[Scienza ed epistemologia non sono certo i primi argomenti che vengono in mente parlando dei nostri romanzi e del nostro lavoro. Eppure c’è un filo rosso, molto evidente, che attraversa le nostre opere narrative e che riguarda proprio quei temi. Dal mesmerismo dell’Armata dei Sonnambuli, alla fisica teorica de La Macchina del Vento, passando per lo scienziato Aleksandr Bogdanov, protagonista di Proletkult.
Qui su Giap un articolo di cinque anni fa, scritto da Mariano Tomatis, col sottotitolo «Scienza, feticismo dei fatti e rimozione del conflitto», ha raccolto in poco tempo più di trecento commenti, scatenando reazioni a catena e lunghe discussioni anche in altri luoghi della Rete. Lo stesso Tomatis, insieme al matematico Martino Prizzi, è stato co-autore di un articolo in cui si smontava un certo uso di matematica e statistiche per negare il femminicidio.
Tutto questo per dire che siamo molto contenti di pubblicare l’articolo che segue, scritto da un’epidemiologa e da un matematico, a pochi giorni di distanza da quello di Roberto Salerno sul fallimento comunicativo di scienziati ed esperti nei giorni del Covid-19. Per ribadire che le nostre critiche non sono rivolte alla “Scienza” in quanto tale, ma a certe sue premesse considerate irrinunciabili, a un ben preciso “discorso scientifico”, e soprattutto all’idea che gli scienziati siano in qualche modo estranei alle battaglie e agli interessi che plasmano la società umana. WM]
di Sara Gandini* e Marco Mamone Capria**
Sono tanti gli episodi assurdi, al limite del surreale, accaduti durante questo periodo di lockdown, episodi in cui si manifestano tutti i limiti di ragionamenti che contrappongono il diritto alla salute al diritto al lavoro, come se i due potessero essere disgiunti.
Se non si ha un lavoro, se non si ha di che comprarsi da mangiare, come si fa a stare in salute?
Se non si ha una casa, anzi una casa decente, dove e come si può fare la quarantena?
La crisi economica che ci aspetta sarà pesantissima: come pagheremo la sanità pubblica?
E soprattutto come pagherà le proprie spese sanitarie chi uscirà maggiormente indebolito da questa crisi, quando è ben noto che già prima di essa milioni di italiani rinunciavano a cure che non si potevano permettere?
Il bombardamento mediatico ha non solo angosciato la popolazione, ma intimorito la comunità scientifica nazionale, scoraggiandola a mettere in discussione le basi razionali del lockdown, e facendole avvertire come pericolosa persino la necessità di studiare le caratteristiche della malattia, fare confronti con gli altri paesi e con altre malattie, per capirne la natura e come affrontarla.
Un confronto utile è per esempio quello tra la mortalità di questi mesi e quella del 2015. In Italia nei primi otto mesi del 2015 si registrarono 45.000 decessi in più rispetto all’anno precedente (dati Istat). L’incremento di morti potrebbe essere dovuto in larga parte alle sindromi similinfluenzali (ILI, Influenza Like Ilnesses), di cui il Covid-19 è solo l’esempio più recente. In quell’anno, in molti comuni italiani si ebbero più decessi di quanti se ne siano avuti quest’anno, e in buona parte della Lombardia se ne ebbe un numero simile, fatta eccezione per le zone del bresciano, della bergamasca e del lodigiano, dove invece la linea del 2020 svetta, per via di gravi errori nel gestire i primi focolai. Tutti i grafici comparativi sono generabili e scaricabili dal sito dell’Istat.
Già allora e poi negli anni seguenti, diversi articoli denunciarono che le terapie intensive in Lombardia erano al collasso a causa dell’influenza.
Va fatto anche notare che l’inquinamento atmosferico, soprattutto nell’area geografica più colpita dal Covid-19, rappresenta una causa e concausa di decessi difficile da sopravvalutare, se si considera che nel 2016 si sono contati in Italia 14.600 decessi per biossido di azoto (NO2), 3000 per ozono (O3) e 58.600 per il particolato sottile PM2,5.
Anche su queste cifre – che sicuramente non rappresentano un’emergenza sanitaria inferiore al Covid-19 e che hanno portato il nostro paese davanti alla Corte di Giustizia europea – i media hanno generalmente taciuto, e attorno a esse non si è sviluppato nessun ampio dibattito politico.
Proprio grazie a questi confronti appare evidente che la ragione della crisi attuale è da ricercare non tanto nell’imprevedibilità del virus, quanto in scelte irresponsabili di chi ci ha governato e ha ritenuto opportuno – in ossequio a vincoli di bilancio che andavano invece ricontrattati in sede europea senza aspettare il Covid-19 – disinvestire nella sanità pubblica, nonostante le denunce di medici ed epidemiologi.
È il caso di sottolineare anche un altro fatto, ignorato dai principali media: nel 2016 in Italia ci sono stati 49.301 decessi per infezioni ospedaliere, e nel nostro Paese si verifica il 30% dei decessi per sepsi nei 28 Paesi Ue. È evidente che la contaminazione dei reparti ospedalieri ha contribuito alla crisi delle strutture sanitarie che troppi vorrebbero attribuire esclusivamente al Covid-19.
Esplicitare questo permette di capire quali siano le strategie giuste da attuare. Ci permette ad esempio di studiare alternative come quella della Germania e quella della Svezia, che non hanno dovuto chiudere tutto. Il confronto con la Germania ci insegna l’importanza di investire nei medici di base, nell’assistenza medica territoriale e in generale nella sanità, che da noi ha subito tagli pesantissimi.
Nel 2019 l’osservatorio GIMBE denunciava che negli ultimi 10 anni ci sono stati tagli e definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale pari a 37 miliardi. Già nel 2014 diverse denunce mostravano che il diritto costituzionale alla salute dei cittadini italiani era subordinato alle esigenze della finanza pubblica, che attraverso tagli di decine di miliardi di euro ha messo in forte crisi il Sistema Sanitario Nazionale. Anche l’Istat ha ricordato in questi giorni i tagli alla sanità, sottolineando che dal 2009 in questo settore c’è stata una progressiva riduzione degli occupati a tempo indeterminato, parallelamente all’invecchiamento del personale e crescita del ricorso al lavoro flessibile.
Purtroppo nei momenti in cui la popolazione è terrorizzata c’è bisogno di certezze, e i ragionamenti critici spaventano. A sorprendere è però la disponibilità da parte di scienziati a ispirare drammatiche scelte di governo sulla base di argomenti e modelli matematici non sottoposti al vaglio della comunità scientifica.
L’autorità della scienza funziona solo se le conclusioni ottenute da uno studio possono essere messe liberamente in discussione. Il metodo scientifico si basa sulla formulazione di ipotesi che devono poter essere confermate o confutate dall’analisi dei dati. Tutti i ricercatori dovrebbero esplicitare fin dall’inizio le loro tesi e mostrare se i dati le supportano o le negano, chiarendo i metodi e le fonti usate per analizzarli.
La tesi sostenuta dalla maggioranza è che sia stato sottovalutato il problema, che la causa dell’aumento delle morti in alcuni comuni della Lombardia sia dovuta a questa sottovalutazione del problema e che se avessimo fatto un lockdown completo, con misure draconiane fin da subito, questo non sarebbe successo. Ma ciò andrebbe dimostrato, e il compito non sarà facile.
È innegabile che in alcuni comuni della Lombardia e in alcune RSA siano accadute tragedie. Ma uno dei motivi principali di queste tragedie è stato l’avere concentrato tutta l’emergenza negli ospedali e nelle RSA, favorendo anche un’epidemia parallela di errori diagnostici, anziché puntare sulla sanità territoriale per il trattamento precoce. L’avere affrontato un problema di salute pubblica con un linguaggio e una mentalità bellici, e con una gestione da “protezione civile”, ha fatto il resto.
Alcuni dei provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione – come la raccomandazione a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione se non in caso di stretta necessità – erano ragionevoli. Le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di persone entrate in contatto con il virus e mettere in quarantena i loro contatti più stretti. Ma non altro. L’evidenza scientifica sull’efficacia di ulteriori misure di controllo della diffusione del virus, a cominciare dalla prescrizione di mascherine a tutta la popolazione, è infatti molto debole.
Il capo del Programma di emergenze sanitarie dell’OMS Mike Ryan ha dichiarato di recente che a loro giudizio «la Svezia ha messo in atto misure di salute pubblica molto forti. Quello che hanno fatto di diverso è che si sono basati su un rapporto di fiducia con la cittadinanza». In Italia, invece, si è pensato che ci fosse bisogno di misure autoritarie per mettere in sicurezza i cittadini, visti in generale come degli irresponsabili, e dissimulando il fatto che in realtà le tragedie accadute sono tutte a carico di chi amministra la sanità.
Bisogna tenere presente che le previsioni sulla catastrofe sanitaria che la chiusura tardiva del Nord avrebbe provocato al Sud non si sono avverate, e questo fatto meriterebbe attente riflessioni. Alcuni epidemiologi che studiano le influenze stagionali e i coronavirus del passato sostengono che quando “riapriremo” il virus tornerà, e tra un anno le differenze tra paesi che hanno applicato un lockdown più o meno rigido saranno dovute più alla struttura demografica e sociale della popolazione che alle misure adottate. Anche John Ioannidis, professore in epidemiologia alla università di Stanford, afferma da tempo che la mortalità da Covid-19 sembra essere molto sovrastimata. Uno studio ha stimato tra i 25 e i 43 mila decessi attribuibili alle similinfluenze in ognuna delle stagioni influenzali tra il 2013 e il 2017, numeri non così dissimili da quelli del Covid-19.
Nel 2017, nel periodo 1 marzo – 30 aprile, in Italia i decessi con presenza di almeno una malattia respiratoria sono stati 27.083. Nello stesso periodo, nel 2020, i decessi con Covid-19 rilevati dal sistema di sorveglianza ammontano a 27.938. È inoltre interessante notare che in UK i tassi di mortalità delle quattro cause non Covid-19 nel mese di marzo sono tutti al di sotto della media dei precedenti cinque anni, e denunce simili sono state fatte anche in Italia. L’ipotesi è che anche decessi che sarebbero avvenuti comunque, per altre cause preponderanti, vengano etichettati come decessi da Covid-19.
Questo è grave anche perché la paura del Covid-19 ha fatto sì che il numero di accessi in pronto soccorso per ischemie e infarti sia calato significativamente, con un aumento delle morti per arresto cardiaco non solo in Italia ma anche all’estero. Durante il lockdown per fare fronte all’emergenza diversi trattamenti per altre patologie sono stati rimandati, anche quando si trattava di patologie con una mortalità molto elevata, come quelle oncologiche. Anche in futuro l’attività diagnostica e di cura, che già oggi comporta liste d’attesa lunghe, avrà ritardi nei trattamenti di patologie che, affrontate tempestivamente, potrebbero essere curate in modo migliore.
I modelli predittivi che cercano di dimostrare l’efficacia del lockdown completo sono necessariamente contraddittori, dovendo semplificare e modellizzare realtà estremamente complesse.
Bisognerebbe almeno esplicitare le fonti di variabilità e le ipotesi da cui si parte, ma gli stessi modelli dell’Imperial College, che hanno influenzato grandemente le scelte di molti paesi e sono state poi ampiamente rivisti dagli autori stessi, non erano passati al vaglio della revisione indipendente di alcuna rivista scientifica. Idem per i rapporti del Comitato tecnico-scientifico del governo Conte. Ciò è grave, perché tutte le analisi hanno dei limiti e le interpretazioni non sono mai univoche. I dati sono sempre discussi dal singolo ricercatore partendo dalle proprie competenze, e ogni analisi dipende dalle urgenze dell’autore della ricerca: da cosa decide di mettere al centro, da cosa vuole dimostrare.
La comunità scientifica ha il dovere proprio di aiutare a comprendere se le analisi siano state condotte correttamente, se i dati siano stati interpretati coerentemente, se siano stati messi in rilievo i limiti, e se si possa aggiungere altro. In ambito scientifico il parere del singolo esperto conta molto poco. Ciò che conta è il lavoro della comunità scientifica nel suo complesso, che però deve essere lasciata libera di confrontarsi senza censure e autocensure.
La tesi del rapporto del Comitato tecnico-scientifico su cui è basato il Dpcm del 26 aprile è che sia necessario rallentare la riapertura perché in caso contrario le conseguenze sul sistema sanitario sarebbero terribili. Oltre a calcoli di dubbio valore, come evidenziato da previsioni irrealistiche, e alla mancata considerazione del profilo geografico ed ecologico dell‘epidemia – che di per sé sminuisce il valore di raccomandazioni fondate soltanto sul modello matematico utilizzato – va fatto notare che non si è tenuto conto del benessere della comunità nel suo complesso, non si sono inclusi gli effetti a tutto tondo del lockdown sul presente e sul futuro. Perché se il paese entrerà in recessione non avremo le risorse per pagare il sistema sanitario nazionale e fare gli investimenti necessari per una ricerca scientifica non governata da interessi privati, della quale abbiamo estremo bisogno per una vasta gamma di problematiche sanitarie, che non si riducono certo alle malattie contagiose.
Alcuni intellettuali di sinistra scrivono che non è stato per obbedienza passiva a un ordine imposto che gli italiani hanno accettato senza problemi il lockdown, e che l’unico modo in cui in questo momento ci si poteva prendere «cura dell’altro» era proprio l’isolamento. Sembrerebbe un ragionamento sensato, se non fosse che buona parte della popolazione è fuori dal quadro della narrazione.
Per permettere a noi di restare a casa bisogna che qualcuno ci procuri tutti gli oggetti e servizi che ci fanno stare tranquilli, dalle mascherine, ai test, alla sanità…. al cibo portato dai riders. Per permettere a noi benestanti di non correre rischi, condanniamo gran parte della popolazione alla disoccupazione e alla povertà. Si fa precipitare una nazione in una crisi economica paragonabile a quella del 1929, e si osa chiamare tutto questo «solidarietà». È il corto circuito intellettuale di una sedicente sinistra che in effetti adotta una postura individualista mascherata da sollecitudine per la salute pubblica e si dimentica di tutti coloro che un lavoro e una casa proprio non li hanno o li hanno persi.
Già nel 2007, nel suo Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Naomi Klein avvertiva che emergenze come quelle delle pandemie creano le condizioni ideali per realizzare programmi politici che in circostanze differenti incontrerebbero una durissima opposizione. Il cosiddetto «capitalismo dei disastri» nasce grazie alle speculazioni sulle catastrofi e sulle guerre sia a livello economico che politico. Come ha ribadito Klein di recente:
«Nei momenti di crisi, le persone tendono a concentrarsi sull’emergenza quotidiana del sopravvivere alla crisi, qualunque essa sia, e tendono a riporre fiducia eccessiva nel gruppo al potere.»
Il messaggio che passa è che per il bene di tutti sia necessario ridurre le libertà, compresa quella di opporsi alle scelte del governo, in nome di una mitica unità nazionale, proprio nel momento in cui l’emergenza rende più profonde le diseguaglianze. Rinunciando allo spazio per praticare il conflitto, nel giro di qualche giorno ci potremmo ritrovare tutti a lavorare dal lunedì alla domenica, dalle 7 di mattina all’una di notte… naturalmente solo perché lo Stato possa difendere la nostra salute.
L’obiettivo del lockdown doveva essere quello di prendere tempo per far sì che il virus si diffondesse lentamente, per potenziare i reparti di terapia intensiva e al tempo stesso renderli meno necessari anche grazie a diagnosi personalizzate, fornire un numero di dispositivi di protezione individuale (dpi) a tutti coloro che ne avevano bisogno, dare tempo ai medici per sperimentare terapie e capire come migliorare la prognosi, nonché educare la società a nuovi comportamenti più responsabili. L’obiettivo non era e non poteva essere arrivare a «0 contagi». Non viviamo su un’isola remota, i confini delle nazioni sono porosi, viviamo in un mondo globalizzato… Ma con il terrorismo mediatico messo in scena non è facile fare ordine nelle paure.
Nella fase che inizia bisogna imparare a convivere con il virus, anzi con i virus similinfluenzali nel loro complesso, e pensare a tutelare le persone a rischio anche perché prima di un anno, come minimo, non ci sarà un vaccino da proporre – con tutte le cautele del caso e il rispetto per le scelte individuali – ai soggetti più a rischio. Come si fa notare anche nel documento pubblicato su Jacobin Italia intitolato Primum vivere, non sopravvivere, sappiamo chi sono le persone che hanno maggiori possibilità di sviluppare forme gravi di malattia:
«Tutte le persone a rischio (primi fra tutti gli uomini dai 65 anni in su e sotto i 65 ma con patologie concomitanti) devono ricevere spiegazioni e indicazioni, principalmente dai propri medici di base, sui rischi che corrono ma deve essere chiaro che tutelare non vuol dire rinchiudere, restare a casa è una possibilità che – se scelta liberamente – va sostenuta con servizi a domicilio.»
Nel frattempo – e può essere un periodo molto più lungo di quanto certi media suggeriscono – è evidente che, sempre mantenendo la protezione per i soggetti più fragili, bisogna fare in modo che quante più persone possibile acquisiscano gli anticorpi. Il virus deve diffondersi perché più persone sviluppino immunità, e sia possibile curare l’infezione anche con il plasma di pazienti guariti (ovviamente mantenendo le precauzioni necessarie e tutelando le persone a rischio).
Più si diffonderà e meno avremo paura, ma cos’è stato fatto per affrontare il prossimo diffondersi del virus o le prossime pandemie? Quali misure si sono messe in campo per dare ai cittadini la fiducia necessaria ad affrontare il futuro con tranquillità? Invece di creare ospedali fantasma mai utilizzati non sarebbe meglio aumentare le assunzioni a tempo indeterminato di medici, infermieri e personale sanitario in modo che si faccia quella prevenzione e assistenza capillare sul territorio di cui si parla da tempo? Andrebbe anche risolta l’ambiguità su come gestire i piani sanitari tra stato e regioni. Ma al momento i provvedimenti sono solo in un’ottica emergenziale invece che di lungo periodo.
Anche per le scuole non si può pensare ad esempio che la soluzione sia lasciare a casa i bambini a turno perché seguano da casa le lezioni. Primo perché non tutti hanno né lo spazio in casa né gli strumenti tecnologici necessari, secondo perché qualcuno deve essere a casa ad assistere i bambini e non tutti possono permettersi le baby sitter, infine perché chi fa telelavoro – oggi lo chiamano smart working – dovrebbe poter lavorare e non dover seguire i bambini… e ovviamente chi, al solito, più di tutti pagherebbe queste scelte sono le donne.
Peraltro, bisognerebbe prendere le decisioni guardando all’evidenza scientifica, e una rassegna sistematica della letteratura pubblicata su The Lancet Child & Adolescent Health mostra che l’evidenza scientifica a sostegno della chiusura totale delle scuole per combattere il Covid-19 è molto debole e i dati relativi alle epidemie di influenza suggeriscono che le chiusure delle scuole potrebbero avere effetti relativamente piccoli su un virus con l’elevata trasmissibilità attribuita al Cov-2.
È ora quindi che chi ci governa si assuma le responsabilità di questa emergenza e non faccia di nuovo ricadere sui cittadini le responsabilità e le conseguenze degli errori fatti. La cura non deve essere peggiore del male. Per non trovarci impreparati di fronte alle prossime inevitabili malattie epidemiche, e al contempo per tenere in conto tutte le patologie, anche quelle non trasmissibili ma legate agli stili di vita e all’inquinamento, è necessario investire sulla ricerca scientifica, sulla prevenzione e su un’informazione medico-sanitaria equilibrata e che non coltivi false certezze.
* Sara Gandini, epidemiologa/biostatistica presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. professoressa a contratto di statistica medica presso l’Università Statale di Milano.
** Marco Mamone Capria, matematico ed epistemologo presso l’Università di Perugia, coordina il progetto Scienza e Democrazia e collabora con Il Giornale dei Biologi, organo ufficiale dell’Ordine Nazionale Biologi.