PER IL SUPERAMENTO DEL NICHILISMO

DI Flores TOVO

Comedonchisciotte

Come si sa, dopo lo scioglimento dell’URSS il 31 dicembre del 1991, anche l’ultima grande ideologia, ormai già agonizzante, ossia il comunismo marxiano, scomparve praticamente dalla mente di tutti. Rimase sulle sue macerie il trionfo del nichilismo ideologico, ossia della quella dimensione “spirituale” in cui non vi sono più certezze in tutti i campi culturali ed esistenziali. Trionfo che, parimenti, portò alla vittoria del capitalismo assoluto e della società aperta cosiddetta liberal-liberista. Una fine delle certezze che va a significare fine di ogni credenza assoluta, delle religioni, del sacro, dell’etica, dell’estetica, dell’epistème scientifica: insomma la fine di tutto ciò, come già anticipava lo scettico Wittgenstein un secolo fa, di cui “non si può parlare”. Ma il nichilismo non segna solo la fine delle ideologie, ma segna anche, come scriveva Guènon, l’imposizione del regno della quantità, del semplice numero, che nella vita attuale si dispiega come vita anonima, minimale, sempre alla ricerca di beni di consumo per lo più inutili. Una vita senza scopi, senza tensioni per alcunché che trascendano la propria piccola realtà: l’unico valore che conta è l’attaccamento a codesta vita stessa, contrassegnata dalla paura della morte, come ben si può osservare ai nostri giorni. Del resto si può anche comprendere l’odierno terrore collettivo mondiale: la paura è, infatti, la situazione emotiva caratteristica dell’esistenza inautentica alienata (Heidegger), in quanto all’umanità non è rimasto altro che il preservare la propria singola contingenza esistenziale. Oltre, infatti, non c’è che il nulla.
Ora ci si pone la domanda: come si è arrivati a tutto questo? Per cercare di rispondere, sia pure parzialmente, a questa domanda decisiva, bisogna rivolgere uno sguardo pensante a due filosofi contemporanei che più di tutti hanno approfondito questo tema, fino a portarli alla follia o alla depressione sia pur temporalmente limitata: ovvero Nietzsche e Heidegger. Due pensatori che ormai nella letteratura filosofica vengono presentati come complementari, si veda ad esempio Hegel e Marx, ma che in realtà esprimono vedute del tutto diverse. Si tratta quindi di esaminare il loro rapporto.
In un qualsiasi manuale di filosofia di Liceo Nietzsche viene presentato come il distruttore delle certezze, come colui che annuncia la morte di Dio, come il nichilista perfetto che nega qualsiasi verità che non sia fondata sulla superomistica volontà di potenza. Zarathustra è uno scettico radicale (così sta scritto nell’ “Anticristo”). Nietzsche, perciò, dovrebbe essere considerato, a rigore, il filosofo antimetafisico per eccellenza, che previde in modo straordinario la vita del nostro tempo.
Eppure Martin Heidegger, nel suo monumentale libro “Nietzsche”, lo definisce come l’ultimo metafisico, in quanto la sua filosofia non è una semplice metafisica, ma l’ultima metafisica. E poiché per Heidegger filosofia e storia, sulla scia del pensiero di Hegel, sono la stessa cosa, egli ritiene che la filosofia di Nietzsche rappresenti in Occidente, che è la terra del tramonto, il compimento della storia dell’esserci umano e dell’Essere, in quanto la metafisica è lo studio pensato sull’Essere nel suo rapporto di coappartenenza con l’esserci. Nel libro secondo della sua opera, e precisamente nei due capitoli intitolati “La metafisica di Nietzsche” e “La determinazione del nichilismo”, Heidegger spiega con chiarezza il perché Nietzsche, proprio perché nichilista, è l’ultimo metafisico.
Prima però di continuare l’analisi del tema proposto, è necessario stabilire che cosa s’intende per metafisica, per chiarire meglio i termini della questione. Nella tradizione filosofica la metafisica è, come scriveva Aristotele, la filosofia prima. In estrema sintesi è la scienza del vero che studia l’Essere in quanto Essere, le cause e i principi primi. Quindi proprio per questo la metafisica studia pure Dio, diventando perciò una onto-teologia. Tuttavia per Heidegger la metafisica occidentale, a partire da Platone, per arrivare sino a Nietzsche, è stata soltanto una fisica, poichè v’è stato un profondo fraintendimento logico ed ontologico fra Essere ed ente, col risultato di scambiare l’ente (il molteplice, i singoli oggetti fisici, tra cui l’uomo) con l’Essere, che, in quanto tale, è ineffabile ed inafferrabile, poiché è il principio che permette la manifestività degli enti fisici, ossia il principio che entifica gli enti. Il principio è in sé coglibile soltanto con una intuizione intellettuale (una proprietà del pensiero che trascende l’esperienza) perché, essendo il principio che si dispiega in tutte le sue parti, è impossibile conoscerlo attraverso i sensi che colgono appunto solo le parti e mai l’uno da cui tutto deriva. I primi grandi pensatori greci, in particolare Eraclito (fr. 50 “Prestando ascolto non a me, ma alla ragione, è saggio convenire che tutte le cose sono uno”) e Parmenide (fr. 2 “Ora, io ti dirò…quali sono le vie di ricerca che si possono pensare: l’una che è, e che impossibile che non sia – è il pensiero della Persuasione, perché tien dietro alla verità…), pensavano alla verità come alètheia, tradotta come non-nascondimento, poiché la verità dell’Essere implica sempre un co-originario nascondersi di essa e un suo disvelamento, e così pensava Heidegger. L’Essere, infatti, come principio non può, secondo costoro, essere conosciuto nella sua “realtà” se non in modo riflesso da parte dell’ente. La verità a cui possiamo attingere è quella più o meno piccola parte di verità che ci viene donata dall’Essere (c’è da aggiungere che pure Plotino, S. Agostino, Dionigi Areopagita, Cusano, Bruno, Lutero ed altri mistici tedeschi pensarono al tema della verità in questa direzione). Ma il pensiero dominante che ha prevalso in Occidente è stato quello di Platone, Aristotele, S.Tommaso, Cartesio, che hanno ritenuto che la verità fosse attingibile attraverso l’uso corretto dell’intelletto umano rispetto la realtà che si rappresenta (adaequatio rei et intellectus). Heidegger “incolpa” Platone nel suo saggio “La dottrina platonica della verità” e in altri successivi (che stanno quasi tutti nella raccolta “Segnavia”) di aver mutato profondamente il rapporto di coappartenenza Essere-esserci, in quanto l’esserci ha avuto la pretesa di conoscere la verità in sé (l’idea in Platone, poi la sostanza in Aristotele, il cogito ergo sum in Cartesio, ecc.) e quindi, di fatto, di essersi sostituito all’Essere. Da questa pretesa è nato quell’oblio dell’Essere, che è un frutto insano perché esprime un atto di arroganza che non ha tenuto conto della differenza ontologica fra Essere ed esserci. Con Platone, che per Heidegger è il fondatore della metafisica occidentale, l’esserci è caduto nell’erranza e questa “… fa parte della costituzione intrinseca dell’esser-ci in cui l’uomo storico è coinvolto” (1). Cosicchè la metafisica non è stata una corrente filosofica come tante altre, bensì la configurazione stessa dell’Essere nel corso della storia umana occidentale in tutte le sue attività (scienza, arte, etica, religione, ecc.) e nelle sue varie epoche: una configurazione in cui, alla fine del percorso, dell’Essere stesso non v’è più nulla, poiché l’esserci è precipitato in codesta erranza. La riduzione dell’Essere a idea o valore, a materia e forma, a soggetto pensante in grado di legiferare sulla natura come in Cartesio, (ma anche in Kant, sia pure al di dentro di limiti empirici), ha condotto il pensiero a quel progressivo oblio dell’Essere, che alla fine coincide col nichilismo che porterà all’evento dell’abbandono dell’Essere. Nietzsche, con l’idea di superuomo e di volontà di potenza, ha portato al compimento questa configurazione alienata rispetto all’Essere, in quanto il superuomo è la soggettività compiuta che si estrania completamente dell’Essere stesso. Tale soggettività è, quindi, per Heidegger il perno teorico su cui si fonda la metafisica di Nietzsche. Questi afferma, infatti, in molti suoi aforismi, che il superuomo deve imprimere la sua volontà di potenza all’Essere stesso. Si ottiene così il rovesciamento della differenza ontologica: l’ente umano, l’esserci, addirittura “vuole” imporre all’ Essere la propria volontà di potenza. Il divenire, che è tempo ed Essere oltre che pensiero e volontà, viene forgiato dall’uomo-superuomo, che celebra se stesso nell’apoteosi del dionisiaco Eterno ritorno dell’Uguale. La verità stessa, scrive Nietzsche, diventa “… quel genere di errore senza cui un determinato genere di esseri viventi non potrebbe vivere” (2). Il superuomo s’incarna come il detentore della “verità”, la quale viene imposta dalla sua volontà di potenza (intesa come arte, politica, ed etica vissuta appunto nella dimensione dell’Eterno ritorno dell’Uguale)). Un superuomo che Jünger individuò come il “Tecnico”, ovvero colui che è il padrone del “Gestell”, cioè di quell’impianto o dispositivo che tutto livella ed omologa. Non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che viene sancito come vero da chi ha i mezzi ed la forza per imporlo, “poiché la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione…” (Al di là del bene e del male”). Nietzsche è il Gorgia da Lentini moderno, uno “scriba del caos”. In tal modo, dice Heidegger, l’Essere stesso rimane impensato, poiché il pensiero è tutto rivolto all’ente umano e agli enti in quanto tali. Dell’Essere stesso non vi è quindi più niente: la metafisica che si è rivelata nell’Occidente si è posta perciò come nichilismo assoluto; e Nietzsche, proprio perchè esalta l’uomo-superuomo, si palesa come l’esecutore ultimo del nichilismo. Egli stesso, del resto, si dichiarava nichilista perfetto. Ma così “…l’Essere stesso rimane impensato…”, e cioè… “rimane assente e come tale rimanere assente l’Essere stesso è essenzialmente (west)” (3). Il ritirarsi dell’Essere fino a restare assente nel suo abbandonarci è la storia stessa dell’Essere nell’esserci. Il superuomo stabilisce la definitiva lontananza dell’esserci nei confronti dell’Essere. Egli non rappresenta un ideale soprasensibile, bensì:
“… non è nemmeno una persona che a un certo punto si annunci e compaia da qualche parte. E’ in quanto soggetto della soggettività compiuta, il puro attuarsi della volontà di potenza… il superuomo vive in quanto la nuova umanità vuole che l’Essere dell’ente sia la volontà di potenza” (4).
La volontà di potenza è l’essenza stessa di un “Essere” inteso come immanente vita dionisiaca, come esistenza finita, in cui viene esclusa ogni trascendenza. Il senso della vita diventa la vita stessa nella sua totale finitudine. Qui sta, secondo Heidegger, l’errore fondamentale del pensare nicciano: il credere che la volontà di potenza, pur inserita nel dionisiaco Eterno ritorno dell’Uguale, sia l’essenza, il ciò che è permanente nella natura stessa. Lo stesso Evola riconobbe questo errore poiché, in realtà, la volontà di potenza non è altro che una delle possibili determinazioni dell’Essere. L’Essere, si è detto, è ineffabile come principio, e le sue determinazioni possono essere il pensiero, il tempo, il sentimento, la volontà e così via. Risulta qui chiaro che l’influenza schopenhaueriana, espressa col concetto-base della “volontà di vivere” intesa come noumeno o come “cosa in sé”, sia decisiva per Nietzsche, sebbene egli specifichi la genericità di tale principio rivedendolo con quello di volontà di potenza, che di per sé implica l’atto; il che vuol dire che la potenza si muove verso una finalità (l’atto) che il superuomo pone e si pone. Evola, invero, a differenza di Heidegger, ammetteva che nella via del superuomo disegnata da Nietzsche ci sono tratti positivi, come il principio di non obbedire alle passioni, l’indifferenza verso la felicità e quindi il rifiuto dell’edonismo moderno, l’arrogarsi il diritto ad atti eccezionali, l’essere duri di fronte la vita, e così via. Il superuomo, diceva Evola, può quindi prefigurare, sia pure inconsapevolmente, la dimensione della trascendenza, e perciò, diciamo noi, ad un ristabilimento della differenza ontologica fra Essere ed esserci (5).
Resta il fatto che se l’Essere viene determinato come valore, cioè come volontà di potenza, esso viene spiegato come ente determinato in quanto tale e non come Essere. “Per il rappresentare, che nel pensare per valori guarda alla validità, l’Essere rimane, già riguardo alla problematicità dell’ “in quanto Essere”, fuori campo. Dell’Essere in quanto tale non ne “è” niente: l’Essere – un nihil” (6). Qui si rileva l’essenza del nichilismo nella sua “vuota” interezza.
Indubbiamente Nietzsche nelle sue opere si palesa, come si diceva, un genio della preveggenza, che lo fa trasfigurare come un profeta vero e proprio, nel senso etimologico ebraico, cioè di una persona che “prevede prima degli altri” quello che sarà il futuro. E in effetti, la morte di Dio con il conseguente ateismo di massa e l’affermarsi di un nichilismo perfetto, quantunque passivo, sono gli eventi “spirituali” che raffigurano il nostro tempo. Egli è, inoltre, l’annunciatore, non tanto del superuomo artista e creatore che egli bramava essere e che sperava nascesse almeno in alcuni uomini, ma dell’ultimo uomo, anonimo, consumista e gaudente che non crede più a nulla. Nietzsche è, in conclusione, il filosofo massimo che prefigura la (non) spiritualità del nostro tempo. Si tratta, quindi, di superarlo e andare oltre il suo nichilismo.
Bisogna cioè ripensare completamente ad una nuova metafisica per riedificare un rapporto con l’Essere: una metafisica che ritorni ai padri del pensiero: ad Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Lao-tzu, alle Upanishad. Il nichilismo ci sta portando al delirio e alla perdita di ogni senso. Inutile descrivere ciò che sta accadendo. E’ necessaria allora la ricostruzione di verità salde, che siano conformi alla natura propria dell’essere uomini (lo Stoicismo ci insegna qualcosa a riguardo col principio del “vivi secondo natura”), senza il fanatismo dell’assolutezza, che ci aprano comunque ad un forte ancoraggio verso l’Essere. Ciò significa far rinascere il sentimento del sacro verso la natura e la trascendenza divina, il senso della comunità e il pensiero dell’equilibrio armonico, in senso anche economico-sociale. E’ e sarà uno sforzo titanico, forse ormai troppo grande, ma che spetterà agli uomini venturi tentare di affrontare.

NOTE:
1) M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, sta in “Segnavia”, ed. Adelphi, Milano 1987, p. 151.
2) F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, ed. Bompiani, Milano 1994, p.376.
3) M. HEIDEGGER, Nietzsche, ed. Adelphi, Milano 1994, p. 824.
4) IDEM, op. cit., pp.783-784.
5) J. EVOLA, Cavalcare la tigre, ed. Scheiwiller, Milano 1971, pp. 50-53.
6) M. HEIDEGGER, op. cit., p.812.

Rovigo, 6/4/2020
Flores TOVO

Fonte: comedonchisciotte.org

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