Ha sollevato un certo scalpore, nonché polemiche, l’appello a sostegno del governo sottoscritto da una ventina di intellettuali, tra cui nome autorevoli del nostro pensiero “critico”, come Luigi Ferrajoli e Marco Revelli. Successivamente quest’ultimo e anche Nadia Urbinati, tramite due testi, hanno spiegato i motivi della scelta. In sostanza gli attacchi concentrici da parte della destra e dal neopresidente della Confindustria mirano alla caduta dell’esecutivo con il rischio di spalancare la porta a un governo delle banche guidato da Draghi, o ad una nuova maggioranza incentrata su Lega e Fratelli D’Italia.
Quindi, pur con tutte le dovute critiche, questa la sostanza del ragionamento, teniamoci Conte e i suoi alleati. Insomma un punto di vista che abbiamo ampiamente conosciuto in questi anni, a partire dal primo governo Prodi. Una teoria del “meno peggio” per evitare il peggio. Peccato che come è stato dimostrato, non solo in Italia, il “meno peggio” ha fatto sempre da battistrada al “peggio”, anticipandone spesso i provvedimenti, anzi spesso sperimentandoli per primo, magari in forma soft.
Ma a parte queste considerazioni, peraltro non nuove, c’è un altro aspetto ancora più centrale su cui vorremmo attirare l’attenzione. I processi di globalizzazione economici e politici, che sicuramente andranno tutti verificati dopo la crisi scatenata dall’attuale pandemia, hanno, come è noto, svuotato gradualmente e irreversibilmente l’autonomia dei singoli governi, al di là delle spinte nazionaliste dei vari sovranismi sviluppatisi recentemente. Lo stesso Revelli ai tempi del G8 di Genova parlò efficacemente di un “potere senza luogo” che esautorava i “luoghi senza potere”.
Per questo, e non solo, a partire dagli anni Novanta con la rivolta zapatista, i nuovi movimenti hanno evidenziato la necessità di evitare di misurarsi sul terreno del “governo nazionale”, storicamente infido per chi vuole trasformare la realtà dal basso, proponendo pratiche, percorsi, reti, incentrati sull’autogoverno, sul municipalismo, sul federalismo democratico, in sostanza sull’autonomia sociale. E’ stato così in Chiapas, in forme ancora più avanzate lo hanno praticato i curdi nel Rojava, e in forma embrionale, seppur in forma temporanea e su basi diverse, si sono espresse le piazze arabe, spagnole (indignados), Occupy.
Continuare a illudersi che un governo un po’ meno peggio di un altro (forse) possa essere degno di attenzione o di sostegno, significa perpetrare un equivoco e soprattutto ignorare la lezione che le esperienze sopra citate ci hanno impartito. La possibilità che dalla tragedia di questi mesi, se ne possa uscire in direzione diametralmente opposta a quella proposta dalla retorica liberista, produttivista di questi giorni, e dalle stesse scelte dell’attuale governo, sta nella capacità delle soggettività sociali in prima fila per contrastare gli effetti della crisi in corso, di dare vita a pratiche locali altre, a progettualità alternative sul piano economico e sociale, aprendo un fronte con le varie istituzioni locali e regionali.