Il 3 aprile almeno diciannove persone sono morte in uno scontro a fuoco tra gruppi armati appartenenti al cartello di Juárez e a quello di Sinaloa nello stato di Chihuahua, nel nord del Messico. Tre giorni prima, nello stato di Sinaloa, una sparatoria era andata avanti per quasi due ore provocando due vittime. E il 28 marzo sette persone erano state uccise e altre sette erano state ferite in un bar di Tultitlán, nello stato di México. Il bar, tra l’altro, non avrebbe dovuto essere aperto, perché il governo aveva già ordinato la chiusura dei locali e degli uffici pubblici come misura per rallentare i contagi da covid-19 .
Questi episodi di violenza, scrive l’esperto di sicurezza Alejandro Hope, si sono verificati durante una pandemia, quando le attività produttive erano fortemente ridotte e la popolazione era stata invitata a restare in casa. Tutte condizioni che, sulla carta, dovrebbero favorire una riduzione delle attività criminali e limitare il margine d’azione dei cartelli della droga. Invece in Messico i gruppi armati continuano a muoversi impunemente e il numero di omicidi resta alto: a marzo, per esempio, ce ne sono stati 2.585, il dato mensile più alto dal 1997.
Oltre al fatto che la violenza non diminuisce, c’è il problema che in molte regioni del paese i cartelli della droga si sostituiscono allo stato nella gestione dell’emergenza sanitaria. All’inizio di aprile sui social network hanno cominciato a circolare video e immagini di persone legate a varie organizzazioni criminali che distribuivano alla popolazione generi alimentari e altri beni di prima necessità. A farlo per primi sono stati i sicari del cartello Jalisco Nueva Generación, attivi nello stato di Tamaulipas, nel nordest del Messico.
Poi a Guadalajara, capoluogo dello stato di Jalisco, alcune donne con indosso mascherine di Joaquín “El Chapo” Guzmán Loera, il leader del cartello di Sinaloa ora in carcere negli Stati Uniti, hanno consegnato scatole di viveri con l’immagine del narcotrafficante alle persone anziane e in difficoltà. L’iniziativa è stata pubblicizzata sui social network da Alejandrina Guzmán, una delle figlie del Chapo. La reazione del presidente Andrés Manuel López Obrador è arrivata il 20 aprile, quando ha chiesto ai cartelli della droga di “comportarsi meglio e di mettere fine alla violenza invece di distribuire pacchi con gli aiuti”. Il 28 marzo, durante una visita nello stato di Sinaloa, López Obrador aveva salutato con una stretta di mano la madre del Chapo, un gesto che gli aveva attirato molte critiche.
Tweet e soldati
I cartelli messicani non sono gli unici gruppi criminali ad aver guadagnato protagonismo durante la pandemia. Da settimane in Salvador, le gang o maras che controllano intere zone e quartieri delle città sono in prima linea per far rispettare l’obbligo di restare in casa e il distanziamento fisico. In alcuni casi i loro affiliati distribuiscono generi alimentari alle famiglie più povere. Ma come ha denunciato il giornale online El Faro, i loro metodi sono criticabili: nelle regioni sotto il loro controllo le gang hanno imposto il coprifuoco minacciando di punire fisicamente chiunque esca per ragioni diverse dal fare la spesa.
Poco democratico, anzi sotto certi aspetti autoritario, è anche l’atteggiamento del presidente salvadoregno Nayib Bukele, in carica dal giugno del 2019. Secondo il giornalista Óscar Martínez, le tendenze dispotiche e i metodi pochi ortodossi di Bukele erano già chiari, ma sono emersi con maggiore chiarezza dopo l’11 marzo, quando il governo ha decretato l’emergenza nazionale per il coronavirus. “Da allora”, scrive Martínez, “Bukele ha governato per decreto su Twitter, come un monarca di internet. Nessuna democrazia può funzionare come quella del Salvador: il presidente twitta e i militari si affrettano a far rispettare i suoi ordini”.
Chi non rispetta la quarantena, per esempio chi non può dimostrare di essere uscito di casa per una valida ragione, è portato in un centro de contención per trenta giorni. Come se la salute pubblica venisse prima della democrazia e del rispetto dei diritti umani di ciascun cittadino. Negli ultimi mesi in Salvador, a differenza del Messico, gli omicidi sono drasticamente diminuiti, un dato senza dubbio importante per uno dei paesi più violenti del mondo. Ma il prezzo che stanno pagando i cittadini è molto alto e, nel prossimo futuro, c’è il rischio che la democrazia salvadoregna ne esca molto indebolita.
Anche in Colombia il numero di omicidi è calato da quando il presidente Iván Duque ha imposto il distanziamento sociale, il 20 marzo. Ma nelle zone rurali, dove i vari gruppi armati si contendono il controllo del territorio e delle rotte della droga, la violenza non si è fermata. A metà aprile, in poche ore, sono morti otto dissidenti della guerriglia delle Farc, smobilitata con gli accordi di pace del 2016. Oltre agli ex combattenti, la violenza colpisce soprattutto i leader locali e gli attivisti per i diritti umani.
C’è infine un elemento comune a tutti i paesi, cioè la violenza contro le donne. Mancano per ora i dati ufficiali, ma le organizzazioni femministe denunciano un aumento dei femminicidi in Messico, Colombia, Argentina e Perù, e un incremento delle telefonate ai numeri di aiuto predisposti dalle autorità durante l’isolamento obbligatorio. Per i leader dell’America Latina questo dev’essere un invito a fare di più. La speranza è che, una volta passata la pandemia, i riflettori sulla violenza di genere non si spengano e i governi dei vari paesi adottino politiche più serie ed efficaci per proteggere le donne dagli abusi e dalla violenza domestica.