Riceviamo da un nostro lettore e pubblichiamo un commento e alcuni interrogativi rispetto all’ultima conferenza di Giuseppe Conte, alle tifoserie che ne sono scaturite e alle proiezioni sulla gestione della fase due dell’emergenza sanitaria scaturita dal Covid-19.
C’è qualcosa che ci sta sfuggendo in questi giorni. Qualcosa che va oltre l’angoscia delle statistiche, che ogni riverberano l’immagine di un nemico invisibile, che ci relega in una condizione di impotenza, lenta e inesorabile. Qualcosa che va oltre la retorica del “dopo”, di quel doman dove non c’è certezza o dove, a contrario, parrebbe tutto già scritto.
In questi giorni ho visto in rete compagni e compagne sbattersi per capire, per continuare a far politica e attivazione sociale. Io sono da tempo fuori dai giochi, ma apprezzo con tutto il cuore chiunque stia cercando di rimescolare le carte, di rompere la mistica della rassegnazione e, anzi, di intravedere in questa fase delle possibilità concrete per soggettivare nuove persone, magari ai margini della nostra “bolla”.
Però è proprio all’interno di questa “bolla” che c’è qualcosa che non mi quadra. Certo, la nostra rete amicale su facebook non può e non deve essere osservatorio privilegiato. Quante volte, soprattutto in tempi di elezioni, abbiamo preso abbagli proprio perché tendevamo ad assolutizzare le opinioni della nostra bolla? Ma da qualche giorno, anzi forse da qualche settimana, sto scorgendo reazioni strane, che sembrano alludere a una sorta di accettazione, se non addirittura esaltazione, del piano di discorso imposto da Giuseppe Conte e dal resto della compagine governativa. Sto parlando, in particolare, di quella cerchia di persone che non hanno mai esitato a definirsi “di sinistra” e he hanno sempre avuto un approccio critico, se pure individualizzato nella dimensione dei social network, nei confronti dell’attuale governo.
L’episodio che mi ha fatto rizzare le antenne è avvenuto dopo l’ultima conferenza stampa di Conte dello scorso 10 aprile, venerdì Santo. Si trattava di una delle conferenze stampa più attese, non solo perché avrebbe annunciato fino a quando sarebbe stata propagata la “quarantena nazionale”, ma anche perché avveniva dopo solo due giorni dopo il “grande compromesso” sul Mes deciso dall’Eurogruppo. Sul piano politico-mediatico, uno degli elementi più rilevanti è stato l’attacco – molto diretto – fatto dal premier a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. «Il Mes esiste dal 2012, non è stato attivato la scorsa notte come falsamente è stato dichiarato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Stavolta devo fare nomi e cognomi» ha detto Conte, che ha rincarato la dose tacciando di irresponsabilità i due leader dell’opposizione. Una vera e propria “blastata”, tra l’altro ineccepibile nel suo contenuto, perché fu proprio l’ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi a preparare, tra il 2010 e il 2011, l’evoluzione del Fest (Fondo europeo per la stabilità finanziaria) in Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Un governo di cui la stessa Giorgia Meloni faceva parte, come Ministro della Gioventù.
Ma il punto della questione non sono le cosiddette fake news, a cui Salvini e Meloni ci hanno abituato da tempo, ma il fatto che l’attacco politico fatto dal premier abbia completamente oscurato il resto del suo discorso, a partire dalla bocciatura senza appello di qualsiasi ipotesi di “patrimoniale”, timidamente avanzata dal Pd nei giorni precedenti. Nel giro di qualche ora Giuseppe Conte si è trasformato in una sorta di eroe della sinistra, nel castigatore delle destre e delle fake news, in quello che finalmente è riuscito a battere l’invincibile “bestia” salviniana. Tra meme e post, la mia bolla è impazzita e mi sono ritrovato immerso in una quantità di apprezzamenti degni del Fidel Castro dei bei tempi o del Lula appena uscito di prigione.
Al di là della mia bolla, la crescita di consenso del premier è misurabile con dai reali. Lo scorso 31 marzo Repubblica ha pubblicato il sondaggio mensile dell’agenzia Demos sull’indice di gradimento dei leader politici. Ebbene, Giuseppe Conte sfonda la soglia del 70%, con ben +19 punti percentuali rispetto a febbraio. Era dal Renzi dei primi mesi del 2014 che non si vedevano in Italia numeri così alti. E in questo indice di gradimento un ruolo decisivo lo sta avendo il modo in cui il premier sta utilizzando gli strumenti mediatici e in primo luogo i social network. Nonostante la confusione dei decreti, una comunicazione istituzionale che è spessa sfuggita di mano (vedi la fuga di notizie che ha preceduto il primo decreto d’emergenza), il premier è riuscito a muovere i canali giusti del populismo digitale. Forse è davvero lui l’anti-bestia, o la nuova bestia a seconda dei punti di vista. Un po’ condottiero d’azienda, un po’ “estremista di centro” come il primo Renzi, di certo il premier veste i panni dell’uomo forte, riproponendo quell’archetipo patriarcale e pseudo-autoritario che è tipico della cultura politica italiana.
Oltre all’episodio da poco citato, sono altre due le cose che completano il quadro d’azione governativa alle soglie della “fase due” e su cui vorrei brevemente soffermarmi. Entrambe sono sparite dai radar della comunicazione mainstream, o quantomeno hanno avuto uno spazio estremamente risicato. La prima riguarda una circolare indirizzata dal Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ai prefetti, della quale cito testualmente il seguente passaggio: «alle difficoltà delle imprese e del mondo del lavoro – avverte il ministro dell’Interno – potrebbero accompagnarsi gravi tensioni a cui possono fare eco, da un lato, la recrudescenza di tipologie di delittuosità comune e il manifestarsi di focolai di espressione estremistica, dall’altro, il rischio che nelle pieghe dei nuovi bisogni si annidino perniciose opportunità per le organizzazioni criminali». Un lessico che non si discosta molto da quello avuto dai suoi predecessori, Minniti e Salvini, ma forse si spinge anche oltre, accomunando le pratiche politiche alle attività di stampo criminali. Al netto di questo, emerge con forza il tentativo di leggere le dinamiche di “tensioni sociali” nella sola ottica dell’ordine pubblico, anche questa tradizione politica assai sedimentata nel Bel Paese.
Da ultimo, la notizia – sempre annunciata da Conte nella sua conferenza stampa – dell’istituzione di una commissione speciale per la ripartenza (fase due) e la ricostruzione (fase tre). La sua funzione e i suoi obiettivi sono ancora molto vaghi e non sono contenuti in nessun atto formale, ma è già noto chi sarà a presiederla. Si tratta del super-manager Vittorio Colao, per quasi un decennio ai posti di comando di Vodafone e, in passato, parentesi a Rcs MediaGroup, alla banca d’affari Morgan Stanley e alla società di consulenza manageriale McKinsey. Insomma una delle figure di spicco del capitalismo made in Italy, magari rimaste nell’ombra a costruirsi una carriera e a fare affari, ma che incarnano bene quello spirito competitivo tipico di un mondo basato sulla prestazione e sull’auto-imprenditorialità. Ancora non si conosce la composizione della task force, ma tra i possibili nomi ci sono anche quello di Angelo Borrelli della Protezione Civile e di Domenico Arcuri, Commissario straordinario nella fase del contrasto all’emergenza COVID-19.
Cosa hanno in comune i tre episodi citati in questo articolo? A mio avviso molto, perché si inizia a intravedere lo stile governamentale con cui verrà affrontata questa crisi nel lungo periodo. Uno stile che recupera molto la dialettica tra tensione autoritaria e populista e commissariamento manageriale della sfera pubblica, che è stata tipica del neoliberismo degli ultimi anni, quello che – detto tra noi – ci ha condotti a questa catastrofe.