Pandemia e guerre commerciali globali, l’economia affonda

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di Marco Bertorello e Danilo Corradi*

*articolo pubblicato su il manifesto del 30.05.2020

In queste settimane di pandemia l’Economist ha scritto di un mondo che gira con un’economia al 90%, cioè con una contrazione decisa su scala sovranazionale. Il settimanale economico ha inoltre sottolineato come da tempo fosse in corso un rallentamento della globalizzazione (Slowbalisation) che dovrebbe giungere a un vero e proprio fermo di questo lungo processo (Goodbye Globalisation). Un fermo che trae origine dalle battaglie commerciali tra Usa e Cina e che a partire dal Covid-19 sembra far divenire un dato strutturale.

Il crollo della mobilità aerea all’aeroporto londinese di Hethrow del 97%, il crollo del 90% delle esportazioni di auto dal Messico, e ancora la riduzione del 21% dei movimenti di container transpacifici, vengono intesi come esempi di uno scenario economico futuro. Sul lato della finanza si aggiunge un interventismo statale ancora più marcato di quanto affermatosi dopo il 2008. E’ di questi giorni la notizia che il Giappone raddoppierà le misure a sostegno dell’economia e delle proprie imprese, per un ammontare complessivo pari al 40% del Pil, con il risultato di far volare la Borsa di Tokyo oltre che il proprio debito sovrano.

Il sostegno finanziario delle banche centrali sembra, dunque, coniugarsi con un ripiegamento dei movimenti commerciali che finirà per condurre a un’accelerazione della riorganizzazione delle catene di produzione globali. Queste sebbene non spariranno, certamente daranno vita a un articolato processo di rilocalizzazione su base più territoriale. La stessa Cina che negli anni recenti, in contrapposizione alle spinte emergenti in tanta parte di Occidente, si è posta in continuità con i processi di mondializzazione, rafforzerà quello che può sembrare un ossimoro e che Alessandro Aresu ha definito un’idea «nazionale globale», un «nazionalglobalismo».

L’impegno profuso nel costruire reti infrastrutturali materiali e immateriali a varie latitudini avrà un segno sempre più riconducibile all’economia dell’Impero celeste. L’emergenza sanitaria ha evidenziato ovunque, ma in particolare nei paesi occidentali, segnati da decenni di delocalizzazioni e privatizzazioni, come siano necessari produzioni di prossimità e magazzini relativamente pieni almeno di alcune merci strategiche, oltre che beni sanitari essenziali autoctoni. Ha evidenziato anche una ritrovata centralità della sfera pubblica. Esattamente il contrario di alcuni assunti dell’impresa e dello Stato ai tempi in cui la globalizzazione aveva il vento in poppa.

Questo processo a ritroso da un lato potrebbe portare ad alcuni vantaggi occupazionali e produttivi almeno in alcuni settori, se condotto a determinate condizioni, diciamo così, meno mercatiste, dall’altro potrebbe semplicemente annullare alcuni vantaggi frutto della globalizzazione se si affermasse senza alcuna inversione di tendenza più generale. Cioè, se la rilocalizzazione conducesse a un aumento dei costi, e dunque dei prezzi, senz’altra contropartita in termini di ripensamento delle produzioni e dei prodotti, senza una rifondazione dello status del lavoro, delle sue condizioni di esercizio e di reddito, allora il gioco rischia di essere banalmente a perdere.

Il possibile, e non certo, rimbalzo economico dopo la fine della pandemia difficilmente sarà paragonabile alla caduta, e tali processi potrebbero aggravare un contesto che sarà strutturalmente fragile per un tempo non breve. Disoccupazione, riduzione dei consumi, crisi aziendali, crescita dei debiti pubblici e privati deteriorati, sono forieri di una possibile lunga crisi che si attorciglierà su se stessa. Se questo è il panorama, non sarà possibile semplicemente rilanciare l’economia attraverso principi competitivi in sedicesimi, basandosi su un combinato di riduzione dei costi per rilanciare le esportazioni e aumento dei prezzi interni, magari dopo una parentesi deflattiva. Non sarà dentro nuove guerre commerciali a colpi di iper-competitività che potranno risollevarsi i paesi colpiti dalla crisi.

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