Lo scorso 28 aprile si è svolto il webinar “Reddito universale contro la crisi sistemica”, organizzato dalla campagna nazionale “Reddito di quarantena. Verso un reddito universale”. Tre sono state le sessioni dei seminari online: economia e finanza, riproduzione sociale tra genere e ambiente, sindacalismo sociale. In questo primo articolo daremo una restituzione del primo panel, nel quale sono intervenute/i Francesca Coin (università di Lancaster), l’economista Andrea Fumagalli e gli attivisti Tiziano Trobia (sindacalista CLAP-Roma), Rolando Lutterotti (Lavoratore dello spettacolo) e Federico Colomo (Adl Cobas-Rimini). Nei prossimi giorni pubblicheremo gli articoli dei singoli interventi degli ospiti e le restituzioni delle altre sessioni.
Tra gli argomenti principali a detrazione del reddito universale troviamo solitamente obiezioni di natura economica sul reperimento delle risorse e sulla sua efficacia come strumento di contrasto alla crisi. Nel contesto della crisi economica provocata da quella sanitaria legata al Covid-19, l’approvazione normativa di una misura simile significherebbe certamente direzionare ingenti finanziamenti verso il basso – lavoratori e lavoratrici – e ripensare in maniera strutturale l’impianto dei diritti sociali, in Italia come in Europa. Un cambiamento di mentalità, quest’ultimo, che implica l’adozione di una diversa strategia politica, orientata a mettere al centro i bisogni e le necessità del/lla singolo/a lavoratore/trice, così come a promuoverne l’indipendenza economica di fronte a datori e padroni di azienda. Difatti, per reddito universale di base si deve intendere una remunerazione diretta di denaro al singolo individuo da parte dello Stato, senza alcuna condizione (ad esempio, l’obbligo di accettare servizi, stage e offerte di lavoro proposte dal centro per l’impiego) e limite temporale. È dunque chiaro che la questione soggiacente alla mobilitazione di denaro necessaria per il reddito abbia un carattere squisitamente politico, andando a riformare in profondità l’idea che sta alla base del welfare del secolo scorso, cioè lo scambio tra diritti e lavoro.
La polemica che riguarda i fondi a supporto della norma sul reddito nasconde, in realtà, un’opposizione tutta politica incentrata sulla conservazione dei rapporti di potere tra classi, tra capitale e lavoro. Ciò diventa evidente, a maggior ragione, se osserviamo da vicino gli accesi dibattiti che hanno coinvolto i rappresentanti dell’Unione Europea nelle settimane di pandemia, in particolare la discussione – rimasta tuttora irrisolta – sugli strumenti finanziari da attivare per tamponare e sanare la recessione economica dovuta al blocco della produzione. Nel Consiglio europeo del 23 aprile, sulla scia delle disposizioni inerenti al Quantitative easing della Bce e delle decisioni della Commissione europea (il fondo europeo per la cassa integrazione Sure), il punto controverso non è mai stato se le risorse ci fossero o meno, bensì lo scontro tra diversi modi di intendere gli investimenti in contrasto alla crisi. In nome della solvibilità del debito di Stato, ammantata di retorica sulle spese immorali dei Paesi del Sud Europa, il blocco del Nord ha fatto muro contro qualsivoglia mutualizzazione del debito, in primis gli Eurobond e in secondo luogo l’ampiezza della percentuale di trasferimenti, diversi dai prestiti, contenuti nel Recovery Fund. Non che il governo italiano, per fare un esempio tra i Paesi del sud, avesse alcuna intenzione di attingere a fondi monetari per tutelare le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici, come del resto dimostrano la sudditanza a Confindustria e lo stanziamento finanziario destinato alla cittadinanza nel “Decreto Rilancio”. Per il Nord Europa capeggiato da Germania e Olanda, non si possono mettere in discussione le opportunità di speculazione dei mercati finanziari, mantenendo i tassi di interesse sui debiti alti, né tantomeno i privilegi di top manager e dirigenti di banche e imprese. Mentre il Recovery Fund potrebbe essere devoluto in buona parte alle grandi imprese dai governi, l’iniezione di liquidità della Bce potrebbe benissimo stagnare in finanza, con l’acquisto di nuovi titoli e azioni per gonfiare gli alti stipendi dei manager, piuttosto che sgocciolare nelle tasche della cittadinanza.
L’economia non è un mondo a sé che risponde a leggi naturali immutabili: chi lo sostiene, tendenzialmente, è in malafede e cela i suoi interessi politici dietro tecnicismi spacciati per neutri. L’Unione Europea e i singoli Stati avrebbero i mezzi sufficienti per approvare il reddito universale e programmare contestualmente un piano strategico di investimento sui servizi essenziali, dalla sanità alla scuola. Se da una parte la Bce potrebbe acquistare i titoli di Stato e abbassare i tassi di interesse dei prestiti, dall’altra l’Unione Europea avrebbe il potere di sostanziare il volume dei trasferimenti a fondo perduto con il vincolo di spesa per welfare e lavoro; parimenti, l’Italia avrebbe l’occasione di intervenire su un’impalcatura normativa già esistente, se le istituzioni avessero la volontà di approvare una misura previdenziale affine al reddito universale. Il Basic Income Network (BIN), difatti, avanza la proposta di modificare la legge n. 5/2019 sul reddito di cittadinanza targato 5stelle, estendendo la platea dai circa 2 milioni di individui di oggi ai 7/8 e abrogandone gli obblighi. La tipologia di erogazione che ne nascerebbe non sarebbe alternativa alla cassa integrazione e al Fis, ma si rivolgerebbe a tutti e tutte i disoccupati e inoccupati; dovrebbe, inoltre, essere accompagnata da una legge sul salario minimo e i diritti sindacali in modo da valorizzare equamente il lavoro subordinato e impedire fenomeni di dumping sociale. È ovvio che una quantità così cospicua di risorse non sarebbe alimentata soltanto dalla liquidità europea, ma anche da una diversa impostazione della fiscalità generale: patrimoniale, web tax contro i grandi monopoli dell’era digitale, progressività delle tasse. In buona sostanza, una ridistribuzione verso il basso della ricchezza che va a attaccare le grandi rendite e i grandi profitti.
Remunerazione diretta (reddito universale), investimento sul welfare, diritti del lavoro costituiscono il nucleo delle riforme che garantiscono un’alta qualità della vita agli individui, accesso gratuito a cure e istruzione, il rilancio dei consumi di beni primari e non contro la recessione. Ma non solo: oltre a rappresentare un’imprescindibile armatura economica e finanziaria per le persone più vulnerabili dal punto di vista occupazionale, queste riforme andrebbero a trasformare in profondità il sistema di welfare e del mercato del lavoro nato a immagine e somiglianza del lavoratore salariato subordinato maschio. In poche parole, il reddito universale darebbe dignità a tutti e tutte coloro che sono rimasti esclusi o fortemente discriminati dagli ammortizzatori sociali storici (CIG, CID, Naspi, Fis, ecc.) e da quelli varati ad hoc durante la pandemia (“Cura Italia”), a partire dagli autonomi e dagli intermittenti dello spettacolo, passando per colf e badanti, fino ai/alle precari/e e prestatori/trici occasionali.
L’intervento di Francesca Coin (Università di Lancaster) ci aiuta a valutare alcuni movimenti dell’economia reale per darci una misura della recessione economica che stiamo vivendo – la quale dalla produzione può passare facilmente al debito – e delle risposte delle istituzioni europee. Nel sottolineare la mancanza di volontà politica per l’approvazione del reddito universale, l’intervento si sofferma sull’urgenza di pratiche femministe di cura rivolta alle persone vulnerabili e di lotte nel mondo del lavoro, le quali devono trovare nuove forme nel contesto della crisi sanitaria.
Andrea Fumagalli (Università di Pavia), constatando il fallimento del modello lombardo di sanità pubblica, passa al vaglio le varie norme sul reddito di emergenza e illustra la proposta del BIN per un reddito universale. Nelle sue parole ritroviamo il carattere paradigmatico dell’adozione del reddito universale, che dovrebbe cambiare radicalmente il welfare novecentesco e ridefinire i contorni dello statuto del lavoro.
Di seguito, gli interventi di Tiziano Trobia (sindacalista CLAP-Roma), Rolando Lutterotti (Lavoratore dello spettacolo) e Federico Colomo (Adl Cobas-Rimini) portano un punto di vista interno al mondo del lavoro e alle mobilitazioni, nella fattispecie nel comparto spettacolo e dell’educazione, in cui emerge come il reddito sia una rivendicazione centrale per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone.