Riprendiamo da Iaphitalia un articolo di Stefania Barca sulle possibilità che si aprono in questa fase per ridefinire il green new deal in un’ottica femminista e redistributiva. Stefania Barca è ricercatrice senior presso il CES – Centro de Estudos Sociais (Università di Coimbra) Portogallo – dove insegna e supervisiona ricerche post-graduate in ecologia politica e sarà una delle relatrici al Webinar – Covid-19 e crisi climatica: la rivoluzione nella rete della vita, che si terrà sabato 2 maggio alle 15 (diretta facebook sulla pagina Venice Climate Camp).
Uno degli effetti della pandemia Covid19 che ha riscosso maggiore attenzione mediatica e politica, è quello delle ricadute economiche – in particolare del regime di quarantena. Ne sono nate proposte governative (decreto ‘Cura Italia’) e non (reddito di quarantena, estensione del reddito di cittadinanza) che si confrontano nella sfera pubblica plasmando il campo delle possibilità e della lotta sociale e politica nel nostro paese. Nel frattempo, tuttavia, il movimento femminista anti-capitalista internazionale sta lavorando per ridefinire il terreno della lotta in una direzione che permetta di dare risposte più inclusive e strutturalmente trasformative. Ne è nata la proposta dell’istituzione di un Reddito di Cura – appena lanciata attraverso un webinar internazionale e una lettera aperta ai governi di tutti i paesi. Questo intervento riassume i punti cardine della proposta del Reddito di Cura, e della sua articolazione all’interno del Green New Deal for Europe, nell’intento di aprire un dibattito sull’utilità strategica di tali proposte nell’attuale congiuntura politica in Italia.
La campagna internazionale per il Reddito di Cura
La proposta consiste nel riconoscere il lavoro di cura non retribuito (o mal-retribuito e senza diritti), prevalentemente attribuito alle donne e a soggetti marginalizzati, come una funzione sociale necessaria e ineliminabile, ma al tempo stesso invisibile e ignorata dalle misure anti-crisi – persino nel momento in cui pandemia e quarantena si traducono in un aggravio senza precedenti di tale lavoro. La lettera osserva come il Covid19 sia andato a sommarsi a tutte le pandemie invisibili (povertà, guerra, violenza domestica, austerità) che da decenni ormai affliggono i settori più vulnerabili della popolazione – tra cui le famiglie monoparentali, le persone malate, disabili e anziane. E nota come la pandemia stia indebolendo la nostra capacità di resistere e sopravvivere fisicamente e finanziariamente (da sistemi immunitari già compromessi da povertà, discriminazione, inquinamento, guerra, occupazione, sfollamenti e altre violenze, a cure sanitarie e redditi inadeguati, specialmente nel Sud globale, nelle comunità razializzate al Nord e tra i rifugiati di tutto il mondo).
In risposta al virus, continua il documento, sono stati chiusi luoghi di lavoro, scuole e trasporti, – e si stanno discutendo delle proposte per sostituire i salari persi. Queste misure drastiche mostrano che i governi possono agire rapidamente e trovare denaro per affrontare le “emergenze”, se lo desiderano. In questo momento critico, diventa dunque fondamentale organizzarsi e lottare per ridefinire collettivamente ciò di cui abbiamo bisogno.
La campagna per il reddito di cura è promossa dallo storico movimento di lotta per il salario domestico attraverso la partecipazione del movimento transnazionale Global Women Strike (GWS). Nata nei primi anni ’70, la campagna per il salario al lavoro domestico (Wages for Housework) ha profondamente segnato il movimento femminista internazionale, ed è confluita nello sciopero dell’8 marzo. Una delle richieste cardine del GWS consiste nel ridurre drasticamente le spese militari, destinando almeno il 10% delle risorse così ricavate, ai servizi sociali e al sostegno del lavoro di cura – non soltanto per via salariale ma anche attraverso la fornitura di servizi pubblici gratuiti. Tra questi, un posto centrale occupa il sostegno alle vittime di violenza domestica e la prevenzione della stessa attraverso il supporto all’indipendenza economica delle donne – linee guida adottate anche in Italia dal movimento Non Una Di Meno.
Negli anni ’80, la petizione Women Count – Count Women’s Work diede voce a un movimento di massa per il riconoscimento di questo lavoro; firmata da 1.200 organizzazioni che rappresentavano milioni di donne in tutto il mondo, ottenne una risoluzione delle Nazioni Unite (nel 1995) che invitava i governi a misurare e valorizzare il lavoro non retribuito nei rendiconti del PIL. Sebbene il valore di questo lavoro sia stato stimato in 10,8 trilioni di dollari, nessun meccanismo di mercato o di policy garantisce che questo valore sia sistematicamente tradotto in reddito per le donne ed i soggetti che svolgono il lavoro di cura non retribuito. È diventato assolutamente necessario invece, continua la lettera, sostenere le/i prestatrici/ori di cura attraverso un reddito che ne riconosca la funzione pubblica e le/i aiuti a svolgerla nel modo migliore possibile.
In Europa, conclude la lettera, questa richiesta è ora incorporata in una nuova proposta politico-economica, il Green New Deal for Europe, che ne fa un punto cardine del suo programma per la giustizia climatica. Finalmente la protezione delle persone e la protezione della Terra possono essere equiparate e rese prioritarie rispetto ad un mercato chenon se ne fa carico. Il GNDE prevede dunque l’istituzione di un reddito per tutte/i coloro che si prendono cura delle persone, dell’ambiente urbano e rurale, e del mondo naturale.
Un altro Green New Deal è possibile – ed è femminista.
Com’è noto, ai primi di gennaio di quest’anno, la Commissione Europea ha approvato il Green Deal, un piano di investimenti per ridurre le emissioni climalteranti. Elaborato in risposta alle recenti iniziative dei Dem statunitensi, e in particolare al Green New Deal lanciato dalla deputata Alexandria Ocasio Cortez con l’appoggio di Bernie Sanders, il piano della Commissione adotta un approccio neoliberista alla crisi climatica, che consiste nell’usare le esigenze della riconversione per scopi di crescita economica all’interno di politiche di rigore fiscale che non consentono l’espansione della spesa pubblica. Il piano si basa dunque sulla logica perversa del trickle down: solo se l’economia di mercato cresce si rendono disponibili fondi per compensare i danni provocati dalla stessa, tra cui cambiamenti climatici, disuguaglianze e calo dell’occupazione.
Questo però non è l’unico piano disponibile. Negli stessi mesi in cui il GD era in preparazione, una rete di ricercator*, intellettuali e attivist* da tutta Europa – sollecitata dal movimento Diem 25 – si stava impegnando alla compilazione di un piano alternativo, da inserire nell’ambito di una grande campagna di mobilitazione per la democratizzazione dell’economia europea e delle politiche anti-crisi. Ne è risultato il Green New Deal for Europe (GNDE), centrato su un documento dal titolo A Blueprint for Europe’s Just Transition, che può essere consultato sulla piattaforma online www.gndforeurope.com. La differenza è radicale. Il GNDE è basato su criteri di finanza pubblica redistributiva che dà priorità alla lotta alle disuguaglianze e all’ingiustizia ambientale e la democrazia economica, in un’ottica di post-crescita. Mentre quello della Commissione è un programma top-down, indirizzato ai governi dei paesi afferenti all’UE perché adottino incentivi di mercato a vantaggio delle imprese, il GNDE è una piattaforma politica, un progetto strategico teso a sollecitare ampie mobilitazioni dal basso.
Il GNDE rappresenta un’opportunità storica per una rivoluzione eco/femminista dell’economia. Per garantire una transizione equa verso un’economia ‘post-carbonio’, il piano ambisce infatti a spostare il fulcro della creazione di reddito e benessere collettivo dalla produzione industriale alla riproduzione sociale e ambientale, ossia alle attività di mantenimento, riciclo, riparazione e restauro delle risorse ambientali, infrastrutturali e sociali, insomma alla cura – tanto delle persone quanto dell’ambiente. In questo spirito di articolazione strutturale tra riproduzione sociale e riproduzione ecologica, il GNDE propone di istituire un Reddito di Cura (Care Income) da rendere disponibile per tutt* coloro che – non essendo formalmente salariat* – sono impegnat* nella cura delle persone e/o degli ambienti urbani e rurali (attraverso la difesa organizzata contro estrattivismo e degrado, ma anche le attività di riabilitazione e cura degli spazi comuni, del suolo, delle acque, del verde, della biodiversità), nell’ambito domestico tanto quanto in quello comunitario ed ecosistemico.
Una proposta come questa, di ristrutturazione dell’economia fondata su principi ecofemministi, non nasce evidentemente dal nulla; essa incorpora decenni di lotte, attivismo, e ricerca femminista. Il concetto di Reddito di Cura è infatti il frutto di una collaborazione nata nell’ambito del gruppo di estensor* del documento sopra citato A Blueprint for Europe’s Just Transition, in particolare tra Selma James e Nina López (GWS), Giacomo D’Alisa (Research & Degrowth) e chi scrive. Si tratta di una concezione estesa, ossia socio-ecologica, della ‘cura’, derivante dall’intreccio tra l’economia politica femminista, l’ecofemminismo (attraverso il concetto di earthcare – cura della terra) e la prospettiva della decrescita.
La campagna per il GNDE, che incorpora il Reddito di Cura all’interno di un vasto programma di riconversione finanziaria e produttiva a livello europeo, costituisce un’occasione storica e una risorsa di enorme importanza per elaborare una politica femminista all’altezza della sfida climatica del nostro tempo. La campagna tuttavia non prescrive nel dettaglio le modalità di attribuzione del reddito di cura: queste ultime dovranno essere elaborate autonomamente da ciascun movimento di lotta e soggetto politico che vorrà farlo proprio, in base alle esigenze e condizioni specifiche. Più che un programma compiuto di policies, il GNDE si propone come piattaforma di lotta aperta al contributo di tutti quei movimenti che ne condividano le linee guida, nello spirito della democratizzazione e decentralizzazione delle politiche economiche e climatiche europee attraverso la partecipazione di soggetti collettivi e realtà in lotta per la giustizia ambientale. Quest’ultima, come ormai è noto, si basa sul principio che la crisi ecologica è radicata nelle profonde disuguaglianze sociali e globali generate dal modello capitalista, coloniale e patriarcale. Questo principio base consente oggi – forse per la prima volta in decenni – di pensare un femminismo che sia davvero la chiave di volta di un cambiamento radicale.