di Maurice Chevalier, Sandro Moiso e Jack Orlando
“Se l’aquila ferita vola rasoterra non vuol dire che per questo sia diventata una gallina.”
(Sergio Spazzali)“Non basta lavarsi le mani e mettersi una mascherina, dobbiamo costruire altri mondi”
(testo dal Chiapas ribelle)
Mentre nel secondo giorno della “fase 2” si sono contati 5 morti sul lavoro …
Mentre già 37000 sono i contagiati sul posto di lavoro, di cui 9000 nelle ultime due settimane…
Mentre i padroni chiedono di rilanciare la ripresa delle grandi opere e dei cantieri superando i vari ‘cavilli’ riguardo alla sicurezza sul lavoro e i vincoli ambientali…
Mentre, col cinismo classico del capitalismo, Trump dichiara che non si può fermare l’estrazione di plusvalore e quindi bisogna ‘riaprire tutto’ anche se ciò comporta più vittime causa virus…
Mentre la pandemia continua ad estendersi nel mondo e il disastro sanitario continua con le stragi nelle Residenze Sanitarie per Anziani, in Italia come nei principali paesi europei…
Mentre la recessione galoppa e la crisi sociale si delinea come sempre più devastante1, come dimostrano già i trenta milioni di nuovi disoccupati nei soli Stati Uniti.
Mentre la guerra civile mondiale si sviluppa in conflitti tra forze reazionarie e forze rivoluzionarie, in conflitti interreligiosi, in conflitti tra gli Stati e all’interno degli Stati fra le differenti fazioni della borghesia…
Mentre l’ONU dichiara che in conseguenza del coronavirus si prospettano carestie di proporzioni bibliche…
Mentre i soldi promessi dal governo Conte per cassa integrazione, bonus ecc. lasciano milioni di persone in attesa e si allungano progressivamente le file davanti agli sportelli bancari, piuttosto restii a praticare i “prestiti” e le casse integrazione in deroga2, e ai banchi dei pegni…
Mentre nelle banlieues parigine continuano le mobilitazioni, il 1 maggio i lavoratori e le le loro organizzazioni sono scesi in piazza in molte parti del mondo, come anche diversi movimenti, a Francoforte, in Turchia, in Cile e in Grecia (con la grande manifestazione indetta dal sindacato PAME), e in Bolivia esplodono ‘petardi’ in tutto il paese…
Mentre accade tutto questo, cosa succede, in Italia, nella casa dei movimenti?
L’avvio della fase 2 proposta dal Governo Conte, che estende l’obbligo al lavoro di fabbrica ma con divieto di fare assemblee nei luoghi di lavoro, riporta tutte e tutti al fronte con la quasi certezza di ulteriori morti e feriti3.
Confindustria e padronato, come hanno fatto durante tutto il periodo precedente alla fase 2 con la strage di lavoratori, soprattutto della sanità, in Lombardia, impongono la ‘riapertura totale’; da un lato battono cassa al governo, dall’altro richiedono di mettere in discussione le rimanenti conquiste dei lavoratori del secolo scorso. Bonomi, presidente neo-eletto di Confindustria, chiede infatti che : «Il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali» chiedendo di fatto, che i contratti nazionali vengano sospesi e si proceda ad una rinegoziazione totale dei diritti su base aziendale.
I sindacati confederali, mentre vengono vietate le assemblee e le iniziative nei luoghi di lavoro, rilanciano ancora una volta la concertazione e per bocca di Maurizio Landini, dichiarano «come associazioni sindacali, non da soli ma assieme ad associazioni e governo, abbiamo fatto cose importanti» e ‘gongolano’ per aver ottenuto i tavoli di lavoro programmatici.
Governo, Confidustria e Sindacati Confederali rilanciano ancora una volta “l’unità nazionale – tutti uniti contro il covid”, poi, sconfitto il virus, si potrà tornare a manifestare ‘in modo democratico e consociativo’. Un autentico trionfo dei principi della Carta del Lavoro fascista e del suo collaborazionismo di fondo, coperto mediaticamente dal canto immarcescibile e interclassista di “Bella ciao”.
Sul fronte dei movimenti e dei gruppi antagonisti, invece, sta prevalendo una sorta di neo-togliattismo, una politica dei due tempi potremmo dire, ovvero: oggi ci occupiamo di assistere i settori più poveri ed emarginati, chi ha bisogno della spesa ecc., rischiando spesso di diventare gli scaricatori dei camion con gli aiuti alimentari della Caritas, di Emergency o di altre organizzazioni cattoliche, valdesi oppure laiche …. e domani, quando ci sarà permesso di uscire di casa, quando sarà tolto il divieto di assembramento, ripartiremo con le lotte e “allora sì che ci organizzeremo per fargliela pagare”.
Oggi sembra che si possa agire solo, o quasi, sul piano delle videoconferenze o scioperi e cortei virtuali. Questa posizione comprende varie sfumature, da chi fa circolare petizioni ai parlamentari, finanche al Papa, per i detenuti e i migranti, a chi richiede a Confindustria e più in generale ai padroni di garantire la sicurezza in fabbrica; da chi si stupisce della violenza di carabinieri, guardia di finanza e polizia a chi richiede redditi ‘di sostegno’ allo stato: tutte iniziative condivisibili, ma nulle politicamente per chi abbia individuato nell’attuale devastante e vampiresco modo di produzione l’origine di una ‘catastrofe’ la cui accelerazione non permette più di coltivare l’illusione riformistica.
Tralasciando le iniziative di denuncia sardinesche, che come la propaganda del regime del ventennio, non sanno far altro che ripetere ossessivamente: «tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»4, va subito annotato come troppo spesso compagni e compagne, i movimenti, pur nelle rispettive differenze temano di essere identificati come untori se si cerca di aggirare i divieti sugli assembramenti e l’uscire di casa. Temono che oggi accompagnare la giusta costituzione di brigate per l’aiuto ai soggetti più colpiti dalla crisi con un’esplicita denuncia del capitalismo come responsabile di questo virus possa far passare per avvoltoi… per chi strumentalizza la sofferenza del covid 19; finendo così col dare vita, per l’appunto, a strategie che ricordano quelle togliattiane del PCI del secolo scorso, quelle che promettevano: “oggi unità nazionale per ricostruire l’Italia del dopoguerra, domani, risanata l’Italia, si farà la Rivoluzione”.
Ma questo, purtroppo, significa consegnarsi al Nemico, essere sconfitti senza lottare.
Anche perché è proprio la parola ‘Rivoluzione’ ad essere sospinta, forse ancora più di allora, fuori dal discorso.
Ma non possono esserci sempre un prima e un dopo, poiché è nella lotta che ci si organizza.
Non si può infatti stare solo ad aspettare gli aiuti statali, oltretutto fantasma; non si può partecipare alla distribuzione di cibo con le pettorine del Comune, di Emergency o della Caritas … tutto è immediato: fame, paura, sangue, merda … sono concreti adesso e non rispettano le fasi stabilite dalle discussioni, neanche quelle della critica radicale.
Le iniziative da un punto di vista individuale (anche apprezzabili) di sostegno e aiuto ai più colpiti dalla crisi che, però, non sanno tenere insieme questo con una pratica anticapitalista e la denuncia delle responsabilità per la diffusione del virus e della gestione della pandemia, che non costruiscono autorganizzazione, sono nulle sul piano collettivo, nulle nella costruzione della/delle comunità resistenti, necessarie per l’oggi e fondamentali per il domani.
Le iniziative che si sono invece tenute in varie città, in occasione del 1° maggio, come a Trieste, Torino (con una provocatoria ‘chiusura’ di Mirafiori) e in Valle di Susa a Bussoleno; lo sciopero dei riders e dei lavoratori della logistica, anche se non hanno portato in piazza grandi numeri, costituiscono esempi di altri percorsi possibili. Se le azioni mutualistiche permettono infatti di costruire rapporti nei territori, sono utili a patto che coltivino già da oggi il radicale rifiuto del modo di produzione vigente e delle sue regole.
Se le varie forme di assenteismo, i blocchi, le fermate, gli scioperi nei luoghi di lavoro, torneranno a esplodere come nel mese di marzo, finiranno col divenire un elemento cruciale dei conflitti scatenati dalla crisi. Mentre anche le lotte in carcere e dei migranti potranno trarre vantaggio dallo sviluppo e dalla diffusione di una forte mobilitazione intorno al tema centrale del conflitto tra capitale e lavoro. Come è già avvenuto in passato.
Soprattutto tornando a parlare dei migranti come proletari sfruttati e non come vittime di un generico razzismo atemporale cui contrapporre l’amore caritatevole e la generica solidarietà che tanto piacciono alla Chiesa e ai benpensanti di ‘sinistra’. Gli stessi che coltivano come una grande dimostrazione di civiltà la concessione di permessi di soggiorno temporanei per i braccianti agricoli, da rimettere al lavoro in pandemia e da riscaricare nel nero a emergenza finita. Una dimostrazione, più lampante che mai, di come il razzismo, quello di Stato da cui discendono tutti gli altri, sia quello nei confronti della ‘razza’ messa a produrre profitto5, e che si può combattere con i subalterni in quanto lavoratori, non in quanto vittime di una generica disuguaglianza.
Oggi, superare i divieti, aprire vertenze sui luoghi di lavoro, autorganizzarsi, praticare l’essere comunità e classe, con autodisciplina rivoluzionaria, applicando le necessarie misure sanitarie di autodifesa dal virus, è fondamentale per chi si dice antagonista del modo di produzione vigente. Così come in montagna e sui territori è importante che le comunità continuino a ritrovarsi, organizzarsi, fare il pane, coltivare le terre, lottare in modo collettivo.
Una comunità in salute si costruisce con intelligenza e consapevolezza volta al benessere collettivo e all’antagonismo irriducibile; si costruisce nella lotta, non con opere di assistenza, droni e decreti presidenziali finalizzati al profitto di pochi. Perché, in fin dei conti la gemeinwesen, la comunità umana di marxiana memoria, è ben altra cosa dalla comunità nazionale o da quella definita dalle strutture giuridiche e amministrative derivate dagli interessi del capitale.
Le limitazioni sull’assembramento, sul diritto di assemblea ecc. saranno durature e aspettare un ‘dopo’ basato su un vaccino miracoloso prodotto e distribuito da Big Pharma, delega allo Stato la questione della salute e ci costringe all’angolo, lasciando spazio soltanto alla mobilitazione reazionaria, che in Italia già è scesa in piazza con i bottegai, con i gruppi neofascisti che occupano case ‘solo per gli italiani’ o con manifestazioni fintamente spontanee, come quelle promosse dalle Mascherine Tricolore, nuovo cartello di CasaPound, oppure ancora, come negli Stati Uniti, con gli operai armati del Michigan che chiedono di riaprire tutte le attività lavorative.
Se infatti, a parte pochi casi, i movimenti si sono astenuti dal mobilitarsi, ciò è stato comunque agito in forma spontanea e spesso disorganizzata con modalità e in situazioni diverse. Dei nuovi fronti si muovono e compongono nell’ombra, spesso esplicitamente alla ricerca di una chiave di lettura o di una direzione politica, e sono i rigagnoli di quelle forze sprigionate dalla crisi, che hanno iniziato a sgorgare dalle crepe nell’edificio della tenuta sociale, spesso sporchi e senza ideologia, ma potenzialmente fecondi e agguerriti6.
Come insegna la teoria dei piani inclinati, dove non avanza la rivoluzione allora avanza la reazione. Se questi rigagnoli reclameranno soviet o case del fascio è tutto ancora da scrivere. Intanto, però, l’affermazione del fascismo storico una cosa ci insegna ancora:
“Nella misura in cui, nella crisi della vita sociale italiana, il movimento socialista commetteva un errore dopo l’altro, il movimento opposto – il fascismo – cominciò a rafforzarsi, riuscendo in modo particolare a sfruttare la crisi che si profilava nella situazione economica, e la cui influenza cominciò a farsi sentire anche sulla organizzazione sindacale del proletariato […] Il proletariato era disorientato e demoralizzato. Il suo stato d’animo […] aveva subito una profonda trasformazione […] (e) quando la classe media constatò che il partito socialista non era in grado di organizzarsi in modo da ottenere il sopravvento, espresse la propria insoddisfazione, perse poco a poco la fiducia che aveva riposto nelle fortune del proletariato e si rivolse verso la parte opposta […]. È in questo momento che ebbe inizio l’offensiva capitalistica e borghese. Essa sfruttò essenzialmente lo stato d’animo in cui la classe media era venuta a trovarsi. Grazie alla sua composizione estremamente eterogenea, il fascismo rappresentava la soluzione del problema di mobilitare le classi medie ai fini dell’offensiva capitalistica […] Nell’industria l’offensiva capitalistica sfrutta direttamente la situazione economica. Comincia la crisi e si afferma la disoccupazione. […] La crisi industriale fornisce ai datori di lavoro il punto di partenza che permette loro di invocare la riduzione dei salari e la revisione delle concessioni disciplinari e morali che precedentemente erano stati costretti a fare agli operai” (A. Bordiga, Rapporto sul fascismo al IV congresso dell’Internazionale Comunista – 16 novembre 1922)
Cogliere l’occasione e afferrare il tempo del cambiamento e del rifiuto dell’esistente, quando si presentano, è dunque un’indicazione necessaria e tutt’altro che velleitaria, considerato che ai movimenti che intendono superare il modo di produzione dominante non sarà mai concesso, dai loro avversari, di procedere per fasi dilazionate nel tempo. A meno che non accettino di essere diluiti come uno sciroppo colorato nell’acqua.
“Come possono vincere, pensavo? Come può il nuovo mondo, pieno di confusione e di equivoci e di illusioni e abbacinato dal miraggio delle frasi idealistiche, vincere contro la ferrea combinazione di uomini abituati a governare, legati da una sola idea, quella di non mollare quanto posseggono” ( Introduzione alla guerra civile: 1916-1937 – John Dos Passos).