Per la prima volta nella sua storia il governo italiano ha dichiarato che il paese non può essere definito “sicuro” a causa della pandemia di coronavirus, per non permettere alle navi di soccorso di attraccare nei porti italiani. In un decreto firmato il 7 aprile la ministra dell’interno Luciana Lamorgese, il ministro della salute Roberto Speranza e la ministra dei trasporti e delle infrastrutture Paola De Micheli affermano che a causa dell’epidemia non può essere garantita la sicurezza ai migranti che sono stati soccorsi al largo della Libia, paese da cui nelle ultime settimane sono ricominciate le partenze, anche in seguito al miglioramento delle condizioni meteorologiche.
Quasi tutte le navi di soccorso hanno sospeso la loro attività a causa dei timori per la sicurezza degli equipaggi, l’unica nave attiva è la Alan Kurdi della ong tedesca Sea-Eye, che ha compiuto un salvataggio al largo della Libia il 6 aprile e ha soccorso 150 persone. La nave ha chiesto un porto di sbarco all’Italia e a Malta, ma per ora non gli è stato concesso da entrambi gli stati. La nave al momento si trova al largo di Lampedusa, al limite delle acque territoriali italiane. A Lampedusa intanto sono ricominciati gli sbarchi di migranti a bordo di barchini arrivati autonomamente, le persone arrivate sono state messe in quarantena nell’hotspot.
Nonostante l’emergenza di coronavirus, le persone stanno ancora partendo dalla Libia, un paese nel caos dal 2011 e in cui è ricominciata la guerra un anno fa, nell’aprile del 2019. Almeno ottocento persone hanno lasciato il paese a bordo di imbarcazioni precarie, secondo l’Alto rappresentante delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).
In Italia le associazioni hanno contestato il decreto, perché sospende il diritto internazionale che obbliga al soccorso in mare. In un comunicato le associazioni del tavolo asilo hanno espresso preoccupazione: “La dichiarazione appare inopportuna e non giustificabile in quanto con un atto amministrativo, di natura secondaria, viene sospeso il diritto internazionale, di grado superiore, sfuggendo così ai propri doveri inderogabili di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita. Si attacca ancora una volta il concetto internazionale di porto sicuro, la cui affermazione ha trovato conferma nelle decisioni della nostra magistratura”.
La definizione di “place of safety” (luogo sicuro) è stata infatti al centro di numerose discussioni e sentenze della magistratura negli ultimi anni, perché la Libia, secondo il diritto internazionale, non è un luogo sicuro in cui far attraccare le navi di soccorso, perché non riconosce la Convenzione di Ginevra del 1951. Su questo si sono pronunciati i giudici dei tribunali italiani, dando ragione alle navi che soccorrono i migranti al largo del paese, a bordo di imbarcazioni precarie, soprattutto dopo che nel giugno del 2019 è entrato in vigore il cosiddetto decreto sicurezza bis, voluto dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini che di fatto chiudeva i porti alle navi delle organizzazioni non governative. Le associazioni del tavolo asilo hanno ribadito che, anche in questo momento difficile per l’Italia, “la Libia è un paese in guerra, dove i migranti sono oggetto di torture e schiavitù”.
Anche le ong che compiono soccorsi in mare criticano il provvedimento in un comunicato congiunto: “Senza fornire alternative per salvare la vita di chi scappa dalla Libia, l’Italia ha privato i suoi porti della connotazione di luoghi sicuri, propria di tutti i porti europei, equiparandosi a paesi in guerra o dove il rispetto dei diritti umani non è garantito e operando una selezione arbitraria di navi a cui l’accesso è negato. Sarebbe stato possibile trovare molte soluzioni diverse, conciliando il dovere di garantire la salute di tutti a terra con quello di soccorrere vite in mare, un dovere che non può mettere sullo stesso piano le navi di soccorso con le navi da crociera”.
Un gruppo di parlamentari ed europarlamentari ha chiesto al governo di revocare il decreto: “Pensiamo che di fronte a una situazione che, pur non registrando flussi particolarmente intensi non esclude la necessità di impedire che le persone perdano la vita nel Mediterraneo centrale, sia necessario e possibile mettere in atto un protocollo di sicurezza che garantisca la tutela della salute e l’efficacia della battaglia contro il virus, senza pregiudicare la nostra civiltà giuridica e la sicurezza di tutti”.