Per orientarci meglio nell’attuale dibattito economico che sta avvenendo a livello europeo, abbiamo intervistato Christian Marazzi, economista che attualmente insegna alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana e che ha scritto, tra le altre cose, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica (1999), Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale (Ombre corte, 2010), Diario della crisi infinita (2015).
Siamo di fronte alla più grande crisi sistemica dopo quella del 2008. Quali sono, a tuo avviso, i principali elementi di continuità sul piano economico e sociale?
Il punto di continuità è quello del trovarsi di fronte a un crollo, sia sul fronte dell’offerta che su quello della produzione di valore. Quest’ultima dovuta semplicemente al fatto che una parte della produzione su scala nazionale e mondiale sia bloccata per evidenti ragioni sanitarie. Anche il crollo della domanda è sicuramente un elemento che ha una somiglianza con la crisi del 2008.
Qui però si fermano le similitudini e si arriva invece alle differenze. Mentre alla crisi del 2008 si era arrivati con un’evidente bolla speculativa sui titoli di Stato e titoli borsistici legati al settore immobiliare, qui arriviamo alla stessa situazione di crisi attraverso un elemento che ha sì a che fare con la globalizzazione – in particolare con lo stress imposto dalla finanziarizzazione a tutti i livelli e soprattutto sul piano ambientale -, tuttavia resta pur sempre un elemento relativamente esogeno, pur rimanendo dentro a quello che è stato un evidente maltrattamento del pianeta e dell’ambiente da parte della logica e delle pratiche capitaliste.
Nei tuoi scritti hai spesso utilizzato il concetto di “stagnazione permanente”, quanto meno per definire quello che stava succedendo a livello economico dopo la crisi del 2008-2011. In che modo secondo te questo evento pandemico può incidere in un processo di lungo periodo legato alla stagnazione, e quali possono essere invece elementi di rottura?
Questa stagnazione secolare si è instaurata a partire dal 2008 a causa delle politiche di austerità da una parte, che hanno ridotto il reddito da un punto di vista della sua origine redistributiva, e a causa della precarizzazione del lavoro. A questa mancanza di domanda a fronte di un’offerta di produzione di merci, che è comunque cresciuta, sono subentrate le politiche monetarie delle varie Banche Centrali che hanno comportato l’aumento dei debiti pubblici e soprattutto privati e che hanno quindi caratterizzato questa decina di anni di stagnazione secolare. Questa ha comportato un aumento vertiginoso delle disuguaglianze un po’ ovunque, in occidente e non solo.
Tale fattore fa in modo che la crisi odierna vede confrontarci all’apparenza con lo stesso nemico, ma che in realtà si tratta un “virus di classe”, nel senso che ha effetti differenziati sulle classi sociali. Da un punto di vista anagrafico colpisce maggiormente la popolazione anziana, ma da un punto di vista economico-finanziario colpisce molto di più quelli che sono i vettori più strategici dell’economia, cioè coloro che lavorano nel settore sanitario o in quello della logistica, che però si trovano ad avere delle condizioni remunerative decisamente precarie. Questo è ciò che questa crisi ci permette di dire, guardando a come ci si è giunti.
In questo periodo si sta riaprendo un dibattito che forse per la prima volta sta mettendo in discussione i modelli di gestione del debito e della spesa pubblica della governance europea. È possibile secondo te aprire un ciclo espansivo e redistributivo senza intervenire in maniera strutturale sul patto di stabilità e in generale sui parametri di Maastricnt?
Premetto che da questa crisi è possibile uscirne con il rilancio di uno Stato Sociale nuovo, rispetto a quello bistrattato nel corso degli ultimi 30 anni. Uno Stato Sociale che punta su settori quali la sanità, la socialità, la cultura, la ricerca, la formazione e l’ambiente. Quindi uno Stato Sociale che sostiene e promuove un modello antropogenetico, basato quindi sulle attività umane per l’uomo, piuttosto che su quelle fatte esclusivamente per la produzione di merci.
Tutto questo, però, appartiene all’ordine del possibile e dipenderà molto da come ne usciremo, ad esempio, in termini di modalità di finanziamento e di distribuzione del debito pubblico, che ovviamente è destinato a crescere vertiginosamente nei prossimi mesi a causa delle misure d’intervento a sostegno sia della domanda che dell’offerta.
Le modalità di finanziamento del debito pubblico decidono in parte quella che sarà la durata di questo Stato Sociale, o le possibilità di affermazione di questo.
Se in Europa non ci si emancipa da quelle che sono state le condizioni stringenti che hanno portato alla crisi del 2010-2012 (per esempio in Grecia, ma non solo), dai parametri di Maastricht e dalle condizioni di austerità imposte agli aiuti erogati dal Fondo Salva Stati, non vedo come sia possibile uno Stato Sociale che abbia la capacità di durare oltre alla crisi che stiamo vivendo. Vedo piuttosto l’acuirsi del rischio di una lotta tra stati membri per appropriarsi dei capitali in circolazione nei mercati finanziari, per il finanziamento dei propri debiti pubblici.
Quindi credo che sia auspicabile perseguire nelle politiche di mutualizzazione dei rischi, ma anche dei finanziamenti dei debiti pubblici degli stati membri, perché se non si fa così penso ci avvieremo purtroppo verso un sovranismo dei rispettivi debiti pubblici su scala europea.
L’attuale crisi sta anche riaprendo lo spazio per una battaglia storicamente strategica per i movimenti, quella del reddito e del quantitative easing for the people. È possibile, in questo contesto, spingere per una nuova fiscalità a livello europeo che abbia un’ottica redistributiva, e che si intrecci con le cose che hai appena detto a proposito di un nuovo modello di Welfare?
Sono convinto che un quantitative easing for the people, cioè una redistribuzione diversa, per esempio di questi 750 miliardi che la BCE ha stanziato per intervenire sui titoli pubblici detenuti dalle banche dei vari paesi, sia all’ordine del giorno. Quindi serve un reddito di cittadinanza che sia un’alternativa alle misure di quantitative easing che abbiamo visto negli ultimi anni, perchè abbiamo visto che molte di queste iniezioni di liquidità da parte della BCE non sono andate a finire nell’economia reale, tantomeno nelle tasche dei cittadini europei, bensì nei mercati finanziari. Le politiche di quantitative easing non hanno realmente contribuito a uscire dalla stagnazione secolare di cui si diceva prima.
Io credo sia decisamente importante rivendicare un reddito di cittadinanza che, notate bene, si aggiunga alle prestazioni sociali, alla rete di sicurezza sociale vigenti negli stati membri, e non in sostituzione. Anche perchè, qualora si dovesse uscire da questa situazione emergenziale, molte delle imprese che riusciranno a sopravvivere nel lungo periodo saranno indebitate, e quindi l’esistenza di una domanda solvibile, in virtù di questo quantitative easing for the people, sarà fondamentale per permettere loro di riprendere a produrre e creare ricchezza, proprio perché esista una domanda pronta ad assorbirla. Altrimenti, si rischia veramente una depressione di lunga durata.
C’è quindi anche una valenza positiva dal punto di vista macroeconomico nell’idea di reddito di cittadinanza. Ma c’è soprattutto una questione legata ai nuovi modi di produrre, in particolare alla digitalizzazione, perchè con un reddito di cittadinanza finalmente si può riconoscere tutta la produzione di ricchezza che noi facciamo gratuitamente in conseguenza di questi nuovi modi di lavorare. Questo a maggior ragione in una fase in cui aumenterà il lavoro a distanza (online, smart working, ecc), dentro il quale la quantità di lavoro gratuito che si sta accumulando è decisamente importante.
A mio avviso è necessario mobilitarsi su questo tema e penso che bisogna farlo non solo a livello nazionale, ma su scala europea. È una cosa che abbiamo già detto e ripetuto in passato, ma la caratteristica di questa crisi è quella di disvelare cose che noi abbiamo intercettato da tempo e che, per questioni di rapporti di forza e di modalità particolari di crescita del capitale, erano rimaste sotto traccia. Questa crisi da una parte disvela tutte le contraddizioni del capitalismo finanziario e globale che abbiamo visto e vissuto in questi ultimi decenni, dall’altra porta anche forme di soggettivazione, pensiero critico e sperimentazione che sono rimaste in qualche modo nascoste, o non hanno avuto la possibilità di esplodere su una scala maggiore, in particolare europea. È necessario muoversi in questa direzione.