El-‘Aqila – pronunciato in dialetto «el-‘Aghila», in arabo standard «al-‘Uqaylah» – è una piccola città affacciata sul Golfo di Sirte. Nel suo entroterra, nel 1930, il governatore della Libia Pietro Badoglio e il vicegovernatore della Cirenaica Rodolfo Graziani fecero costruire un campo di concentramento in cui furono rinchiusi, nei due anni successivi, circa trentamila cirenaici, in gran parte donne e bambini. Molti uomini furono messi – e sovente fatti morire – ai lavori forzati, per costruire le mitiche strade con le quali ancora ce la menano gli apologeti del nostro colonialismo: «In Africa abbiamo fatto le strade!».
L’autore del poema che stiamo per farvi leggere e ascoltare, Rajab Hamad Bu-Huwayish al-Minifi, aveva combattuto da partigiano contro l’occupazione fascista. Proveniva dalla regione di al-Butnan, a cavallo tra gli attuali Egitto e Libia, con la città di Tobruq come capoluogo. La distanza tra queste zone e il campo di concentramento era di circa 500 chilometri, che i deportati furono costretti a percorrere a piedi, a tappe forzate.
Su come nacque il Canto del campo di el-‘Aqila – noto nel mondo arabo col titolo Ma bi marad, la mia sola malattia – abbiamo la testimonianza diretta di un compagno di prigionia dell’autore, Ibrahim al-Ghomary, l’uomo che trascrisse la composizione orale di al-Minifi:
«[…] Quindi mi ha chiesto: “Per favore, Ibrahim, va’ a cercare una matita e dei fogli! Vorrei dettarti delle parole che hanno attraversato il mio spirito ieri sera.”. Sono quindi andato all’ufficio in cui sono conservati i dossier sui detenuti: lì ho trovato un funzionario, un tale Mohammed al-Masdour, che conoscevo bene, e l’ho pregato di darmi una matita e dei fogli, cosa che ha fatto. Al mio ritorno, Rajab Bu-Huwayish al-Minifi mi ha dettato le prime parole del suo poema […]»
La citazione è tratta dalle memorie di al-Ghomary, Ḏikrāyāt muʻtaqal al-ʻaqīlah (Memorie del campo di al-‘Aqila) e ci arriva tramite la raccolta Le livre du camp d’Aguila, a cura di Kamal Ben Hameda, Elzayd, Tunisi 2014.
Nell’autunno del 2015 Federico Pozzoli, giovane studioso di lingue e culture arabe, contattò il progetto Resistenze in Cirenaica, offrendosi come traduttore di letteratura libica anticoloniale da musicare e leggere durante gli happening e i trekking urbani di RIC. Ci propose in particolare due testi: il poema di al-Minifi e il racconto Mismār li-Mūssūlīnī (un chiodo per Mussolini) di Ali Mustafa al-Misrati.
Di quest’ultimo si può ascoltare un estratto, letto da Wu Ming 1 su un tappeto di suoni generato dal polistrumentista e compositore Guglielmo Pagnozzi. L’esecuzione live era parte di una serata di Resistenze in Cirenaica al Vag61 di Bologna, 22 gennaio 2016.
Sul poema di al-Minifi, invece, cominciò allora un lungo lavoro di riduzione, adattamento e sonorizzazione da parte di Wu Ming 1 e del Bhutan Clan, la resident band di RIC. Dal 2016 a oggi versioni del Canto del campo di el-‘Aqila sono state eseguite dal vivo in molte occasioni.
Il Bhutan Clan detiene anche un record: fu l’ultimissima band a suonare all’XM24, nella sede storica di via Fioravanti già minacciata di sgombero, e proprio il Canto del campo di al-‘Aqila fu l’ultimo brano in scaletta. Era il 25 luglio 2019. XM24 fu sgomberato, con tanto di ruspa, il 6 agosto.
Il 12 novembre 2019 abbiamo suonato dal vivo a Radio Solipsia, presso la sede di Dobrinski Pro-Dischi Records in Piazza di Porta Mascarella, Bologna. Per la prima volta ci siamo avvalsi di una registrazione professionale. Il Canto del campo di al-‘Aqila è stato poi missato e masterizzato da GiroWeedz, che ringraziamo di cuore. Doveva fare ancora qualche ritocco, ma per l’emergenza coronavirus ha dovuto chiudere lo studio. Lui lo considera poco più di un raw mix, ma per noi è già un gran bel lavoro.
Ve lo proponiamo all’ascolto, pubblicando anche il testo per consentire di seguirlo. Non sappiamo quando sarà possibile tornare a fare reading e concerti dal vivo. Rendere disponibile questo brano è per noi anche un auspicio, un rito apotropaico, per tornare quanto prima a girare.
Ascoltato in questi giorni di cattività e nuove clandestinità, il testo del Canto di el-‘Aqila si arricchisce di riverberi, ogni frase, ogni parola ne risulta ulteriormente connotata. Il prigioniero ripete, all’inizio di ogni stanza, che ciò di cui è ammalato è la prigionia stessa, male che affligge anche i molti bambini chiusi nel campo. In tutto il poema ricorre l’opposizione tra la vita di prima, la vita libera del pastore, e l’attuale condizione di cattività e lavoro forzato. Una cesura che diverrà vera e propria beffa dopo la fine dell’internamento, quando gli ex-prigionieri torneranno alle loro terre e le scopriranno occupate dai coloni italiani, finendo spesso a lavorare come braccianti nei loro stessi campi.
Il testo non nomina direttamente Omar al-Mukhtar, il più importante comandante partigiano libico, impiccato dai fascisti nel lager di Soluch quello stesso anno. Usa invece un epiteto piuttosto criptico: «il pastore di Mujammam». Tutti i commentatori e i traduttori, arabi e occidentali, concordano però nel riferire l’ultima stanza del poema al condottiero senussita, il «Leone del deserto». Nella nostra versione, abbiamo esplicitato il riferimento.
La pubblicazione del Canto del campo di el-‘Aqila è il nostro primo contributo al 25 Aprile 2020, nell’impossibilità di celebrarlo come quelli degli anni scorsi, e in attesa di celebrare quelli a venire in modi nuovi, ma sempre coi corpi.
Perché i corpi torneranno a occupare le strade.
Perché senza i corpi non c’è Liberazione.
Buon ascolto.
Canto del campo di al-‘Aqila
Traduzione di Federico Pozzoli
Riduzione e adattamento ritmico di Wu Ming 1
Musiche: Bhutan Clan
Jadel Andreetto – basso
Stefano D’Arcangelo – tastiere / elettronica
Bruno Fiorini – chitarra
Michele Koukoussis – batteria
Wu Ming 1 – voce
■ Streaming su Vimeo
■ Download
(cartella zippata con file Wav e Mp3 320k)
Non ho altra malattia che il campo di el-‘Aqila
la prigionia della cabila
la distanza dalla mia terra lontana.
Non ho altra malattia che la durezza degli stenti
la scarsità degli alimenti
la perdita del compagno dalle nere zampe.
Il mio cavallo, quando correva in battaglia,
stendeva il lungo dorso, impossibile trovarne
uno che lo eguagli.
Non ho altra malattia che il ricordo degli al-Harabi
i migliori dei miei compagni
al galoppo
sui loro cavalli correvano, colpivano
i proiettili intorno fischiavano
chi cadeva lo portavano in salvo
sulle loro selle, al loro coraggio
va il mio rispetto.
Non ho altra malattia che le uccisioni dei miei cari
allevatori di dromedari
venivano al soccorso sui dorsi dei loro destrieri
andati in un niente
davanti ai miei occhi
non ho trovato la forza
sono rimasto a guardarli morire.
Non ho altra malattia che l’infinita attesa
la mia dignità offesa
la scomparsa dei valorosi, mio vero tesoro
Yunus, degno della fama di al-Hilal,
orgoglio della cabila,
e Mohammad, e abd al-Karim al-‘Azila
e il mio compagno bu-Husayn, uomo generoso
e al-‘Ud, e come lui altri ancora
senza battaglia se ne sono andati, senza difesa.
Non ho altra malattia che il lavoro alle strade
la vita da miserabile
senza un boccone da mandare giù quando torno
Non ho altra malattia che le botte alle donne
le loro pelli nude
per loro non un giorno né un’ora di pace.
Non ho altra malattia che il prolungarsi
dell’agonia
catene sulle mie spalle
paziente come un pastore ma senza un solo animale
senza i compagni che resistevano, campioni della cabila.
Non ho altra malattia che gli accampamenti distrutti a cui non tornerò
non vi aleggiavano un tempo queste sofferenze
Solo un dolore opprimente rimane a chi è partito in una lunga fila
dietro a una lingua più appuntita di un proiettile.
Non ho altra malattia che quel loro «Picchiateli! Non risparmiateli!
Con la spada costringeteli a qualunque lavoro!»
Costretti a vivere con gente sconosciuta è ben misera vita
Solo l’Onnipotente può dar forza alla mia mano.
Non ho altra malattia che la perdita dei coraggiosi
il potere di uomini disgustosi
i loro volti che traboccano disgrazie e carestie
e quanti bambini sotto i colpi della frusta hanno perso i sensi
i maledetti li consumano prima che crescano forti.
Non ho altra malattia che la prigionia dei nobili
i miei giorni terribili
il capo sempre a picchiare gli uomini indomiti
a insultare con la sua lingua rovente, con le sue parole laide
tu temi che ti metta a morte e non osi ribattere
Non ho altra malattia che le mura del campo attorno
le nere guardie
il filo spinato che ci chiude la via del ritorno
Non ho altra malattia che l’avversità delle mie stelle
le mie cose rubate
il minuscolo alloggio dove mi sdraio distrutto
il cavaliere che un tempo, al momento dello scontro,
faceva scudo ai bambini
ora implora dietro a una scimmia senza coda
passo i giorni a lamentare la mia disgrazia, umiliato
e non so spezzare le catene.
Non ho altra malattia che la perdita della mia terra
la morte dei miei cari
mi strugge la nostalgia per la regione dei Sa’hadi
prego il Misericordioso, mio unico sostegno
che si affretti a liberarci
prima di trenta notti da questo triste peso.
Dio solo è eterno, e Omar al-Mukhtar ci ha lasciati
le tenebre dell’oppressione coprono la luce
non fosse per il pericolo che corro a parlarvi potrei lodarlo
raccontare il suo eroismo e il suo coraggiosi
Non ho altra malattia che lo scorrere del tempo,
la mia lingua tenuta a freno
ho evitato sempre di offendere ed eccomi offeso
i miei uomini una volta erano il mio orgoglio, giusti e generosi
fermi di fronte al nemico mentre fischiano i proiettili
Dio solo è eterno, e Omar al-Mukhtar ci ha lasciati.
Dio solo è eterno, e Omar al-Mukhtar ci ha lasciati.
Di solo è eterno, e Omar al-Mukhtar ci ha lasciati.
Altre letture
I libri del nostro «Dittico postcoloniale»: