Martedì 28 maggio è stato posizionata l’ultima campata del Ponte Morandi, che entro l’estate potrebbe essere inaugurato. A distanza di 620 giorni da quel “disastro annunciato”, il premier Giuseppe Conte, il governatore della Liguria Giovanni Toti e il sindaco di Genova Marco Bucci sgomitano per accreditarsi gli onori di una ricostruzione che sta assumendo una carica simbolica molto importante in questa fase. Abbiamo intervistato sul tema Federico Di Salvo, attivista del collettivo genovese Aut Aut 357.
Per una “strana” coincidenza la cerimonia per la conclusione dei lavori del nuovo viadotto Polcevera si colloca poche ore dopo la conferenza stampa di Giuseppe Conte, che di fatto ha confermato parte delle misure di lockdown. L’evento è stato dai media mainstream celebrato come il simbolo della “rinascita italiana”. Cosa c’è di stonato in questa narrazione?
Tanto per cominciare non penso che sia stata una coincidenza la presenza di Conte a Genova, né che ci sia stata una vera e propria “stonatura”. Si tratta proprio di un legame evidente, dal punto di vista narrativo, che risponde alla necessità di “rinascita” del Paese, che passa per un luogo simbolico e un momento altrettanto simbolico.
Penso che Genova sia una città che presenta in maniera evidenziata e paradigmatica alcune delle criticità italiane: una popolazione con un età media molto avanzata, infrastrutture cadenti, una mancata riconversione dalla produzione industriale, un tentativo di puntare tutto sul turismo che è diventato anche una modalità di sfruttamento del territorio.
Credo anche che esista una forte continuità tra quello che Conte cerca di raccontare a livello nazionale e quello che fanno il governatore Toti e il sindaco Bucci a livello territoriale. L’evento del crollo del ponte Morandi ha colpito molto, in Italia e anche all’estero, e la sua ricostruzione diventa un’immagine trainante, a livello nazionale e non solo.
La stonatura esiste nel momento in cui si cerca di vedere quanto sia una menzogna o un’esagerazione la narrazione di rinascita. L’analisi che è stata fatta in generale tra le compagne e i compagni qua a Genova è che si sia cercato di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla dimensione simbolica, tralasciando le criticità, le necessità della città, le ineguaglianze e tutta un’altra serie di difficoltà che la classe dirigente preferisce non affrontare. Non me la sento di dire solo la recente classe dirigente, quella che fa riferimento al campo della destra e del centro-destra, perché questa eredita un modo di fare anche dalle precedenti giunte. E penso che, anche in questa formulazione, ci sia una continuità a livello nazionale.
È difficile andare contro questa narrazione “di rinascita”, perché è una modalità di comunicazione che fa molta presa. Punta sulle speranze, punta sui ricordi di chi ancora ha in mente Genova come polo industriale di primaria importanza e con un bacino produttivo enorme. Certo, quel ricordo è anche della Genova degli anni Ottanta, dell’eroina, dell’altoforno di Cornigliano che ammorbava tutto il Ponente. Però nei ricordi tutto sembra più bello e penso che il sindaco in particolare abbia insistito molto sul ritorno alle “vecchie glorie” della città.
In generale questo tipo di narrazione rende complicato controbattere, perché si rischia di passare troppo facilmente per dei “guastafeste”. La gente vuole avere questo tipo di speranza e a volte è infastidita da chi mette il luce il fatto che sia tutta una “baracconata” di propaganda.
Nessuno ha parlato del fatto che gli operai del cantiere hanno continuato a lavorare incessantemente in questi mesi di crisi sanitaria. La necessità di terminare il ponte è stata più forte anche del virus?
Questo punto è quello che ci ha spinto a scrivere l’articolo sul sito del nostro collettivo. Si è parlato pochissimo di quanto fosse opportuno tenere aperti i cantieri in generale e quello del Polcevera in particolare.
La cosa che mi aveva colpito moltissimo è che, nel momento di apice della percezione della crisi sanitaria, il Secolo XIX – giornale di tiratura nazionale, ma di sicuro il più letto a Genova – metteva sul suo sito una serie di articoli che leggevano la pandemia in varie declinazioni, soffermandosi in particolare sulla segnalazione di vari episodi di violazione delle norme restrittive che avevano un taglio tra il grottesco e il comico. In media, ogni dieci articoli sul virus, se ne trovava uno in cui si parlava del ponte, senza mai nominare il Covid-19.
Una cosa che fa molto effetto e che lascia pensare che questi ultimi articoli sul Ponte fossero delle vere e proprie veline, che avevano il compito di lasciar passare l’idea che quello fosse il migliore dei cantieri possibili, in cui tutto filasse liscio e senza problemi. L’unico episodio a cui in qualche modo è stato dato rilievo è stato quello di un operaio che è risultato positivo. I suoi colleghi sono stati messi in quarantena e il cantiere è stato sanificato, ma non chiuso, neppure per un giorno. Questo episodio è l’unico in cui il cantiere e il virus compaiono nello stesso articolo, anche se viene inserito all’interno di un pezzo più ampio, che parlava dei rischi di contrazione del virus sui luoghi di lavoro. L’obiettivo era chiaramente di diluire la notizia e non dare peso alla relazione diretta tra rischio sanitario e lavoro nel cantiere. Dopo questo episodio, gli articoli del Secolo XIX sul cantiere hanno continuato a non parlare del virus
Lo stesso Renzo Piano, archistar coinvolto direttamente nel progetto, ha fatto dichiarazione che ho trovato terribilmente grottesche, in cui ha esaltato in maniera pomposa l’eroismo degli operai del cantiere, paragonandoli agli operatori in prima linea nelle strutture sanitarie, ma raccomandandosi di lavorare con prudenza.
Recentemente ho letto sul Fatto Quotidiano, e non sul giornale genovese, un articolo in cui venivano segnalati gli scarsi standard di sicurezza, che però è uscito a giochi ormai chiusi. Sarebbe da sentire le varie rappresentanze sindacali per essere più precisi sulle misure di sicurezza realmente adottate, ma possiamo di certo affermare che, se sono state sollevate criticità, queste non sono state riprese dalla narrazione mediatica.
Da mesi, anche da molto tempo prima che la pandemia esplodesse, sono scomparse dal dibattito pubblico e politico anche le dispute sulle responsabilità e il malaffare che si celavano dietro al crollo del ponte, sulla necessità di investire sulla manutenzione del territorio e delle infrastrutture. In che modo è possibile riaprire questa discussione?
Questa cosa si ricollega a quello che dicevo all’inizio: Genova – e la Liguria in generale – sono lo specchio di certe criticità italiane. Sappiano tutti che il nostro Paese è pieno di criticità a livello idrografico e infrastrutture che hanno bisogno di costante manutenzione. In Liguria, in questi ultimi anni, l’usura delle infrastrutture ha comportato più che altrove problemi che sono ben noti.
Rispetto al Ponte Morandi, e alla domanda che mi fai, credo che in buona arte quanto accaduto sia legato al decisionismo della classe politica che tende ad annullare il dibattito perché deve continuamente dimostrare che “il tempo delle chiacchiere è finito” e che “ci si dà da fare”. Ad esempio, Bucci è stato eletto a Genova, oltre che per l’inconsistenza dei suoi avversari, proprio grazie a questa narrazione del self-made man, dell’imprenditore rampante e capace, tra l’altro una fama per la quale non si è assolutamente mostrato all’altezza. Anche Toti, dal canto suo, sta cercando di impersonare il modello del politico in grado di prendere pronte decisioni, al pari di suoi omologhi di altre regioni.
Questo comporta che il discorso su responsabilità, malaffare e quant’alto venga derubricato a “inutile scrupolo”, “perdita di tempo”, se non addirittura a un attacco alla “rinascita” della regione e della nazione intera. Questa cosa la si comprende in maniera evidente nell’affermazione di Toti dello scorso 6 aprile in una intervista rilasciata al quotidiano Avvenire. Il governatore ha parlato apertamente del fatto che per rilanciare l’economia bisognasse togliere il codice degli appalti, i controlli paesaggistici e addirittura la certificazione antimafia almeno per due anni.
Si tratta di slogan berlusconiani e liberisti, quindi perfettamente coerenti con la sua storia politica, ma la cosa che lascia perplessi è che, in una fase delicata come questa, hanno trovato poche reazioni, se non consenso quasi unanime nel mondo politico. Le dichiarazioni sono clamorose perché, in particolare in Liguria, oltre alla devastazione del territorio e a infrastrutture strutturalmente precarie, negli ultimi anni è aumentata a dismisura l’infiltrazione mafiosa nel tessuto produttivo.
Basti pensare alla costruzione della Tav Terzo Valico, dove è coinvolta Salini Impregilo – che insieme a Fincantieri fa parte della joint venture che ha costruito il nuovo viadotto – peraltro con problematiche legate a turbativa d’asta, affermazioni poco limpide sul rischio amianto e altre cose di questo genere. In generale bisogna dire che il dibattito sul “malaffare” è stato accantonato per tutte le grandi opere, in Liguria ma non solo, proprio perché schiacciato da quella politica “decisionista” di cui parlavo e dalle stesse lobby dei costruttori. Tutte le grandi opere in Italia in questi giorno sono accompagnate dalla comune narrazione di “redenzione”, al fatto che siano presentate come la chiave per dare ossigeno a un’economia in ginocchio.
L’ultimo punto che voglio toccare è il fatto che Salini Impregilo, che qualcuno ricorderà anche perché collegata al progetto del ponte sullo stretto di Messina e ad altri progetti con un enorme impatto ambientale sia a Panama che in Etiopia, ha puntato molto sul ponte Morandi a livello di pubblicità aziendale. C’è dunque una continuità forte tra questo tipo di narrazione aziendale e quella politica di cui parlavo prima.