Proponiamo la traduzione a cura di Ilaria Faccin dell’articolo “Lessons from the Coronavirus: The socialization of care work is not ‘just’ a women’s issue” di Smriti Rao, originariamente pubblicato su Network Ideas. Questo testo offre uno spaccato delle condizioni delle donne in India, aggravatesi dal diffondersi dell’emergenza sanitaria nel paese.
Le immagini che descrivono la crisi del coronavirus in India sono immagini di migranti con bambini al seguito, in cammino per centinaia di chilometri per ritornare a casa – solo per vedersene negato l’accesso*. Queste immagini mostrano l’entità dell’indifferenza del governo verso la vita di milioni di indiani, mentre la situazione dei lavoratori a giornata non migranti è meno visibile, ma ugualmente disperata.
Potrebbe sembrare ingiusto accusare il governo di essere indifferente alla sopravvivenza di questi esseri umani, dal momento che l’attuale lockdown è stato imposto proprio per ridurre la diffusione del virus. Ordinare il distanziamento fisico non è tuttavia sufficiente. La sopravvivenza e il benessere dipendono infatti dall’accesso all’acqua pulita, ad uno spazio sicuro in cui potersi ritirare in momenti come questo, alle cure sanitarie di base e al cibo. Tutto ciò richiede un’infrastruttura pubblica in grado di fornire questi beni e servizi essenziali ai cittadini, indipendentemente dal loro reddito; un’infrastruttura permanente, ma che possa essere ulteriormente potenziata in momenti critici come questo.
In India, il nostro governo ha dato la priorità a varie forme di spesa pubblica che sovvenzionano il profitto e gli imprenditori piuttosto che la sopravvivenza e il benessere degli esseri umani, delegando quest’ultimo aspetto quasi interamente alla sfera privata. La nostra attuale crisi sta rivelando i veri costi di questa scelta.
In India, è in gran parte lasciato alle realtà domestiche e alle famiglie il compito di mobilitare e allocare la manodopera e le risorse necessarie al sostentamento e al benessere – attività definite dalle economiste femministe lavoro di cura o, più in generale, “lavoro di riproduzione sociale”.
Il lavoro di riproduzione sociale comprende tutte le attività necessarie a produrre e mantenere la vita. Include la riproduzione biologica – gravidanza e parto – ma si estende oltre. Mantenere la vita richiede un lavoro di cura diretto: il lavoro emotivo e fisico collegato al lavare, nutrire e assistere non solo bambini e anziani, ma più in generale anche gli altri adulti che ci circondano. Richiede inoltre attività di cura indirette: cucinare il cibo, mantenere l’ambiente circostante pulito e sicuro, assicurarsi di avere fonti energetiche sufficienti, acqua e altri elementi necessari a sostentare la vita.
Nelle famiglie, queste mansioni vengono svolte senza retribuzione da parte dei familiari, affiancati o sostituiti nelle famiglie più privilegiate da cameriere, cuochi e altri collaboratori domestici (sotto)pagati. Questo lavoro tuttavia può anche essere in parte socializzato, se ad esempio fornito e finanziato da istituzioni diverse dalla famiglia, come lo stato o le società. Le aziende lo fanno fornendo ai lavoratori benefici come pensioni o accesso agevolato ai servizi sanitari e per l’infanzia. Gli Stati aiutano a socializzare questo lavoro quando forniscono scuole pubbliche di alta qualità e accessibili, Anganwadis (centri governativi che offrono gratuitamente a madri e bambini assistenza sanitaria e supporto nutrizionale, n.d.t.), Janata kitchens (ovvero mense per i poveri, n.d.t.), sistemi di distribuzione alimentare pubblica (PDS, Public Distribution System) e strutture sanitarie.
La “socializzazione del lavoro di cura” implica quindi la sovvenzione di tali attività e la redistribuzione dei loro carichi fuori dalla famiglia e dalle realtà domestiche, verso altre istituzioni come lo stato o le aziende.
Nei centri decisionali, la socializzazione del lavoro di cura è spesso considerata una “questione femminile” e, in quanto tale, trattata come un argomento di nicchia. È vero che le economiste femministe – tra cui economiste indiane come Devaki Jain, Indira Hirway, Jayati Ghosh o Gita Sen, solo per citarne alcune – sono particolarmente interessate a studiare il lavoro di cura. Ciò in parte perché questo lavoro è spesso classificato come “femminile” ed eseguito principalmente da donne e ragazze. I loro studi hanno mostrato chiaramente gli oneri economici, mentali e fisici per le donne, e in particolare per le più emarginate, in quelle società che rifiutano di sovvenzionare e redistribuire queste responsabilità.
In tali società cresce la difficoltà di conciliare il lavoro produttivo con le incombenze del lavoro riproduttivo, riducendo le opportunità di reddito delle donne e spesso riducendo la loro disponibilità di tempo alla luce della necessità di conciliare questo “doppio carico”. La sproporzione delle responsabilità che grava su di loro è tale da esporle a forme di violenza sociale che vanno dalla violenza domestica all’accusa di essere “cattive madri” o peggio.
Quando l’economia subisce delle contrazioni, gli stati si affrettano a salvare le imprese che creano profitto, anche attraverso le cosiddette misure di austerità, e spesso riducono le responsabilità dello stato e delle imprese nei confronti della riproduzione sociale, lasciando così a donne e ragazze all’interno delle famiglie un carico ulteriore di lavoro domestico. In India, possiamo vederne gli effetti nel rapporto incredibilmente basso tra bambini maschi e femmine e nel basso tasso di partecipazione delle donne alla forza lavoro retribuita.
Analizzare la distribuzione del lavoro di riproduzione sociale è importante anche perché in tutto il mondo ci confrontiamo con economie che sottovalutano esplicitamente ed implicitamente tale lavoro, dando priorità alla produzione di profitti a scapito della produzione e del mantenimento della vita. Questo pregiudizio è incorporato nelle statistiche sul PIL, che non tengono conto del valore di ciò che si produce attraverso il lavoro non retribuito. L’impatto di questa stortura nell’assegnazione delle priorità va oltre i costi sostenuti da donne e ragazze. Alcuni economisti dello sviluppo, come Amartya Sen, sostengono che l’indicatore chiave per misurare lo sviluppo di un’economia, e per gettare una base solida per la crescita futura, sia la capacità di una società di socializzare i servizi essenziali alla vita. La società fornisce ai suoi membri, in particolare ai più vulnerabili, i mezzi per accedere al cibo, all’acqua pulita, all’assistenza sanitaria e una un certo livello di sicurezza, indipendentemente dalla situazione economica dell’individuo e della famiglia di cui fa parte? In caso contrario, qualsiasi aumento del PIL è sia limitato nei suoi benefici, sia non sostenibile a lungo termine. La crisi del coronavirus sta dimostrando, su vasta e tragica scala, la correttezza di questa affermazione.
Ci sono almeno tre modi in cui il mancato sviluppo di un’infrastruttura pubblica di riproduzione sociale sta rendendo molto più difficile controllare gli effetti del coronavirus sulla salute e sull’economia.
Il distanziamento fisico a cui le epidemie ci costringono presuppone che ogni persona abbia un luogo sicuro in cui ritirarsi, dal quale sia possibile accedere a cibo, acqua o servizi igienici. Questo non è vero per milioni di persone che vivono in affollate baraccopoli urbane e per milioni di migranti che vivono in baracche nei pressi dei luoghi di lavoro, nei cantieri o nelle fornaci di mattoni dell’India rurale e urbana. Sfortunatamente, ciò non vale neppure per le famiglie rurali, che potrebbero avere un po’ di terra e un’abitazione, ma non possono accedere a cibo, servizi igienici o assistenza sanitaria senza violare le misure di distanziamento fisico.
Se questo isolamento senza precedenti fallirà nel tentativo di controllare il diffondersi dell’epidemia, il motivo sarà questo.
Il lockdown inoltre taglia le fonti di reddito per la stragrande maggioranza dei lavoratori indiani impiegati come lavoratori giornalieri, verso i quali i datori di lavoro non si assumono alcuna responsabilità in merito a tutele integrative, e quasi nessuno dei quali ha risparmi che consentano loro di ammortizzare gli episodi di interruzione di reddito. Ancora una volta, se esistessero delle infrastrutture pubbliche per i servizi che riguardano la riproduzione sociale, potremmo assistere ad un effetto keynesiano: lo stato che sostiene l’economia, indirizzando maggiori risorse verso questa infrastruttura, come hanno fatto in particolare i paesi europei. Ciò potrebbe mitigare, in qualche misura, il generale rallentamento economico. E, naturalmente, se le famiglie fossero sicure di poter soddisfare i propri bisogni primari di cibo e alloggio anche in assenza di reddito, ci sarebbe molta meno pressione sui lavoratori a giornata per tornare al lavoro, aumentando l’efficacia del lockdown dal punto di vista della salute pubblica.
La mancanza di attenzione per l’infrastruttura a sostegno della riproduzione sociale è certamente di lunga data in India. C’è stato tuttavia un momento negli anni ’70 e ’80 in cui sembrava esserci un certo slancio verso un’inversione di tale tendenza. Quel momento svanì dopo il 1993, con l’affermarsi di una mentalità che anteponeva la crescita e il profitto privato, all’etica della riproduzione sociale. Un leggero spostamento nella direzione opposta avvenuto negli anni 2004-2010 (NREGS*, aumento della spesa per pensioni e abitazioni) è stato invertito dal governo BJP nel 2014. I governi statali di Kerala, Tamil Nadu e Delhi stanno facendo di più, in parte per volontà politica, ma anche perché hanno creato l’infrastruttura che consente loro di farlo.
La quasi completa privatizzazione del lavoro di cura in India ha anche lasciato la sua eredità nella malnutrizione su larga scala, che rende la nostra popolazione straordinariamente vulnerabile al coronavirus. Inoltre, è uno dei fattori alla base del massiccio aumento di migrazioni temporanee e precarie di questo secolo. Milioni di indiani sono stati costretti a trasferirsi per lavoro, in parte anche perché l’intensificazione del lavoro delle donne non era sufficiente a garantire la loro sopravvivenza. E mentre possono riuscire a guadagnare qualcosa migrando, il loro accesso all’acqua, alla scuola o ai servizi igienico-sanitari è diventato spesso ancor più precario, costringendoli a ritornare a casa nel momento in cui la loro fonte di reddito viene meno.
Il lavoro che questi lavoratori migranti hanno svolto in condizioni tremende nelle nostre città ha sostenuto il boom urbano del XXI secolo, ma con i loro pericolosi viaggi verso casa hanno reso più visibile ciò che era vero da sempre. Al nostro governo interessa sovvenzionare il profitto. Non è però disposto a finanziare le infrastrutture necessarie alla riproduzione sociale che salverà le loro vite.
Ci sono molte possibili spiegazioni per la portata di questa inversione di priorità in India. La casta, forma originaria di distanziamento sociale come l’ha definita recentemente P. Sainath, riduce il nostro investimento nella sopravvivenza dei nostri connazionali indiani? Le strategie coloniali del divide et impera hanno accentuato queste e altre divisioni? Una lunga storia di patriarcato ha protetto gli uomini dai più duri fardelli del lavoro di cura, minimizzandone in questo modo l’importanza in politica e nelle policy? Le forme decentralizzate e predatorie del capitalismo hanno reso più difficile per i lavoratori unirsi e domandare una redistribuzione? Anche se proviamo a comprendere meglio queste motivazioni, i prossimi mesi renderanno purtroppo molto chiaro che la socializzazione del lavoro di cura è lungi dall’essere “solo” una questione che riguarda le donne.
*In India sono numerosi i video che mostrano agenti di polizia colpire i migranti e le loro famiglie mentre tentano di lasciare a piedi le grandi città per tornarsene nei propri luoghi di provenienza. Il governo centrale ha però recentemente dato l’ordine agli stati di chiudere le frontiere interne per arginare la diffusione del coronavirus, così che ai migranti in arrivo viene impedito il passaggio.
*NREGS: Piano nazionale di occupazione per le aree rurali.
** Ph. Credit: Fila per il cibo in un centro di accoglienza di New Delhi (reuters)