Da quando il governo ha stabilito che noi dinosauri di fabbrica siamo essenziali l’altro Stakanov, mio fratello Aleksej, ha recuperato una fierezza che neanche stessimo dalle parti del Volga a lavorare al primo piano quinquennale, invece che in questa fabbrica alla periferia del nord-est italiano.
Ogni tanto lo sento persino mormorare tra se e sé «così fu temprato l’acciaio», un tic che credevo avesse perso nel 1970 o giù o di lì.
In realtà neanche lavoriamo in acciaieria e a me sembra tutto quanto una gran fregatura.
Mi basta guardare la lista dei lavori considerati essenziali per capirlo. Ad esempio ci sono gli infermieri e medici, che mai come in questa fase essenziali lo sono stati davvero. Ma il fatto che te lo dicano come fosse una grande scoperta, dopo trent’anni di tagli alla sanità, ecco diciamo che fa un po’ incazzare.
Essenziali anche le categorie del commercio, le commesse e i commessi, gente che vissuto una flessibilità solo subita, che fa rima con precarietà, orari spezzettati e paghe da fame. Guardatevi gli ultimi contratti nazionali della loro categoria e rabbrividite. Adesso i supermercati in cui lavorano devono restare aperti per la necessità di fare la spesa, con il rischio che diventino anche gli unici luoghi di ritrovo .
E dietro ai supermercati ci sono tutti i lavoratori della filiera logistica alimentare che devono continuare a rifornire i negozi e più dietro ancora i lavoratori dei campi e degli allevamenti, in grande parte immigrati. Invisibili di cui nessuno si è mai voluto accorgere, neanche quando han fatto scioperi e lotte degni del vecchio Di Vittorio. Pure adesso nessuno se ne ricorda di loro, che magari stanno in baracche sovraffollate e neppure hanno i documenti. Invisibili ma essenziali.
In mezzo alla filiera, tra i posti in cui cibo e oggetti sono prodotti e quelli in cui sono venduti, ci sono i camionisti, gli unici che incroci ormai nelle strade deserte. Li mandano allo sbaraglio, molte volte senza mascherine sul volto e senza guanti, chi li incrocia per fargli firmare una bolla di consegna o di presa in carico li tratta peggio degli untorelli del Manzoni, neanche al cesso li lasciano andare in molti posti. Lavorano per aziende italiane, ma con contratti di lavoro Slovacchi o Bulgari.
Poi ci sono i rider e i facchini, esecutori di lavoretti per tenere a freno la nostra spesa compulsiva su internet o la nostra impossibilità di uscire di casa. E infine le pattuglie che ti fermano e ti domandano se hai aggiornato la tua collezione di moduli di autocertificazione.
E poi… e poi si potrebbe continuare all’infinito. Che in effetti gli essenziali sono tanti e non c’è davvero ragione di ringalluzzirsi come fa Aleksej
Invece i «non essenziali» sono in primis quelli che possono lavorare da casa. Ad esempio gli impiegati o gli insegnanti, alle prese con lo smart working, che magari hanno dovuto imparare a far funzionare così su due piedi e con i marmocchi che ti strillavano intorno, tappati in tre o in quattro o in cinque o più in 60-70 metri quadri, se ti va bene.
Sempre «non essenziali» sono ricchi manager, ovvero quelli che si sono sempre considerati e si considerano ancora essenziali, che se non ci fossero loro con il loro genio superiore a pensare per tutti chissà di che vivremmo noi povere bestie di lavoratori, schiavi del ventre e del sonno. Ma il decreto non li nomina tra gli essenziali. Vuoi vedere che i padroni non servono poi a molto? Oh lo dice il governo, mica io.
Al capo opposto della piramide sociale ci sono quelli che sono a casa perché è fermo tutto: bar, ristoranti, teatri, pizzerie, concerti, librerie e ancora e ancora.. E questi ora non hanno un lavoro e di conseguenza neanche un reddito, visto che mica sono assunti: sono somministrati, a progetto, a chiamata e in tutte le possibili forme della precarietà escogitate in questi ultimi decenni.
Ecco il discorso sul fatto che abbiano diritto di campare, che ci voglia un reddito universale per consentire a tutti di sopravvivere mi convince di più della retorica sugli eroi. Anche perché sai mai, oggi a te, domani a me, visto che pare che l’economia mondiale stia avendo una botta uguale alla grande crisi del ’29.
Si parla di amplificare le tutele, con l’ estensione del reddito di cittadinanza o stabilendo una misura temporanea di reddito di quarantena
Milton Friedman diceva che, male che vada, per sostenere i consumi si può sempre buttare dei soldi da un elicottero in modo che la gente se li prenda. Lo diceva con disprezzo. Infatti è andata a finire che in Cile l’amico suo Pinochet dagli elicotteri ci faceva buttare non i soldi ma le persone, misura che non aiuta i consumi ma di certo contrae i salari e la spesa pubblica.
Qui da noi invece per fortuna da un elicottero metaforico ci hanno buttato i soldi, ma sono finiti tutti alle banche. A questo giro bisognerebbe invece che arrivassero nelle tasche delle persone, come ha detto Andrea Fumagalli in un’intervista al Manifesto del 20 marzo scorso. E come dice chi sta facendo la campagna per il reddito di quarantena. Il ragionamento mi pare corretto: il diritto all’esistenza non può essere schiacciato dalla difficoltà della sussistenza, anche perché i costi sociali che avremmo nel tempo a venire saranno non solo alti, ma forse persino inesigibili da qualsiasi sistema democratico .
Intanto che attendiamo di sapere come andrà a finire, io me ne vado ancora una volta in fabbrica assieme a mio fratello Aleksej, che in macchina smanetta per cercare di sintonizzarsi su Radio Mosca e ci rimane male quando scopre che trasmette una messa ortodossa per l’animaccia nera di Nicolaj Romanov, un tizio accoppato da gente a cui a avrebbe dovuto dare di che campare finché era in tempo.
Anche oggi lungo la strada incroceremo altre persone, ormai sempre meno. Anche loro, come noi, essenziali. Ci guarderanno con fare interlocutorio
«Ma questi ce l’ hanno il nuovo modello de autocertificazione?»
«Eccome se ce lo abbiamo, siamo essenziali»
«Ma fino a quando?»
«Probabilmente fino a che ci saranno ordini di produzione da evadere»
E che bello sarebbe evadere davvero, ma tutti insieme questa volta.