Pubblichiamo la seconda parte del secondo rapporto dell’osservatorio dello stato d’emergenza sanitaria in Francia, uscito su Acta.zone, lo scorso 10 maggio e tradotto per Globalproject.info da Sara Corsaro e Giulia Liotta. La prima parte era dedicata alle resistenze nei territori coloniali, quartieri popolari, alloggi dei migranti e CRA (N.d.T. Centri di Detenzione Amministrativa); questa è riservata alla situazione carceraria e alle conclusioni politiche.
NELLE PRIGIONI
Abbiamo condotto diverse interviste, alcune delle quali sono state pubblicate sulla scheda dell’osservatorio disponibile sul sito di ACTA dopo un lavoro per l’anonimizzazione e la modificazione dei dati personali. Prossimamente saranno pubblicate alcune interviste e altre, non pubblicabili, hanno contribuito comunque a fornire i dati utilizzati per produrre il contenuto di questa sintesi. Queste interviste sono state condotte quasi esclusivamente nel quadro dei maggiori istituti penitenziari maschili della regione parigina. Non consentono di riportare una visione globale della situazione nazionale delle prigioni durante la crisi del COVID-19, permettono tuttavia di cogliere delle dinamiche e di incrociare diverse realtà nelle strutture della regione dell’Ile-de-France.
La sintesi delle interviste permette di dare conto che un certo numero di resistenze collettive e individuali sono state condotte all’interno delle strutture sotto inchiesta. Queste si iscrivono in un movimento più largo, che rivela il numero eccezionale di movimenti collettivi, di blocchi, di sommosse e di rivolte, che sembra aver superato quello delle rivolte penitenziarie degli anni ’70, ultimo grande movimento di lotte nelle prigioni francesi. D’altra parte, una delle particolarità di questo movimento di rivolta è che assume ugualmente una dimensione internazionale, anch’essa ineguagliata fino ad oggi. In Europa, i/le detenuti/e hanno protestato nella maggior parte dei paesi più duramente colpiti dall’epidemia, proteste che si riscontrano dappertutto nel mondo. Per quanto riguarda la Francia, da qualche settimana si nota nondimeno un cambiamento nelle forme della mobilitazione, cambiamento che fa trasparire una tendenza a un indebolimento, o almeno a un cambio di forma, legato a diversi fattori sui quali torneremo. Nel quadro della recensione delle rivolte carcerarie condotte dall’osservatorio, possiamo notare in particolare una trasformazione delle modalità di lotta, passando dai blocchi e dalle sommosse che hanno caratterizzato le prime settimane della crisi a forme alternative di mobilitazione collettiva, o a una recrudescenza delle azioni di resistenza individuale. Abbiamo tentato di cogliere, a partire dalle differenti interviste a nostra disposizione, le ragioni di questo indebolimento, partendo dalle strategie che l’amministrazione penitenziaria (AP) tenta di mettere in pratica per contenere questo movimento di rivolta.
Contenere la rivolta:
Situazione repressiva e sanitaria
Nell’insieme degli istituti penitenziari coinvolti dal dispositivo d’inchiesta, tutte le interviste riportano degli interventi violenti e ricorrenti da parte delle ERIS (Squadre regionali d’intervento e di sicurezza) e delle ELAC (ribattezzate Squadre locali di sicurezza penitenziaria), così come delle forze di polizia e di gendarmeria esterne. Si tratta da una parte di interventi di reazione avvenuti quando il movimento è cominciato, che si sono tradotti in violenze corporali, in trasferimenti in strutture di massima sicurezza o in condanne e prolungamenti della pena sul piano giudiziario. Poi, d’altra parte, si tratta di interventi preventivi, che consistono per la maggior parte in una militarizzazione dell’istituto penitenziario per un periodo da 24 a 48 ore da parte di agenti col viso coperto, armati, che hanno occupato in maniera visibile e coercitiva la maggior parte degli spazi di circolazione. Questi interventi preventivi sono stati spesso resi possibili grazie ai servizi di informazione penitenziari (SNRP), con l’intermediario della sorveglianza diretta o attraverso il monitoraggio dei social network – Snapchat è stata l’applicazione aperta più mobilitata nel coordinamento e nella strutturazione delle rivolte dall’inizio della crisi.
Le prime rivolte sono scoppiate in seguito alla soppressione dei “parlatori” (i colloqui, NdT), una misura che ha comportato una cesura dei rapporti famigliari nel mezzo di una crisi sanitaria senza precedenti, rendendo la comunicazione con l’esterno difficile (essendo la posta nel suo insieme ugualmente bloccata o rallentata) e l’inquietudine dei detenuti per le loro famiglio riguardo il diffondersi del virus crescente. Pertanto, la necessità di una quarantena resta nell’insieme una misura comprensibile, il cui principio è poco contestato. È il divario tra misure restrittive che colpiscono essenzialmente i detenuti e le loro famiglie e le misure sanitarie reali intraprese in detenzione che motiva la maggior parte delle azioni di resistenza. In effetti, tutti testimoniano che nulla o quasi cambia in carcere tranne la soppressione dei colloqui e delle attività (escluso il lavoro). Le passeggiate sono mantenute senza la possibilità di applicare una qualsiasi misura di protezione. I sorveglianti circolano senza mascherina e lavorano senza guanti. Essi, nonostante giungano dall’esterno, non esitano a praticare perquisizioni corporali direttamente sui prigionieri. La distribuzione dei pasti viene fatta da questi stessi agenti e da detenuti senza dispositivi di protezione. Le docce vengono svolte sempre collettivamente in uno spazio non disinfettato, attraversato in un solo giorno da tutti i detenuti di un’unica struttura. Le celle sono sempre sovraffollate e le incarcerazioni proseguono, rinchiudendo ogni giorno nuove persone che provengono dall’esterno. Molti detenuti spiegano che è il divario tra le restrizioni e le misure reali che motiva le rivolte.
La gestione sanitaria è considerata catastrofica. Ogni giorno, nuovi membri del personale o dei detenuti sono contagiati o sospettati di esserlo. I detenuti segnalati sono posti in quarantena, nel settore dei condannati, o in isolamento, con altri detenuti contagiati o sospettati d’esserlo. Ciò genera conseguenze particolarmente pericolose: i detenuti sospetti di contagio ma non contagiati sono infine contagiati dal virus, perché costretti alla promiscuità con i malati. Al contrario, detenuti malati, ma non sicuri di aver contratto il virus, si rifiutano di segnalare il loro stato all’amministrazione per paura di essere messi in quarantena e, quindi, di essere contagiati. Nel carcere de la Santé, un’intervista rivela che un’ondata di contagi si è propagata in questo modo. Un detenuto che pensava di aver un’influenza si è rifiutato di segnalarlo per paura di essere contagiato in isolamento e alla fine ha contagiato diversi suoi compagni di detenzione.
Distruggere la solidarietà
La soppressione dei colloqui ha ugualmente comportato l’impossibilità di un ricambio della biancheria, che ha implicato un problema d’igiene considerevole per le prigioni che non dispongono di servizi di lavanderia. La soppressione dei colloqui comporta anche l’arresto delle entrate di prodotti, di derrate e di diversi oggetti che circolano e strutturano abitualmente la vita in detenzione. Allo stesso modo i telefoni, le SIM card e altri oggetti di comunicazione non entrano più così facilmente come prima nei muri, aggravando la mancanza di comunicazione tra l’interno e l’esterno. Anche l’hashish diventa ugualmente sempre più raro, comportando una situazione di mancato accesso a questa sostanza per molti detenuti.
La soppressione di queste “entrate” destruttura l’insieme della vita sotterranea della detenzione, dei rapporti “commerciali” ma anche dei legami di solidarietà che sono tessuti attorno ad essa. Molti riferiscono disparità ancora più grandi all’interno della stessa popolazione detenuta: i telefoni si vendono più cari, l’hashish è a volte spesso introvabile, e la solidarietà, i regali e gli scambi si riducono a poco a poco al profitto di rapporti essenzialmente economici.
Allo stesso tempo, un numero sempre più considerevole di sorveglianti e di agenti dell’AP sembra proporre i suoi servizi (con tariffe) per assicurare le “entrate” in detenzione. Questa situazione comporta di fatto uno sconvolgimento dei rapporti di potere e di contro-potere e dell’auto-regolamentazione dei detenuti riguardo questo “mercato”. Così l’AP occupa una posizione ancora più importante, grazie alla possibilità di regolare, tariffare e imporre le regole del mercato interno in detenzione. Questo si aggiunge al suo intervento nella gestione dei flussi in periodo regolare (chiudendo gli occhi sulle perquisizioni nei colloqui, o direttamente con l’intermediario del suo personale) per assicurare una forma di pace sociale.
Promesse di libertà
Nella continuità, le interviste rivelano diverse strategie dell’AP associate alla gestione delle rivolte. Una delle più ricorrenti si articola attorno alle promesse di liberazione. Un certo numero di detenuti testimonia la centralità di questo elemento nel discorso, nelle conversazioni e nelle circolari del personale rivolte ai detenuti. Sorveglianti, ufficiali e direttori passano così le loro giornate ad assicurare ai detenuti che delle liberazioni di massa sono in corso e andranno ad accelerarsi nelle settimane a venire. Si tratta per loro di presentare il virus come un “vantaggio” per essere liberati, accentuando allo stesso tempo il fatto che ogni detenuto che parteciperà ai blocchi o alle sommosse vedrà la sua liberazione compromessa. Le 5000 liberazioni ufficiali coinvolgono solamente le persone a fine pena (con un residuo di pena inferiore a 6 mesi).
Dividere con l’ineguaglianza
Un’altra strategia che ritorna nell’insieme degli istituti penitenziari sotto inchiesta riguarda principalmente le pene lunghe e i “grandi profili”. Sono le categorie di detenuti detti “a rischio” (i DPS ovvero i “Detenuti particolarmente segnalati”, gli AS, i detenuti detti “radicalizzati”, i recidivi …), ovvero i detenuti che non sono compresi negli annunci di liberazione: sono loro che sono sospettati o sono considerati i potenziali “leader” dei blocchi e dei movimenti, o almeno di fare da collegamento e da intermediari legittimi presso la popolazione penale. Così le direzioni di ogni istituto penitenziario sembrano aver moltiplicato i colloqui con queste “categorie” di detenuti per mobilitarli per far passare dei messaggi e per assicurare la calma. Così come l’AP ha il potere di scegliere quale detenuto sarà l’intermediario e il beneficiario delle “entrate” effettuate dai sorveglianti, sceglie anche i suoi rappresentanti e intermediari presso i detenuti. Ristruttura così dei rapporti ineguali, per assicurarsi che siano i garanti delle loro modalità di controllo, assicurando un sistema di privilegio ad alcuni: risposte favorevoli a una domanda di lavoro fatta molti mesi prima, cella singola, accordo di principio riguardo un trasferimento in una struttura desiderata… Al contrario, se il detenuto non cede a questo ricatto, viene al più presto preso di mira a causa del movimento collettivo, poco importa il suo ruolo nel medesimo.
Abbiamo anche posto la domanda “Quali pratiche di sostegno vi aspettate di ricevere dall’esterno?”. La domanda è spesso rimasta senza risposta o trattata con molto pessimismo. Ciò si spiega soprattutto per la scarsa considerazione della questione carceraria in seno alle lotte sociali, o per la sua presa in conto sul piano teorico ma non applicazione sul piano pratico. Le interviste condotte e il movimento di rivolta carceraria ci danno un certo numero di elementi di risposta, che aprono delle piste di intervento pratiche. Ne presentiamo alcune qui di seguito:
– Innanzitutto la necessità di un legame tra la rivolta all’interno delle mura e la mobilitazione all’esterno. Quest’ultima è stata resa impossibile dai divieti imposti dalla quarantena ma, se i movimenti continuano, sarà essenziale mobilitarsi fisicamente davanti alle mura perimetrali, affinché le mobilitazioni esterne facciano eco a quelle interne. È uno dei grandi ostacoli rilevato da molti detenuti. Queste non devono essere solamente diffuse da media che ne sviino il contenuto a partire dalla versione poliziesca e penitenziaria dei fatti.
– Ciò implica di fatto la necessità di una comunicazione possibile tra l’interno e l’esterno. Alcuni collettivi di militanti come l’Envolée lavorano quotidianamente per mantenere siffatti legami, ma esso resta ancora troppo marginale. Tuttavia, questo movimento di rivolta ha rivelato la capacità dei prigionieri di diverse prigioni di comunicare, di organizzarsi e di coordinare i differenti movimenti di lotta con l’intermediario di social network, di applicazioni o dei contatti all’esterno. Nelle lotte in sostegno ai detenuti in CRA, la comunicazione tra l’interno e l’esterno, facilitata dalle cabine, dai telefoni cellulari (senza fotocamera) autorizzati e dai colloqui aperti, permette di poter pensare e realizzare mobilitazioni dall’interno all’esterno in maniera coordinata. È a partire dalla sfida posta dalla comunicazione e dalla sua accessibilità, attraverso soprattutto l’ingresso di telefoni e di altri mezzi di comunicazione, che si uscirebbe dalle logiche diseguali di compra-vendita, che sarà possibile pensare delle lotte coordinate.
– Un’altra sfida riguarda la difesa degli accusati, spesso assicurata da un/a avvocato/a d’ufficio, che svolge la sua funzione utilizzando dossier recuperati la mattina stessa. Sarebbe necessario, così come avviene nel quadro della repressione dei movimenti sociali, strutturare delle squadre di avvocati specializzati in questioni di questo tipo per prendere in carico questi dossier, e allo stesso tempo portare avanti campagne di solidarietà dall’esterno, per non lasciare i detenuti soli a subire la vendetta dell’AP.
– All’esterno è praticamente chiaro per tutti che la fine della quarantena non comporterà la fine della pandemia. Fin dal suo inizio, quasi nessun materiale sanitario è stato messo a disposizione della popolazione di detenuti. C’è da temere che il divario si prolunghi nel tempo, con l’obbligo di portare la mascherina all’esterno e nessuna misura sanitaria all’interno. Molte piccole azioni sono state condotte, in diversi luoghi, per far arrivare mascherine, guanti o gel disinfettante all’interno. Generalizzare queste azioni nel mese che verrà sarà importante, che ciò avvenga attraverso pacchi gettati oltre le mura perimetrali o attraverso distribuzioni fatte alle famiglie prima dei colloqui che riprenderanno presto.
– La ripresa dei colloqui deve ugualmente coinvolgere la messa in pratica di legami con le famiglie e i prossimi dei detenuti. Organizzare l’autodifesa sanitaria con i congiunti è il modo migliore di ottenere un contatto diretto con l’interno, e allo stesso tempo di mobilitarsi a partire dalle necessità delle famiglie, loro stesse colpite dal carcere e dalla pandemia.
– Un altro punto ricorrente nelle risposte dei detenuti riguarda le liberazioni, i rilasci. In effetti, molti detenuti hanno tentato di approfittare del dispositivo di rilasci annunciato e hanno dovuto confrontarsi con il problema dei domiciliari. È un problema ricorrente nelle modifiche di pena per i detenuti, che devono trovare necessariamente una promessa di assunzione (senza poter mandare candidature dalla prigione), differenze garanzie di rappresentazione e un indirizzo fisso che deve spesso essere situato all’esterno della regione dove i fatti di cui sono stati accusati si sono svolti (come spesso avviene, svoltisi nella regione dove risiedono abitualmente). Dopo l’annuncio dei rilasci legati alla crisi, molte persone che avrebbero potuto candidarsi per una modifica della pena si trovano nell’impossibilità di presentare il dossier a causa della difficoltà di trovare alloggio. Che ciò avvenga nel quadro di questa crisi o in maniera generale, una richiesta importante dall’interno consiste nel trovare un modo per aprire spazi che possano accogliere coloro che escono di prigione così come imprese, associazioni o aziende che possano fornire possibilità di impiego.
Si tratta evidentemente di una lista che non è esaustiva, prodotta a partire dalle interviste realizzate e che ha come scopo di stimolare discussioni preesistenti e le prospettive anti-detentive, riguardo a ciò che la crisi sanitaria ci insegna riguardo le carceri francesi e, più ampiamente, del mondo. Molte organizzazioni, associazioni e anche sindacati penitenziari chiedono una riforma generale dell’istituzione del carcere. Bisogna temere che questa crisi sia recuperata dai “legittimisti” e dai riformisti, i cosiddetti umanisti e realisti, e che essa partecipi a una siffatta critica dell’istituzione del carcere, che ha sempre avuto il solo obiettivo di non farlo scomparire, attraverso nuove modifiche o la proposta di dispositivi alternativi. La nostra capacità di fare di questa crisi una svolta abolizionista e anti-carcerale si iscrive in sfide più larghe che hanno fatto nascere la crisi del COVID-19. Solo la lotta ce lo dirà.
Stato d’emergenza sanitaria e trasformazioni giuridiche: il decreto del 25 marzo 2020 e la modifica della detenzione provvisoria
Secondo il regime di detenzione e le categorie di condanna, esistono diversi tipi di strutture penitenziarie, in particolare classificate in due categorie: gli stabilimenti per la pena (istituti penitenziari) e le case circondariali. Queste ultime ricevono le persone in detenzione provvisoria (cioè, in attesa di giudizio o per i quali la condanna non è definitiva), così come le persone condannate a pene che non superano i due anni.
“Secondo le cifre del ministero della giustizia, al primo gennaio 2019, 70059 persone erano detenute per 60151 posti disponibili. La densità della popolazione totale dei detenuti era dunque del 116,5% (di cui il 140% in casa circondariale e in “quartier maison d’arrêt”, e il 90% in centri di detenzione). La percentuale arrivava al 115,4% il primo gennaio 2018, al 116,6% il primo gennaio 2017, 113,9 il primo gennaio 2016 e 114,6 il primo gennaio 2015.”
Inoltre, “il sovraffollamento nelle carceri riguarda soprattutto le case circondariali. La densità in casa circondariale era del 136,5% nel 2018 e di 138,5% nel 2017. Secondo il rapporto 2018 della Commissione di inchiesta sulla detenzione provvisoria, il numero di persone poste in detenzione provvisoria è fortemente aumentato dopo il 2010. A titolo illustrativo, questa crescita è stata del 9% tra gennaio 2016 e gennaio 2018. Il primo aprile 2018, quasi il 30% delle persone detenute in Francia era in detenzione provvisoria”.
La Francia si vanta di avere un sistema penale basato sulla presunzione di innocenza. Ma quest’ultima è stata sempre applicato solo a una élite bianca, borghese e soddisfatta della giustizia (per sua essenza punitiva) poiché essa non ha dovuto in generale subirla. Per gli altri, la detenzione è qualcosa di palpabile, la prigione non è una finzione lontana ma una realtà continua nella via degli/delle oppressi/e. La presunzione di colpevolezza disciplina la loro “giustiziabilità”; quest’ultima, comandata da politiche penali repressive, trasforma legalmente le case circondariali in epiloghi di condanna. La detenzione provvisoria diventa, nei fatti, la premessa per una detenzione continua.
Se si segue la logica del governo e della sua portavoce in materia, le persone detenute in casa circondariale dovrebbero essere le prime coinvolte nelle misure di liberazione eccezionale rivendicate. Meglio ancora, queste case circondariali, legalmente definite come prigioni per pene corte, non dovrebbero più accogliere nessuno ma chiudere. In effetti, sono i fine-pena e le pene corte che possono, secondo le affermazioni di Nicole Belloubet, pretendere la loro liberazione anticipata nel quadro dello stato di emergenza sanitaria. L’autorità statale sfida ogni logica. Se ne esiste una, gli appartiene e risponde fondamentalmente al suo imperativo di sopravvivenza: reprimere per esistere.
Così, il decreto del 25 marzo 2020 “relativo al prolungamento dei termini scaduti durante il periodo di emergenza sanitaria e all’adattamento delle procedure durante questo stesso periodo” consacra un intro capitolo alle “disposizioni applicabili in caso di detenzione provvisoria”. Un cambio drastico, intervenuto in pieno stato d’emergenza sanitaria, mentre le condizioni terribili di detenzione sono chiamate a perpetuarsi e a entrare nel diritto comune. L’articolo 15 afferma: “i prolungamenti di detenzione provvisoria che derivano da queste disposizioni continuano ad applicarsi dopo la data di cessazione dello stato di emergenza sanitaria dichiarato”. L’articolo 16 precisa: “in materia correzionale, i termini massimi di detenzione provvisoria o di assegnazione a residenza sotto sorveglianza elettronica (…) sono prolungati di pieno diritto di due mesi quando la pena sostenuta è inferiore o uguale a cinque anni, e tre mesi negli altri casi.” – sei mesi in materia criminale e per le udienze davanti alla corte d’appello in materia correzionale. In questo stesso articolo, “i prolungamenti (…) sono applicabili ai minori di età di più di 16 anni, in materia penale, o se sostengono una pena di almeno sette anni di detenzione”, ciò significa che la detenzione provvisoria può così aspettare che i minori divengano maggiorenni e che siano così giudicati e condannati come tali.
Insomma, il decreto del 25 marzo 2020 sancisce il prolungamento di diritto della detenzione provvisoria e la rende, di fatto, sistematica. Il 3 aprile, il Consiglio di Stato, interpellato dal ricorso di un insieme di sindacati e associazioni, ha confermato l’applicabilità di tali disposizioni: il prolungamento automatico, senza discussione o intervento del giudice giudiziario, della detenzione provvisoria. In pieno stato d’emergenza sanitaria, mentre i/le detenuti/e e i loro prossimi insorgono contro il trattamento disumano ricevuto e mentre, tre mesi fa, la Corte Europea dei Diritti Umani condannava la Francia per le sue condizioni di detenzione, lo stato rinforza la sua politica penale repressiva, ordina diverse tempistiche legali e si dota di una nuova arma giuridica per assicurare la sua violenza e per governare gli/le oppressi/e. La detenzione provvisoria non è “provvisoria”, ma un’introduzione di fatto all’incarcerazione di diritto. Una detenzione continua.
Il decreto del 25 marzo 2020 è l’ennesimo colpo di forza. La logica repressiva della giustizia francese è una realtà che bisogna urgentemente mettere in luce nella riflessione sulle proprie armi. Il sovraffollamento nelle carceri è un fatto, molte volte denunciato, che regola la vita delle prigioni francesi ed è parte integrante del suo avanzamento. Pensare ad esso come ad un’anomalia del sistema penale francese, significa ignorare il suo valore organizzativo. Lo stato d’emergenza sanitaria non trasforma in nulla tale realtà – la rinforza e la esaspera. Le sole risposte portate dalle politiche repressive sono il silenzio o la costruzione di nuove strutture. Costruire delle prigioni non arginerà per niente il sovraffollamento. La soluzione al sovraffollamento delle carceri è lo spopolamento totale di tutte le case circondariali, di tutti gli stabilimenti penitenziari, e la liberazione incondizionata di tutte e tutti i/le prigionieri/e. Il solo modo di svuotare le prigioni, è farle sparire, poiché una prigione con un solo detenuto è già una prigione piena.
CONCLUSIONI
La guerra, armatura del capitalismo, permette allo Stato di trasformare le sue crisi in una macchina super produttiva. Il 16 marzo, nel suo discorso, Emmanuel Macron ripete non meno di sei volte la frase: “Siamo in guerra”. Lontano dall’essere banale, quest’ultima mette in evidenza la prospettiva politica e il tono dato allo stato d’emergenza sanitaria. Così, oltre al rinforzo e all’aumento delle prerogative del ministero della difesa, questo stato di guerra, come ogni stato di guerra deciso dallo stato e legalmente imposto, offre la possibilità per evoluzioni tecnologiche ed economiche certe. Tali evoluzioni sono appoggiate e ratificare dal diritto che, facendole entrare nella legalità, le rende perenni. Come sempre, la struttura giuridica dello stato – l’arma invisibile della sua repressione – evolve in colpo di stato. Il diritto giunge contemporaneamente a ratificare la legalità dello stato di guerra e l’accelerazione del suo corollario poliziesco, e lo stato di guerra contribuisce all’accelerazione della trasformazione del diritto.
Così queste trasformazioni giuridiche sono numerose dopo l’inizio dello stato d’emergenza sanitaria. Cominciano da una legge che dà pieni poteri al potere esecutivo, e si collega alla creazione di una nuova gerarchia sociale: l’invenzione di un documento che attesta la legalità dei comportamenti o delle situazioni. Si impone una distinzione sociale tra coloro che hanno questo documento e coloro che non lo hanno: quelli legittimi e quelli che non lo sono. Ci sembra nondimeno che l’invenzione dell’autocertificazione, così come quella del passaporto, del visto o del permesso di soggiorno, corrisponda piuttosto all’invenzione dell’assenza dell’autocertificazione, cioè alla creazione di una situazione di violenza legittimata. I militanti sans-papiers portano nel loro stesso nome questa assenza creata con lo scopo di disporre della loro forza-lavoro, facendo allo stesso tempo pesare su di essi la possibilità continua della detenzione e della deportazione. L’ingiunzione poliziesca: “Favorisca i documenti!”, che le leggi razziste Pasqua-Debré degli anni 1990 hanno consacrato, non dicono che: “Dammi una ragione per punirti!”. Succede lo stesso con l’autocertificazione e abbiamo visto in effetti coloro i quali costituivano gli obiettivi privilegiati dei controlli polizieschi e dunque della loro violenza repressiva.
Inoltre, la peculiarità dell’autocertificazione consiste nello stabilire scenari per i quali uscire dal domicilio è considerato legittimo. Tali scenari usano le parole (legali) sulle norme sociali e razziali e permettono di punire qualsiasi scarto comportamentale. In altri termini, ogni pratica non immaginata o specificatamente esclusa da questi scenari (in particolare le pratiche di solidarietà famigliare o comunitaria) è resa illegale e diventa quindi l’occasione di una violenza punitiva.
Tali evoluzioni giuridiche sono ugualmente – e soprattutto – palpabili da una parte nell’evoluzione delle prerogative della polizia, e dall’altra nel loro allargamento a d’altri corpi diversi da quello della polizia. Così, per esempio, con un decreto del 3 aprile, il prefetto di Seine-et-Marne “coinvolge i cacciatori guardia-caccia per aiutare le forze dell’ordine nel controllo del rispetto delle regole di confinamento”. Il 7 aprile, il ministro dell’educazione emette un decreto relativo “all’autorizzazione di detenzione e porto d’armi per gli agenti delle squadre mobili di sicurezza del ministero dell’educazione nazionale e della gioventù nel dipartimento di Mayotte”. Viene scritto in particolare: “Il ministero dell’educazione nazionale e della gioventù può acquisire e detenere dei manganelli “telescopici” […]”. Il 2 maggio, il ministro degli interni annuncia che a partire dall’11 maggio i poteri di verbalizzare saranno estesi agli agenti dei trasporti pubblici. Le milizie securitarie, sempre più armate, giungono così a completare lo sforzo di differenti fazioni di polizia dello Stato, a immagine degli insediamenti coloniali dove coloni e polizia coloniale lavorano abitualmente insieme.
Le inchieste portate avanti in questo secondo periodo dello stato di emergenza sanitaria mostrano una volta ancora queste continuità ed evoluzioni del sistema di violenze dello Stato concentrate intorno all’idea colonialista.
Nelle colonie d’oltremare, lo stato di emergenza sanitaria continua ad approfondire il connubio di rapporti di sfruttamento feroci, di condizioni di vita miserabili e d’ineguaglianze razziste nell’accesso ai diritti e in particolare alle cure. Il tutto è inquadrato in una gestione militare e poliziesca che procede al confine della militarizzazione. E, come avvenuto nel primo periodo di emergenza, negli interstizi elargiti dalla spinta del sistema imperialista al limite della sua potenza, della sua egemonia e delle sue contraddizioni, le classi oppresse oppongono resistenza all’ordine coloniale tentando di riappropriarsi del territorio e della salute, cioè della loro storia e dei loro corpi.
Nei quartieri popolari, osserviamo una continuità delle forme di dominazione poliziesca legate alla riproduzione dell’apartheid sociale, ma anche evoluzioni come l’estensione della coercizione ai corpi delle femmine non bianche. La continuità coloniale del regime di segregazione socio-razziale traspare attraverso diverse risonanze con il massacro poliziesco di settembre-ottobre 1961, che ciò avvenga nella geografia delle violenze dello Stato o nella lingua e nelle pratiche delle sue milizie. Nelle prigioni, la sommossa internazionale dei detenuti ha subito una repressione militarizzata. Oltre all’impiego di unità speciali (ERIS, ELAC) e di forze di polizia e di gendarmeria esterne alle prigioni per domare i detenuti ribellatisi, l’amministrazione ha proceduto a spostarli in isolamento mentre la giustizia ha emesso condanne e prolungamenti della pena, riservando i rilasci ai detenuti non coinvolti nelle resistenze. In seguito l’amministrazione penitenziaria ha diviso i detenuti in funziona alla loro pena. Le forze coinvolte nell’organizzazione delle rivolte sono state divise ma la resistenza si è trasformata e si ridisegna attraverso forme alternative di mobilitazione collettiva e azioni individuali.
Nei CRA l’economia politica della detenzione non è stata quasi mai interrotta. Queste prigioni per proletari illegali hanno continuato a imprigionare lungo tutto il periodo dello stato di emergenza sanitaria. Le violenze fisiche, sociali e simboliche abituali vi si moltiplicano soprattutto, ancora una volta, verso le donne. Anche in questi luoghi, hanno preso vita rivolte che sono state poi represse ferocemente durante il primo periodo, e si mantengono e si diffondono ormai diverse pratiche di resistenza collettiva sotto forma di blocchi, di scioperi della fame e di incendi. Le carceri, compresi i CRA, funzionano secondo una meccanica di messa in pericolo di morte, che naviga tra il lasciar morire e il far morire, per i/le detenuti/e e i/le trattenuti/e, perché l’istituzione carceraria non si sospende nemmeno nel cuore dello “stato d’eccezione”. E bisognerà ricordarlo a tutti i riformisti del carcere. Alla prossima “crisi”, fosse pure “nucleare”, le carceri e i campi continueranno a funzionare e, sicuramente come durante il COVID-19, continueranno a imprigionare, a schiacciare, a uccidere.
Numerosi dispositivi securitari hanno continuato a essere sperimentati durante questo secondo periodo dello stato d’emergenza sanitaria. Alcuni sono stati messi in pratica, altri solamente presi in considerazione. Tra gli effetti degli annunci e la misura dell’opinione pubblica, diversi dispositivi sono messi in pratica a diversi gradi: il backtracking (tracciamento numerico) dei telefoni, soprattutto attraverso l’applicazione “Stop COVID”, ma anche utilizzando i dati forniti dai fornitori o, a lungo termine, la geo-localizzazione dei contagiati e il loro controllo attraverso il braccialetto elettronico. Parimenti, l’infrastruttura che permette la delazione remunerata dei medici è ormai in atto. Ci sembra che la tecno-struttura testi a volte prima di tutto l’“accettabilità” del dispositivo-merce. Alcune di queste sperimentazioni avevano sicuramente avuto luogo prima dello stato d’emergenza, come suggerisce l’impiego d’ “IMSI catchers” per prelevare i dati dei telefoni e schedare i militanti contro il nucleare a Bure.
Lo stato d’emergenza sanitaria resta l’occasione per avanzare nella sperimentazione e nella normalizzazione di tecnologie di potere dello Stato e dell’industria securitaria. L’utilizzo di droni e di elicotteri è stato ugualmente intensificato. A Cannes, le videocamere di sorveglianza dispiegate nei mercati all’aperto sono dotate di tecnologie che permetto di individuare se gli/le abitanti portano o meno la mascherina di protezione sul loro viso. Gli autobus delle città dovrebbero ugualmente essere forniti di questi dispositivi.
La sorveglianza dei social network ha soprattutto permesso di reprimere le rivolte nelle carceri ma anche quelle dei quartieri popolari di fine aprile, rivolte che erano connesse fra loro, anche grazie a degli usi partigiani di questi mezzi di comunicazione. Come ricordato nel primo report, bisogna che insistiamo sul fatto che la messa in opera reale di queste tecnologie non tocca mai “la popolazione” in generale e nello stesso modo. Gli usi concreti delle tecnologie di potere sono livellati e gerarchizzati, soprattutto secondo la classe, la “razza” e il genere dei corpi interessati, per assicurare il mantenimento dei rapporti di dominio e di sfruttamento.
Gli obiettivi raggiunti dai differenti gruppi di inchiesta sembrano convergere attorno alla necessità di continuare a sostenere forme di autodifesa, a rinforzare i ponti tra i settori in lotta ma anche ad associare queste potenzialità a delle capacità di confronto suscettibili ad opporsi alle violenze dello Stato durante l’ingresso nel periodo di fine quarantena (N.d.T la nostra Fase 2) e la messa in pratica della società del (post) quarantena. Si tratta di organizzare la solidarietà materiale e concreta presso i/le detenuti/e e i loro cari, di presenza e con azione regolare presso i luoghi di detenzione (carceri, CRA) per costruire e rafforzare i legami. Rafforzare i mezzi di comunicazione tra l’interno e l’esterno e i gruppi per diffondere la parola dei detenuti (giornali, radio, …). Costituire delle squadre di avvocati e delle campagne di sostegno contro le ondate di repressione in corso e quelle che arriveranno, cioè organizzare anche dei fondi di sostegno. Si tratta anche di costruire l’auto-difesa sanitaria nella lunga durata, rafforzando le esperienze di salute comunitaria e creandone di nuove.
Il gruppo di studio sugli aspetti giuridici propone di concepire un’economia politica della “detenzione provvisoria” che continua a inscrivere la meccanica di produzione di un “sovraffollamento carcerario” nelle logiche del capitalismo securitario. Allo stesso modo, si tratterebbe di riconoscere lo stato d’emergenza sanitaria come un processo di accelerazione, di intensificazione e di esasperazione dei rapporti di dominazione e di sfruttamento sistemici. Abbiamo visto la molteplicità delle forme prese dalle resistenze popolari all’interno di queste “contraddizioni rinforzate”. Ci sono in queste pratiche di mutuo aiuto e di auto-difesa basi concrete e materiali per auto-organizzare le condizioni di vita quotidiana delle classi sfruttate e oppresse, ma anche per permettere loro di condurre loro stesse lotte di sopravvivenza verso processi di liberazione reali, in poche parole per farla finita con la polizia, il carcere, i confini.