dopo lo riapre, liberandola.
Si può ravvisare, forzando l’interpretazione del mito, una dialettica tra positivo e negativo che attraversa la storia della modernità: il negativo che esce, la speranza che rimane. Ma che cosa è questa dialettica nel capitalismo post-fordista? Quando i guru del neo-liberismo, come Francis Fukuyama, parlano di fine della storia, in fondo hanno ragione: fine della “loro” storia, declino e crisi del capitalismo come modo di produzione storicamente determinato.
Lo stato di “emergenza permanente” che avvolge il mondo e che l’esplosione del coronavirus ha svelato in tutti i suoi aspetti e dimensioni, lo sta a dimostrare. L’affermazione “fine della storia” va rovesciata: fine di una storia, possibile inizio di un’altra storia, liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
Questa è un’epoca di transizione e di trasformazione, che tocca direttamente le radici della vita, in senso biologico e sociale, produttivo e riproduttivo: in essa, nel flusso del divenire che nessuna ideologia può frenare, si aprono enormi possibilità di liberazione, una nuova ontologia dell’essere sociale. La “soggettività rivoluzionaria” non può che porsi a questa altezza della contraddizione, tra biopotere e biopolitica. Non può che spezzare, rompere, dividere l’immagine dell’uno, la totalità assoluta del capitale.
A questo punto, diventa comprensibile l’operazione politica, ideologica, culturale dei teorici neoliberisti: eternizzare, naturalizzare la logica del mercato, la “libera” competizione, di sapore darwiniano, tra individui che diventano imprenditori di se stessi. Chi riesce è incluso nel regno dell’ordine sovrano, chi non riesce viene abbandonato a se stesso, in senso malthusiano, in nome della “libertà” e di una sorta di “selezione naturale”.
Si tratta di un rovesciamento dell’impianto egualitario affermatosi dalla rivoluzione francese in poi e che ha attraversato come un fiume impetuoso tutte le rivolte e le rivoluzioni che hanno costituito il “cuore rosso” della modernità. La fine della storia, in questo senso, riproduce la dialettica hegeliana, dove il positivo e il negativo, la tesi e l’antitesi, l’affermazione e la negazione, vengono ambedue nello “Spirito Assoluto”, ovvero nella realizzazione completa dell’idea che supera ogni contraddizione storica, dove gli opposti sono sussunti e riconciliati.
Dove portava il tutto il complesso apparato concettuale hegeliano? Con la formula «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale»,Hegel legittimava lo stato di cose presente come il migliore dei mondi possibili. In particolare, lo Stato in Hegel – nella fattispecie lo Stato prussiano – è totalità etico-politica e in esso trovano soluzione e conciliazione tutte le contraddizioni della società civile, i suoi conflitti, gli animal spirits che la attraversano.
La dialettica hegeliana è una dialettica della mediazione e della unità degli opposti: il suo uso da parte del pensiero neoliberista ha come scopo specifico quello di giustificare lo stato di cose presente come eterno e immodificabile, neutralizzando il conflitto di classe e rimuovendo la potenza e l’autonomia del lavoro vivo. Il pensiero dialettico va completamente decostruito e riportato nella sua dimensione “di classe”: «il Capitale è un rapporto» dice Marx «tra due soggetti, irriducibili l’uno all’altro tra cui esiste una relazione antagonistica continuamente rinnovata nei vari stadi dello sviluppo capitalistico». Un rapporto che passa dalla sussunzione formale a quella reale, da questa alla sussunzione dell’intero mondo della vita e della riproduzione. Il rapporto di capitale si spinge fino al suo limite, in cui si percepisce come “fine della storia”. Ma così come è successo in ogni epoca e per ogni modo di produzione le crisi generali, al loro compimento, hanno visto nascere nuovi mondi e forme di vita.
Così dopo l’anno mille, che doveva essere il tempo dell’apocalisse e della catastrofe, vi fu una formidabile trasformazione dell’economia e della politica. Così dopo la peste del Trecento, che precede la grande rivoluzione rinascimentale, o ancora la peste e le guerre di religione nel Seicento, che aprono alla fondazione del “politico statuale” e alla serie delle grandi rivoluzioni della modernità. Insomma il divenire della storia non si arresta mai
E’ necessario quindi usare un altro apparato concettuale. La rottura della dialettica tra capitale e lavoro, tra cooperazione sociale e rapina del “comune” pone fine al ciclo dell’eterno ritorno del “sempre uguale”. Una sorta di cattiva infinità, una dialettica mistificata, che rinvia all’infinito la rottura tra potenza costituente del lavoro vivo ed apparati di cattura del capitale. Non c’è più sintesi né mediazione possibile, il Due non diventa Uno, al contrario l’Uno si divide in Due, come dicevano i rivoluzionari cinesi, rappresentando in una formula sintetica quello “spirito di scissione” di cui parlava Gramsci, influenzato in questo dal sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel.
La rottura della dialettica significa “guerra”, dando a questo termine una valenza più ampia di quella tradizionalmente intesa. Guerra sociale all’interno della globalizzazione,” ma contro chi? Questo tipo di guerra ha, dal punto di vista del comando di capitale, una funzione preventiva rispetto alla potenza eccedente della cooperazione sociale, deve distruggere le sue potenzialità di auto-valorizzazione, di organizzazione autonoma e costruzione di un nuovo potere costituente.
Nella misura in cui tutto il tempo della vita è sussunto nella valorizzazione di capitale cessa ogni criterio di misura del valore basato sul tempo di lavoro individuale. Il valore della ricchezza sociale prodotta in comune è incommensurabile, o meglio può essere misurata solo forzosamente, con un atto di puro comando, in una logica di espropriazione e di rapina.
Il conflitto diventa endemico, in una molteplicità di punti di resistenza e di lotta, dentro tutte le dimensioni del sociale: è interamente biopolitico. Ma il divenire della vita è sempre eccedente, dentro e contro, per un fuori, un oltre rispetto alle leggi, alle norme, ai dispositivi di comando, alla misura ritagliata sulla miseria salariale e lo sfruttamento del lavoro.
L’attuale emergenza del COVID-19 scoperchia tutte le emergenze del modo di produzione capitalistico, ma offre le basi fin da subito per una riappropriazione del “Comune”, a partire dal “capitale fisso”, dalla tecnologia, alla scienza, alle macchine, alla comunicazione informatica e digitale. E’ un campo di battaglia, una guerra, ma come diceva Lenin rispetto alla guerra imperialista, «guerra alla guerra, per la rivoluzione».
Al fondo del vaso di Pandora, abbiamo visto, rimane la speranza: così per noi, ma non si tratta di un sentimento morale o di un orizzonte utopico, ma di un processo immanente e materiale, di costruzione di un nuovo essere sociale.