Proteste, lockdown – e poi?

Editoriale del numero primaverile della rivista Radical Philosophy – rivista di teoria e filosofia critica fondata nel 1972 – tradotto per Globalproject.info da Marco Sirotti. Nell’articolo viene sottolineato come la pandemia abbia offerto all’establishment la possibilità di “salvarsi” dall’ondata di proteste e movimenti esplosa nel 2019 in tanti Paesi del globo.

Quando gli storici futuri cercheranno di dare un senso alla trasformazione epocale iniziata nel 2020, una delle cose che dovranno considerare è il rapporto tra le proteste di massa che hanno segnato l’inizio di quest’anno (così come molti dei precedenti) e le drastiche misure adottate a febbraio e marzo per contenere la diffusione del Covid- 19. Come ogni processo complesso che opera su una scala quasi mondiale, la natura sia delle proteste che delle successive misure di contenimento sono variate a seconda del luogo e del contesto. Il quadro immediato, in ogni caso, finora è rimasto nazionale o regionale, piuttosto che globale. Tuttavia, ciò che forse più colpisce circa le proteste, la pandemia e la relazione tra i due è l’intensità con cui tutti questi elementi chiedono di essere letti come fenomeni propriamente di “world history”, caratterizzati da forme inedite di convergenza, sincronizzazione e sovrapposizione, se non già direttamente coordinati. L’uso della locuzione “senza precedenti”, divenuto di routine in questi giorni, è di per sé senza precedenti.

In un certo senso, naturalmente, la pandemia ha offerto ai governi nazionali in difficoltà in tutto il mondo una scusa perfettamente calibrata per soffocare ogni forma significativa di dissenso. Alcuni di questi governi potrebbero essere stati salvati da un imminente crollo. Potrebbe magari sembrare che già appartengano ad un’altra epoca, ma è essenziale ricordare quale grado di diffusione, radicalità e determinazione fosse stato raggiunto dalle proteste di massa nel corso del 2019. Nelle ultime settimane dell’anno la stampa era ancora piena di notizie che sottolineavano la portata e la resistenza della rivolta popolare, in un luogo dopo l’altro. Rileggiamo un “anno di proteste di strada” sul Financial Times del 23 dicembre, per esempio: Gideon Rachman era colpito dalla loro “pura diffusione geografica … Proteste abbastanza grandi da sconvolgere la vita quotidiana e gettare nel panico i governi di Hong Kong, India, Cile, Bolivia, Ecuador, Colombia, Spagna, Francia, Repubblica Ceca, Russia, Malta, Algeria, Iraq, Iran, Libano e Sudan – e questa lista non è completa”. Mentre gli studenti di Hong Kong ed i gilet jaunes francesi hanno dominato le prime pagine dei giornali europei, i governi di Sudan ed Algeria sono stati rovesciati, e in autunno i primi ministri di Libano e Iraq sono stati costretti alle dimissioni. Sebbene abbia ricevuto scarsa attenzione in Europa o negli Stati Uniti, una protesta massiccia e sostenuta ha portato ancora una volta Haiti sull’orlo del collasso, se non della rivoluzione. Regimi profondamente reazionari e polarizzanti hanno ulteriormente infiammato le tensioni, ovunque, da Bolsonaro in Brasile e Modi in India a Orbán in Ungheria. Yemen, Palestina e Kashmir hanno dovuto affrontare nuove e profonde minacce alla loro sopravvivenza politica. Lungo frontiere troppo ramificate e troppo numerose per elencarle, lavoratori, migranti e persone di colore sono state trattate con una brutalità che mostra crudamente, incontrovertibilmente e chiaramente le vere priorità che modellano il mondo.

L’ampio contesto delle mobilitazioni del 2019 è fin troppo familiare, e testimonia la qualità essenzialmente strutturale di queste priorità e dei loro immediati corollari: le conseguenze sempre più intollerabili delle politiche economiche neoliberali; i costi sociali dell’austerità, della disoccupazione di massa, delle disuguaglianze mostruose e dell’assoluta miseria; la tendenze ad attribuire ad altri le responsabilità da parte dei regimi autoritari e fascisti; l’implacabile esperienza di precarietà e crescente disperazione per il futuro – il tutto aggravato dal cambiamento climatico, dal degrado ambientale, da uno sciovinismo guerrafondaio, dai retaggi di schiavitù e razzismo. Anche le più energiche misure adottate per contenere la diffusione di Covid-19 non faranno nulla per affrontare questi problemi strutturali, naturalmente, e in molti modi ed in molti luoghi li hanno già intensificati. Che si tratti di di accedere all’assistenza sanitaria o di trovare un modo per sbarcare il lunario, non c’è ovviamente nulla di “uguale” nell’impatto di un’epidemia sulle società modellate dalla classe, dalla razza e dalle disparità di ricchezza e privilegio.

D’altra parte, è facile vedere che alcuni dei passi compiuti da governi e corporations, ufficialmente in risposta al Covid-19, possono anche rafforzare notevolmente la loro capacità operativa in ogni confronto a venire con le proprie popolazioni. Anche se fondato su campagne di lungo periodo contro i migranti e gli “estremisti”, e anche se inquadrate come guerre senza fine contro la droga ed il terrore, la rapida adozione di nuove forme invasive di sorveglianza e controllo indicano già un punto di non ritorno. Se per il momento tali misure possono essere prese più facilmente in luoghi come Israele, Cina o Singapore, molti altri (tra cui Italia, Regno Unito e Stati Uniti), con l’aiuto di grandi aziende tecnologiche, hanno già colto l’opportunità di incrementare la loro sorveglianza digitale e altre misure di sicurezza, senza una chiara fine in vista.

Questo è un lato della storia. Ma è complicata da almeno due fattori. Uno è il modo con cui molti governi sono stati obbligati, a causa delle pressioni pubbliche e spesso in flagrante contraddizione con i loro più elementari principi e fondamenti ideologici, a riaffermare la necessità di affrontare i problemi pubblici con mezzi pubblici. Senza dubbio big pharma, la medicina privata ed il settore produttivo in generale faranno tutto il possibile per trarre profitto dalla pandemia, e il modo in cui la maggior parte dei paesi ricchi ha finora risposto alla perturbazione economica del 2020 (ripetendo lo schema stabilito dai salvataggi bancari del 2008) dà una chiara indicazione delle loro priorità di fondo. Tuttavia, in un luogo come il Regno Unito, l’esplicita venerazione del Servizio Sanitario Nazionale, proprio come servizio pubblico universale, si è imposto rapidamente in tutto lo spettro politico, e anche in un paese come gli Stati Uniti il sostegno a un servizio pubblico comparabile potrebbe crescere in modo significativo nei prossimi mesi.

Un’ulteriore pressione pubblica potrebbe richiedere la conversione di forme di welfare a breve termine e il sostegno al reddito in qualcosa di più duraturo. Come i movimenti femministi hanno a lungo sottolineato, la politica della cura e della riproduzione sociale può giocare un ruolo sempre più centrale nelle lotte future.

L’altro fattore ci riporta a uno degli aspetti più eclatanti delle proteste del 2019: in molte di queste le richieste erano simili in termini e tempi, e proponevano soluzioni simili a problemi simili. In Libano e in Iraq come in Cile o in Sudan, un numero enorme di persone si è mobilitato per rifiutare l’ordine delle cose esistente nella sua interezza. Il rifiuto di massa del sistema politico settario del Libano è qui esemplare, così come il rifiuto di tutta la classe dirigente cilena. ¡Que se vayan todos! rimane uno slogan pertinente, con una comprensione sempre più ampia del todos. È il sistema mondiale nel suo insieme, proprio come sistema, ad essere diventato il principale bersaglio della protesta in così tanti luoghi che, in passato, sia all’interno che all’esterno, erano stati tenuti sotto controllo attraverso l’affidabile stratagemma divide et impera. Il ricorso a queste antiche forme di dominio può rivelarsi più difficile da giustificare in un mondo che comincia a rendersi conto di tutta la sua unità e interdipendenza. Noi sfruttiamo o siamo sfruttati nel rispetto di una sola e stessa legge fondamentale. Lavoriamo, produciamo e consumiamo secondo le regole prescritte da un’unica logica economica. Condividiamo un unico pianeta e viviamo all’ombra di forme di catastrofe condivise.

Molti dei pericoli che affrontiamo sono gli stessi per tutti. Il modo in cui li affrontiamo, nei prossimi mesi e anni, potrebbe rafforzare le differenze che già strutturano il nostro mondo in dominanza e disuguaglianza. Oppure no. Forse più che mai, questa cruda alternativa può ora essere formulata come una vera e propria scelta politica.

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