Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Annalisa Bosco, dottoressa in Relazioni Internazionali e Cooperazione allo sviluppo (Università per stranieri di Perugia); volontaria Focsiv in Ecuador; attivista ecologista e per i diritti dei popoli indigeni.
Raccogli un fiore sulla Terra e muoverai la stella più distante.
(Paul Dirac)
Il momento storico che stiamo vivendo ci ha travolti in modo (quasi) inaspettato esaltando con tutta la sua forza le vulnerabilità dell’interconnessione mondiale nei suoi molteplici aspetti e la cui entità, probabilmente- fino a qualche mese fa- non era stata contemplata. Lo sconvolgimento degli ecosistemi nel Sud-Est Asiatico, in America Latina o in qualsiasi altra area del globo, sembrava, infatti, mera preoccupazione degli ambientalisti, ecologisti e altri “estremisti” della scuola Thunberg che minacciavano il normale funzionamento della macchina produttiva della plastica e di altri artefatti moderni. Consapevoli della (relativamente) assodata realtà dello lo scioglimento dei ghiacci permanenti, abbiamo constatato con certezza che la perdita di natura complessiva porta con sé conseguenze devastanti. Quando, per esempio, si abbatte una foresta tropicale, o parte di essa, la narrativa della distruzione conduce alla massima espressione dell’antropocene. Questa nuova era geologica è stata classificata come tale proprio per via delle modifiche che il pianeta ha subito a causa delle attività antropiche. Il termine- inteso come “era dell’uomo”- fu coniato dal chimico e premio nobel olandese Paul Crutzen e, assume, oggi, connotati ancor più forti se si pensa al peso dell’intervento umano sull’ecosistema globale. Lo spossessamento territoriale operato dalle transnazionali nelle aree più povere del mondo, infatti, rappresenta una grande minaccia, non solo per la salute della popolazione e dell’ambiente in generale ma, anche, per la grande violazione dei diritti umani che esso produce, rendendo le popolazioni vulnerabili di fronte agli sconvolgimenti ecosistemici e climatici e meno preparate alle risposte pandemiche. Il recente approccio olistico “One health” adottato da diversi organismi delle Nazioni Unite, considera la salute animale e ambientale essenziale per quella umana e potrebbe essere un nuovo punto di riflessione e partenza in questo scenario d’incertezza e paura per il futuro che verrà. Nulla sarà come prima?
Negli anni novanta, sulle foreste pluviali indonesiane iniziò ad osservarsi una nube scura: le fitte chiome verdi avevano iniziato a bruciare cedendo spazio alle grandi monocoltivazioni destinate all’esportazione di palma africana. I fumi prodotti da quegli incendi impedirono agli alberi di produrre frutti e spinsero la fauna locale ad abbandonare il territorio. Le volpi volanti trovarono fonte di cibo nei pressi degli allevamenti di maiali in Malesia. Questi iniziarono ad ammalarsi tutti- probabilmente- dopo aver mangiato i frutti precedentemente morsi dalle stesse volpi. La malattia iniziò, poi, a colpire gli allevatori. Proprio a partire da questa vicenda, venne scoperta l’esistenza del virus Nipah e non fu un caso isolato. In molti contesti afflitti dalla deforestazione,di fatto, si sono sviluppati agenti patogeni pericolosi per la salute animale e umana. Per esempio, nella maggior parte delle aree tropicali del pianeta in cui la distruzione forestale è ormai prassi, è molto comune che le persone si ammalino di malaria. Nell’Amazzonia brasiliana gli episodi di malaria- infezione di un parassita trasmesso delle zanzare- sono aumentati seguendo l’espansione delle aree agricole fino alla registrazione di oltre 600.000 casi (accertati) in un solo anno. Le indagini condotte in paesi come Brasile o Perù hanno dimostrato che questa zanzara-vettore depone le sue larve nelle pozze dove l’acqua non viene più assorbita dagli alberi e, normalmente, lungo le strade ricavate dall’abbattimento degli stessi, percorse giornalmente dagli “addetti ai lavori”.
Più della metà delle malattie infettive (zoonosi) che colpiscono l’uomo – come appunto malaria, HIV o Ebola, per esempio- vengono trasmesse da animali principalmente selvatici. In alcune aree del pianeta dove è ampliamente praticata la coltura della palma da olio e dai cui frutti sembrerebbero essere attratti i topi, si è diffuso il virus Lassa. Le feci o l’urina dei roditori hanno favorito lo sviluppo di questa febbre emorragica negli uomini con conseguenze letali sugli stessi. Si sono registrati casi simili in Liberia ed esistono possibilità affini nelle aree deforestate di Panama, Bolivia e Brasile- in quest’ultimo anche per via degli incendi amazzonici avvenuti nel corso del 2019.
Come segnala il WWF nel report di marzo 2020[1], esiste un legame strettissimo tra le epidemie e le dimensioni allarmanti della perdita di natura e biodiversità. L’impatto umano sugli ecosistemi naturali ha modificato significativamente oltre la metà della superficie terrestre e marina. Questo meccanismo ha favorito l’ aumento dei siti di riproduzione di vettori e malattie; la perdita di predatori e aumento di ospiti serbatoio e il traferimento di patogeni tra specie diverse[2]. Le periferie degradate di molte metropoli tropicali si sono convertite in habitat preferenziale per dengue, tifo o colera. Nei mercati di queste stesse zone, la fauna selvatica locale viene venduta creando l’ambiente perfetto per le zoonosi che, lungo le strade commerciali, si propagano, poi, al resto del mondo. Considerando, infine, che tutti i virus e i batteri si sviluppano preferibilmente con temperature caldo-umide, il riscaldamento globale si riversa glorioso nel quotidiano fluire degli eventi, portando con sé tutto il contraccolpo della distruzione del pianeta.
Conservare la natura e riparare gli habitat danneggiati, rappresenta, oggi, una delle principali sfide per preservare la nostra salute e ripristinare gli equilibri ambientali così come quelli delle popolazioni. Tale processo implica una messa a tutela dell’ambiente e degli individui, soprattutto di quelli maggiormente a rischio. Gli episodi più recenti hanno mostrato, infatti, la vulnerabilità di determinati popoli di fronte alla distruzione ecosistemica e alla diffusione delle epidemie da essa facilitata. Ce lo ricorda, in questi giorni, l’appello del fotografo brasiliano Salgado per la salvaguardia delle popolazioni indigene del Brasile. La stretta correlazione tra le culture millenarie, il territorio e la loro tutela, sembrerebbe essere una forse, certa, possibilità di salvezza per l’umanità. Al contrario, l’ipotesi di un genocidio, l’avanzare più estremo delle attività (illecite) di sfruttamento delle risorse, comporterebbero danni irreversibili.
Le Costituzioni d’olteroceano, di Bolivia (2008), Ecuador (2009) o Perù (2008) hanno, da tempo, inserito la madre terra tra i propri soggetti di diritto attraverso il recupero e la conservazione delle culture e dei saperi ancestrali. La cosmovisione, cioè, la possibilità di una vita in armonia con la natura per il raggiungimento del buen vivir, assume così, un significato giuridico e detta le norme per la tutela dell’ambiente e degli individui. Tali avanzi sono stati possibili grazie anche al movimento indigeno, alle rivendicazioni dei popoli, alla lotta contro lo sfruttamento intensivo dei territori operato dalle multinazionali e dai governi. Una magnifica svolta biocentrica che però, in molti casi, sembrerebbe essere vera solo sulla carta, piegata di fronte al volere degli interessi economici.
Negli ultimi decenni, si è diffusa a livello mondiale l’idea di un approccio “One health” che riconosce l’importanza della salute ambientale e animale per quella umana. Questo ideale olistico è stato preso in considerazione da svariati organismi delle Nazioni Unite e sembrerebbe essere un possibile nuovo punto di partenza per le agende future. Qualcuno ha detto con toni drammatici che superata l’emergenza COVID-19, “nulla sarà come prima”. In effetti, la speranza è proprio quella. Il 21 maggio,ogni anno, si celebra la giornata internazionale Anti Chevron (primaTexaco)[3], l’impresa petrolifera statunitense che ha commesso gravi violazioni nei paesi del mondo in cui opera[4]. Le operazioni della transnazionale hanno, di fatto, accelerato la diffusione di malattie mortali, non solo per lo sfrenato sfruttamento territoriale portato avanti, ma anche per la grande contaminazione ecosistemica causata che, insieme al divampare dell’attuale pandemia, ha lasciato intere comunità senza acqua e alimenti sani. Uno dei paesi maggiormente afflitti da entrambe le infermità, quella del COVID e quella del petrolio, è l’Ecuador e ad oggi, sembrerebbe essere primo in classifica per casi di cancro nel continente latinoamericano. È esattamente per tutte queste ragioni che nulla dovrebbe essere come prima, tranne la foresta: quella dovrebbe tornare a vivere.
Immagine di copertina: il lago Agrio, in Ecuador, dove da anni ci sono ingenti sversamenti di petrolio provenienti dai pozzi della multinazionale Texaco.