Una profonda e dettagliata intervista a Roberta Nicosia, psicologa referente centro antiviolenza Estia, cooperativa sociale Iside – a cura di Non Una di Meno Venezia.
Due settimane fa circa la rete D.i.Re. (Donne in Rete contro la violenza) ha presentato i risultati di una rilevazione dei contatti alle proprie strutture a livello nazionale durante il periodo di lockdown. Cosa possiamo evincere dai dati presentati?
Nel pieno dell’epidemia Covid-19, la rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re ha chiesto alle oltre ottanta organizzazioni che la compongono un monitoraggio specifico delle richieste arrivate nel periodo di emergenza. I dati ad oggi disponibili coprono il periodo dal 2 marzo al 5 aprile e fanno emergere un panorama che merita un approfondimento.
A livello nazionale, nei 35 giorni coperti dalla rilevazione, 2.867 donne si sono rivolte ai centri antiviolenza, di queste 806 per la prima volta. Se prendiamo in considerazione la media mensile registrata nell’ultima rilevazione statistica del DiRe (2018), si rileva un aumento di contatti pari al 74,5%. Un dato che preoccupa invece sono le nuove richieste di aiuto, che rappresentano solo il 28% del totale, quando invece nel 2018 rappresentavano il 78% del totale delle donne accolte.
Aggiungo che la percentuale di donne che ha chiesto aiuto attraverso il numero nazionale 1522 è abbastanza irrisoria. Si parla del 3,5%, il che vuol dire che, al di là del numero gratuito nazionale che è sicuramente importante, i centri antiviolenza mantengono un ruolo centrale ed è stato un bene che si siano da subito attivati per diffondere un messaggio molto chiaro e semplice: ci siamo, siamo aperti. È stato un lavoro efficace considerando l’impossibilità di incontrarsi fisicamente, che dà la misura dell’importanza dei centri, lo dico perché spesso questo è un ragionamento che stenta a passare a livello istituzionale. Il personale dei centri è impegnato in un dialogo costante con le istituzioni – a tutti i livelli: dal piccolo comune alla Regione – e si è spesso costretti a rivendicare la centralità del proprio ruolo nell’accoglienza delle donne vittime di violenza.
La distribuzione temporale delle chiamate durante il periodo di emergenza è molto significativa. Durante la prima settimana abbiamo riscontrato un dato abbastanza omogeneo in tutte le regioni: un silenzio inquietante. In quella prima settimana abbiamo quindi monitorato telefonicamente le situazioni che avevamo già in carico e per le quali erano già stati avviati percorsi di uscita dalla violenza. Nel momento in cui tutta l’Italia è diventata zona rossa e le attività economiche si sono ridotte all’osso, sono diminuite anche le occasioni di uscita di casa per i maltrattanti, per esempio per andare al lavoro. Con il perdurare della costrizione nello spazio domestico, la violenza si è esacerbata, molte situazioni sono esplose e c’è stato un picco nelle richieste ai centri antiviolenza a livello nazionale.
A tale riguardo, abbiamo registrato un aumento nella frequenza delle violenze, in particolare delle forme di violenza psicologica come l’umiliazione o il controllo di quelli che mi viene da definire “micromovimenti”. Anche in casa i livelli di controllo sono aumentati mentre la possibilità di movimento è diminuita. Mi vengono in mente molti casi di donne del territorio veneziano che hanno chiamato o che siamo riuscite a sentire in quei pochi minuti in cui portavano il cane a passeggiare o uscivano a buttare la spazzatura, cercando ogni sotterfugio possibile per non essere viste dalla finestra. Altre ci hanno chiamato dalla fila al supermercato, parlando sottovoce oppure hanno dovuto inventare appuntamenti urgentissimi dal medico. Tutte situazioni che mostrano l’urgenza di trovare anche solo pochi minuti di sostegno e supporto emotivo, fondamentale in un momento in cui sembra che non ci sia nulla a cui appigliarsi. In altri casi, abbiamo registrato un aumento della violenza economica agita ad esempio privando la donna del denaro o vietandole di recarsi al supermercato; in ultimo anche la violenza sessuale viene attualmente usata come forma di ricatto, per scongiurare ulteriori percosse e insulti.
Anche noi operatrici abbiamo dovuto introdurre modalità di risposta nuove e diversificate, ad esempio abbiamo ampliato le fasce orarie di risposta telefonica, abbiamo fissato appuntamenti ad hoc ad orari improponibili pur di parlare con le donne e capire come stavano andando le cose. Insomma, ci siamo inventate un modo per non lasciare nessuna da sola.
Come centri antiviolenza del territorio veneziano abbiamo riscontrato, nei primi dieci giorni una diminuzione generale del numero di donne che ci hanno contattato; con il proseguire del periodo di lockdown, i numeri anche di primi contatti sono aumentati. Siamo però convinte che nel momento in cui finirà il regime più restrittivo e si passerà alla famosa “fase due” ci si dovrà aspettare un boom di telefonate.
Siamo inoltre consapevoli che i dati che noi riusciamo a raccogliere rivelino solo la punta dell’iceberg: c’è sempre una parte di dati a noi sconosciuta o che non riusciamo a raccogliere per diversi motivi. Per esempio un dato che ancora non siamo riuscite a raccogliere, a causa della velocità con cui è progredita la situazione emergenziale, è quante delle donne che ci hanno contattato abbiano precedentemente fatto accesso ai presidi ospedalieri o quante abbiano sporto denuncia contro il maltrattante.
Parlando della situazione nel territorio veneziano: quali sono le strutture che si occupano di violenza sulle donne e quali i dati che siete riuscite a raccogliere nel periodo di emergenza?
A Venezia ci sono due centri, punti di accesso riconosciuti per donne che subiscono violenza: uno è il Centro Antiviolenza del Comune che si trova a Mestre e l’altro è il nostro centro Estia. Noi abbiamo la sede principale a Mestre e uno Sportello a Venezia: su Mestre è chiaro che il dato che possiamo dare non è complessivo, mentre sul centro storico abbiamo una finestra importante anche perché siamo le uniche presenti e fino al 2016 non c’era niente. Oltre a questi, il Centro Estia ha anche uno sportello a nella Rivera del Brenta che raccoglie un potenziale di utenza importante perché si tratta di dieci Comuni. Nel territorio dei sette Comuni del miranese, invece, gestiamo il Centro Antiviolenza Sonia, con sede a Noale e lo Sportello Antiviolenza a Mirano.
Nel periodo dal 2 marzo al 5 aprile, i nostri centri e sportelli hanno seguito in totale 96 donne, di cui 16 ci hanno contattato per la prima volta e di queste solo 6 donne sono arrivate tramite il 1522. In questo periodo abbiamo notato una disparità tra ciò che sta avvenendo nei diversi territori: a fronte di 16 nuove donne, 12 ci hanno contattato dalla Riviera del Brenta. Non abbiamo una motivazione precisa per questo fenomeno, sappiamo che in Riviera, nell’ultimo anno, abbiamo prodotto moltissimo in termini di comunicazione e di capillarità dell’informazione, coinvolgendo le associazioni locali, i servizi sociali, organizzando eventi rivolti a tutta la cittadinanza e campagne di comunicazione a tappeto. Non che tutto questo sia mancato nei territori del miranese…
A fronte di questi numeri abbiamo fatto tre allontanamenti in emergenza. Ci tengo a precisare che tre allontanamenti in emergenza non sono pochi. Per accoglienza in emergenza s’intende l’uscita improvvisa da casa, per garantire l’incolumità della donna ed eventuali figli in assenza di alternative possibili all’interno della rete informale che possa accoglierli in sicurezza. Si tratta di un momento delicato, drammatico e che va gestito nel brevissimo tempo. È necessario trovare un posto che sia abbastanza sicuro, non facilmente riconoscibile e rintracciabile, non troppo vicino ma neanche troppo lontano perché deve essere raggiungibile.
Per altre situazioni abbiamo trovato soluzioni intermedie grazie all’attivazione della rete famigliare e/o amicale che si è resa disponibile ad accoglierle. Quando possibile e sicuro, crediamo che questa sia una risorsa da tenere in considerazione. Se sei costretta a lasciare la tua casa, e se è sicuro, è meglio andare da qualcuno che almeno emotivamente ti può un po’ supportare o alleviare tutta quella mole di sentimenti, dalla paura alla rabbia, che provi in quel momento, piuttosto che ritrovarti improvvisamente sola, in un posto sconosciuto.
C’è poi la questione di come la violenza viene comunicata. A noi sembra che in questo particolare momento si sia affermata una narrazione edulcorata (fatta dai media e dalle istituzioni) della casa e della famiglia come luogo di protezione e sicurezza, che esclude e rende invisibile l’aumento della violenza domestica dall’inizio della quarantena. In tutto ciò, lo spot del governo per il 1522 – forse inconsapevolmente – compie un’altra operazione: fa sembrare che basti ‘poco’ per uscire da una situazione di violenza. Considerato che non è così in condizioni normali, immaginiamo che debba essere ancor più difficile nel contesto attuale…
Ci sono tantissimi livelli in questa riflessione, uno di questi è analizzare quale comunicazione viene data. Ora, io capisco benissimo la necessità di dire “bisogna stare a casa” e quindi di colorare con tinte positive la dimensione casalinga e ribadire come la casa sia l’unico luogo sicuro, bello, tranquillo, in cui si sta bene. Ci si dimentica però che per una larga fetta della popolazione – nella maggior parte donne – questa sensazione positiva non esiste per niente. Al contrario, ha colto questo diktat del #iorestoacasa con un senso di claustrofobia e grande paura.
Fin dall’inizio dell’emergenza abbiamo lanciato #nonseisola, perché credevamo ci fosse la necessità – pur senza contravvenire alle disposizioni governative – di dare un segnale di vicinanza e di riconoscimento della violenza contro le donne che non ha avuto nessuno spazio nei primi giorni di lockdown. Questo nostro messaggio sta funzionando e abbiamo chiesto a tutte le istituzioni e agli enti con cui abbiamo contatti più stretti di condividerlo attraverso i loro canali ufficiali. Così facendo abbiamo innescato un cortocircuito nel discorso ufficiale sullo “stare a casa” che fino a quel momento nessuno aveva ancora messo in discussione. Successivamente anche la campagna del movimento transfemminista Non Una di Meno – che ha riempito i social network e le città con messaggi di solidarietà rilanciando #restoacasaMA – ha contribuito a dare voce alle storie di quelle donne.
Il secondo piano è la difficoltà nel “rompere” le modalità comunicative dominanti. Un esempio lo troviamo anche nel 1522. Nel 2019, il Servizio promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità – in occasione del 25 novembre – aveva lanciato una campagna di comunicazione piuttosto banale e semplicistica, durante il lockdown ha scelto invece una campagna “a testimonial”. Vi invito a guardare come il primo spot che ho citato mostri tutto il percorso di uscita dalla violenza come se fosse una cosa facile e veloce. Si basava su un ragionamento molto lineare, che però non ha niente a che fare con la realtà perché le relazioni maltrattanti – lo sappiamo dalla nostra esperienza – sono tutt’altro che lineari. Il messaggio era: alza il telefono e fidati di noi che tutto cambierà, avrai una casa, un lavoro etc. La realtà è molto diversa e purtroppo sappiamo che non è così semplice. Il 1522 raccoglie le richieste di aiuto ventiquattr’ore su ventiquattro e dà alle donne i riferimenti dei centri antiviolenza presenti nel loro territorio. È sicuramente un servizio necessario – anche a fronte della difficoltà di molti centri di dotarsi di un numero gratuito – che attua un primo passaggio di informazioni, ma è necessario tenere a mente che è il primo passo per una donna, che può o meno sancire l’inizio di un percorso di uscita dalla violenza.
Quando una donna contatta il centro, raccogliamo la richiesta, diamo le prime informazioni e le proponiamo un primo colloquio. In tutti questi contesti, telefonici e di persona, oltre ad ascoltarla con empatia e senza alcun tipo di giudizio, cerchiamo di capire perché ci sta contattando in quel momento – cosa ha vissuto, cosa desidera fare e come vuole muoversi; facciamo proprio una prima valutazione del rischio. Ragioniamo sugli strumenti di protezione, che non sempre per fortuna si traducono nell’allontanamento. Quando però questo è necessario, nella situazione odierna di emergenza epidemiologica diventa più complicato.
In questo momento le case rifugio della Regione Veneto sono praticamente al completo e le disposizioni regionali per evitare la diffusione del contagio prevedono che prima di accedervi sia necessario fare un periodo di quarantena preceduto e seguito da tamponi che attestino la negatività al Covid-19.
Per quanto il 24 marzo la ministra alle Pari Opportunità Elena Bonetti, in accordo con la ministra dell’Interno Lamorgese, abbia inviato una circolare alle Prefetture con l’indicazione di individuare strutture da mettere a disposizione per accogliere donne in situazioni di pericolo – come ad esempio quelle alberghiere al momento in disuso – sul nostro territorio non c’è stato nessun dialogo in questo senso.
In Italia non è prevista la costituzione di case di accoglienza in emergenza. Si è costretti ad appoggiarsi a strutture diverse che spesso non hanno i requisiti minimi delle case rifugio, altre volte ancora bisogna “inventarsi” una soluzione estemporanea, ma sono tutte risposte non strutturali.
Per cui centri antiviolenza si sono trovati nella situazione di dover reperire autonomamente strutture ricettive – da BnB ad alberghi ancora in funzione – in cui poter far trascorrere il periodo di quarantena alle donne, oppure disponibili anche solo per allontanarle e farle stabilire in un luogo sicuro in un primo momento. Inoltre non ci sono fondi specifici e i centri stanno sopperendo all’emergenza – dall’ospitalità, ai dispositivi di protezione individuale. E bisogna chiedersi: con quali risorse?
Il Governo parla di milioni stanziati con il decreto “Cura Italia” e di fondi sbloccati…
I fondi che il Governo dichiara di sbloccare sono quelli già stanziati prima del lockdown per le attività ordinarie e “bloccati” a causa dell’epidemia. Perciò se si utilizzano per l’emergenza questi fondi, tra sei mesi come faremo a garantire la normale l’attività ordinaria dei centri antiviolenza?
Il Decreto “Cura Italia” invece dovrebbe mettere in campo tre milioni di euro da erogarsi nell’immediato. Sono passati più di dieci giorni e non abbiamo ancora visto niente.
C’è da dire che il meccanismo di finanziamento rimane molto farraginoso e per questo fortemente criticato da tutta la rete D.i.Re: i fondi stanziati dal Ministero, per giungere ai centri, devono compiere un iter di passaggio alle Regioni; seppur possa sembrare semplice, questi passaggi che ho qui semplificato, comportano lunghe attese. Come se la complessità della burocrazia italiana non bastasse, ogni Regione mette in campo modalità di gestione differenti, con ritardi nell’erogazione che sono raccapriccianti. Il Governo di fronte alla richiesta di erogare direttamente ai centri questi fondi destinati all’emergenza, ha risposto che non era possibile.
Il rischio altissimo è che le organizzazioni che aderiscono a D.i.Re – che sono organizzazioni del privato sociale – non abbiano la disponibilità economica per far fronte con le proprie risorse alle spese vive per attraversare questo periodo.
Quello che ci diciamo qui oggi, valeva ieri e varrà anche domani: se il costrutto di base è che la violenza è – e resta – un fenomeno strutturale e non emergenziale, deve essere trattata come tale mettendo in campo le risorse necessarie. Ancora di più in questo momento, in cui la parola emergenza è sulla bocca di tutti, la visione dei centri antiviolenza deve essere presa in considerazione. Ed è una visione che va oltre all’immediato bisogno di superare il periodo di serrata, ma guarda a ciò che dovrà affrontare da oggi ad almeno tutto il prossimo anno. I casi aumenteranno e così le richieste di aiuto da parte delle donne aumenteranno, c’è un problema strutturale di mancanza di posti nelle case rifugio e ci aspetta una crisi che renderà ancora più difficile l’autonomia economica necessaria per rompere i legami col maltrattante e perseguire un’uscita dignitosa dalla violenza.
Questa emergenza sanitaria semplicemente ha sollevato temi fino ad oggi sopiti che nel nostro paese trovano spazio nel discorso pubblico solo il 25 novembre e l’8 marzo – che quest’anno non si è nemmeno potuto svolgere.
Forse il cuore della questione sta proprio qui, tra retorica dell’emergenza e strutturalità della violenza contro le donne. I centri antiviolenza e i movimenti transfemministi stanno lottando per dimostrare come questa non possa più essere considerata e trattata come una questione emergenziale, con un dato inizio e una fine, ma debba essere vista come strutturale: radicata nella cultura, nell’educazione, nella legislazione, nell’economia della nostra società…
Non c’è un vero investimento su questi temi, non si sente l’urgenza di lavorare davvero per modificare – a diversi livelli – quello che poi noi arriviamo a vedere nei centri, che è la punta dell’iceberg. Ma se non si investe a livello culturale, educativo – di prevenzione e sensibilizzazione – per comprendere appieno quali sono le relazioni di potere, quali sono i campanelli di allarme, cosa ci sta alla base di un rapporto di rispetto tra i generi, non si cambia. E come non c’è un investimento per i servizi di un centro antiviolenza – e non se ne riconosce fino in fondo la necessità – non c’è investimento nemmeno “prima”.
Quando dico che non c’è riconoscimento dei centri antiviolenza come soggetto centrale sul tema della violenza non lo intendo solo rispetto all’essere luoghi in cui una donna può trovare accoglienza, non essere giudicata, accompagnata nella scelta di poter avere una vita diversa, di poter riscoprire le proprie potenzialità e risorse, ma perché ogni centro fa un lavoro politico, altrimenti è erogazione di un servizio come tutti gli altri – che non sono certo inutili ma sono diversi. Non si vuole vedere questo aspetto, non si vuole guardare all’aspetto fondante dei centri che è proprio il lavoro politico. Ancora oggi a tutti i livelli lo dobbiamo rivendicare e farci sentire. Ci sono dei tentativi di cambiamento anche nel linguaggio e nella comunicazione, ma purtroppo sono semini, forse ancora troppo pochi per poter dire che è in atto un cambiamento profondo culturale. Per quanto stancante per certi aspetti, come centri antiviolenza non ci fermiamo, continuiamo a lavorare a tutti i livelli e credere che la nostra pratica politica possa produrre il cambiamento auspicato.
Se poi ci focalizziamo su questo momento di emergenza pandemica possiamo vedere come il main stream e le istituzioni si concentrino esclusivamente sul Covid19, producendo una macabra conta dei morti – anche questi disumanizzati e ridotti a cifre, a punti sulla curva – che mette in secondo piano e rende invisibile tutto ciò che è considerato di minore importanza. Si crea una sorta di gerarchia, come a dire che il rischio della violenza tra le mura, la violenza che subiscono le soggettività migranti, la violenza della ricattabilità lavorativa, siano comunque sacrifici necessari per il bene comune, che ci vuole nella propria casa per ridurre il rischio (per tutti) del contagio. Questa emergenza svela una struttura di diseguaglianze già esistenti.
In questo momento se una notizia non contiene la parola coronavirus non è nemmeno considerata tale. È quasi come se tutte le altre questioni venissero neutralizzate. Queste sono le dinamiche un po’ perverse del giornalismo, del mondo della comunicazione main stream. Non solo stabiliscono la priorità, ma attribuiscono il senso alle cose. Per cui ad esempio una donna anziana che subisce violenza in questo momento si sente l’ultima ruota del carro, una persona che non ha neanche il diritto di lamentarsi – perché anziana, quindi la sua vita ha meno valore di quella di un giovane, e perché in una situazione di violenza che però è relegata in un secondo piano dalla narrazione istituzionale e mediatica. Non c’è la capacità di tenere assieme la complessità. In Italia, attraverso i canali di comunicazione, si fatica a vedere qualcuno che riesca davvero a dare voce a quelle soggettività che sono colpite dalla violenza e che non rappresentano la “norma” – se vogliamo ostinarci a parlare di norma, normalizzazione, normalità – e quindi queste vengono silenziate.
Noi ci abbiamo messo poco a pensare che l’unica frase possibile da associare a #iorestoacasa fosse #nonseisola, perché è il nostro pane quotidiano. Eppure questa frase – come anche le frasi che son tornate a far parlare i muri e le serrande chiuse di Venezia – ha un impatto e un’efficacia di cui nemmeno noi spesso ci rendiamo conto. Sono parole semplici che esprimono davvero una vicinanza non intrusiva ma che apre uno spazio di libertà.
Cosa possiamo fare? Abbiamo visto qualche giorno fa sui social una breve infografica prodotta da Degender Communia – in collaborazione con la casa delle donne Lucha Y Siesta – che illustra cosa possiamo mettere in campo – durante la quarantena ma anche a serrata finita – per tessere reti solidali con le donne che vivono in situazioni di abuso…
É una domanda che torna spesso tra le persone più sensibili al tema, che si vogliono rendere utili. Premetto che il mio è il punto di vista di un’operatrice di un centro antiviolenza che ha un approccio femminista.. La rete D.i.Re è femminista in ogni aspetto, per statuto e per metodologie; è una cosa che si respira nell’aria, nelle nostre sedi e nel nostro agire quotidiano. E questo è un netto spartiacque con un centro antiviolenza istituzionale o uno che non condivide questo approccio.
Mi sono piaciute molto le infografiche di Degender Communia, mi ci sono proprio ritrovata: tante volte riceviamo telefonate da persone che conoscono donne che stanno vivendo – o temono che stiano vivendo – situazioni di violenza e spesso ci sentiamo chiedere se possono fare loro stessi da tramite per la donna o se possono “portarcela”. Pur comprendendo il motivo di queste richieste, la nostra risposta è negativa, perché abbiamo bisogno di parlare con la donna direttamente e vogliamo assicurarci che abbia fatto autonomamente la scelta di chiamarci.
Anche perché essere tradotta con l’inganno può essere la riproposizione di qualcosa che vivono nel quotidiano della loro relazione…
Per noi la volontà, la libertà, il desiderio della donna non vanno mai messi in discussione, anche quando questo vuol dire accettare che lei stia in una situazione pericolosa e non sicura.
Il desiderio e la volontà devono restare al centro del percorso perché altrimenti rischiamo – anche inconsapevolmente – di continuare a perpetrare quella dinamica violenta del “metterci al posto di”. Più perdura la violenza nel tempo, più aumenta per le donne che la vivono l’impossibilità di esprimere il proprio punto di vista. Questo perché si sono dovute abituare al fatto che la loro voce non conta, e tutto quello che loro pensano, fanno, dicono, tendenzialmente è sbagliato. Quindi, anche se con le migliori intenzioni, prenderla e portarla in un centro antiviolenza o semplicemente chiamare al suo posto significa dirle implicitamente che lei non ne è in grado, che non ce la fa e quindi lo facciamo noi per lei. Questo atteggiamento può anche inficiare il percorso di fuoriuscita. Sembra banale ma è il punto principale: se teniamo a mente che la volontà della donna deve essere garantita ed è imprescindibile in ogni momento, tutto il resto che verrà sarà più efficace. viene più “semplice”.
In questo periodo, come in qualsiasi altro, scambiarsi numeri di telefono, chiacchiere o piuttosto trovare una scusa per bussare alla porta di una vicina in caso di dubbio di maltrattamento, sono segni di vicinanza importanti, perché l’isolamento è uno degli elementi che alimenta la relazione violenta.
Qualsiasi mossa di questo tipo – come un muro che ti dice “isolate ma non sole” o che ti dà un numero di telefono – apre alla possibilità di fare il passo successivo.
Anche spiegare cos’è un centro antiviolenza – dire che è un posto gratuito, dove non sei obbligata a fare niente, nemmeno denunciare ma dove puoi trovare ascolto – può essere di grande aiuto.
Sicuramente un atteggiamento non giudicante o emergenziale può guidare le persone sensibili a diventare focal-point cioè quelle lucine accese che illuminano la strada e ti fanno vedere un’alternativa.
** Ph. Credit: Non Una Di Meno Trieste, Claudia Bouvier