Il decimo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: redazione@globalproject.info).
Mi chiamo Alessandra, ho 29 anni e la pandemia mi ha messa a dura a prova.
Per diversi motivi che hanno definito la mia biografia, al centro delle mie relazioni negli ultimi anni c’è stata la ferma volontà di prendermi cura dei miei affetti. In particolare questa consapevolezza è iniziata quando ho perso mio padre, non avevo ancora 19 anni e sono cresciuta portandomi dentro il senso di colpa per tutti i momenti che avevo perso per stare con lui. Sono figlia di genitori divorziati, cresciuta tra una casa e l’altra, con tanto amore, ma sentendomi sempre come se mi stessi perdendo qualcosa. Quando sono andata in terapia per affrontare la perdita di mio padre, mi sono fatta una promessa: niente e nessuno mi avrebbe più distolto dalla possibilità di offrire amore incondizionato alle persone a me care e il tempo da condividere con loro sarebbe stato sempre una mia priorità. Questa promessa, a cui ho cercato di tenere sempre fede, barcamenandomi tra lavori precari, studio universitario e militanza, a modo mio, credo di averla mantenuta. Lo scorso anno ho rifiutato un lavoro, solo per stare con la mia famiglia, perché in quel momento avevano bisogno di me. Era la mia occasione per mettere fine a quel vuoto creato dai sensi di colpa, era il momento di stare con loro e dire “no” all’ennesimo lavoro sottopagato. L’ho fatto.
Ho cambiato città, sono tornata da mia madre e ci sono stata, per lei e per mia nonna, per mio fratello, è stato un anno strano e faticoso, ma mi ha resa una persona migliore. A settembre sono tornata a Pisa, non stavo bene, combattevo ogni giorno con l’ansia di dover finire gli studi, ho traslocato per l’ennesima volta, ho ricominciato a pensare a tutte le spese, al dover raggiungere gli obiettivi prefissati. Sono tornati gli attacchi di panico, l’ansia sociale, è tornata la depressione e con lei la voglia di lasciarsi andare sul divano e sentirsi un completo fallimento. Poi, piano piano, è scattato qualcosa e per questo non smetterò mai di ringraziare i miei compagni e le mie compagne, chi ha suonato al citofono di casa mia anche se non volevo rispondere, chi mi ha dato una casa nuova in cui vivere, chi ha insistito nonostante i miei no, chi mi è stato accanto nei miei lunghi silenzi.
Sono ripartita, ho trovato nuove energie e risorse per andare avanti, stavo un po’ meglio ma è arrivata la pandemia. Non ho mai avuto paura del covid in sé e per sé, quello che mi spaventava era che avrei affrontato di nuovo dei mesi, non sapevo bene quanti, in casa da sola, nello stesso setting in cui di solito vivevo la depressione: letto e divano.
Sono tornati i fantasmi, non riuscivo a dormire, non riuscivo a pensare. In tanti e tante, sapendo i miei pregressi, mi hanno cercata ossessivamente per sapere se stavo bene e io non potevo fare altro che sentirmi in colpa, perché ad ogni notifica un senso di fastidio mi assaliva.
Intorno a me il mondo crollava ma tutti ripetevano “andrà tutto bene”, altri dicevano “mio nonno ha fatto la guerra, a noi chiedono solo di stare sul divano” e io non potevo fare a meno di sentirmi una merda per la mia incapacità di reagire a tutto questo, non avevo intenzione di cucinare il pane o la pizza, o cantare sul balcone, volevo solo fare il bozzolo nella copertina e drogarmi di Netflix per spegnere il cervello.
Come sempre la militanza mi ha salvato la vita, dopo la prima settimana sono arrivate le convocazioni di assemblee, si è iniziato a parlare di “beccarsi su zoom” e mi sono buttata.
Ho trovato il modo per riprendere a fare i miei sportelli sulla casa, in versione online, mi sono sentita utile, sapevo che quello che stavo facendo era giusto, ma a fine giornata mi sentivo sempre sopraffatta e impotente. Nel giro di qualche giorno il mio profilo facebook è esploso, sono arrivate richieste di amicizia da ogni parte d’Italia, richieste di aiuto di ogni tipo. Ogni mattina aprivo il computer e decine di notifiche affollavano i miei social e la mia casella mail. Ho trovato messaggi di ogni tipo, alcuni dai toni arroganti e avvelenati, altri semplicemente disperati. Ogni mattina bevevo il caffè contemplando lo schermo, facevo un respiro e cominciavo a rispondere e organizzavo gli appuntamenti. Aprivo la webcam e trovavo persone di tutti i tipi: chi con i lividi sul volto, chi con la disperazione nella voce, chi si vergognava per non riuscire più a pagare le spese correnti, chi in cassa integrazione ma obbligato ad andare a lavoro, chi mi ha mostrato la muffa sui muri o dei bambini e un frigo vuoto.
Lì ho realizzato che quanto stavo leggendo in quei giorni sullo stare sulla stessa barca era una grandissima cazzata, l’ennesima, propinata per nascondere le profonde disuguaglianze sociali, già presenti, ma che la pandemia stava mostrando in tutta la loro violenza.
In quelle consulenze ho riscoperto il potere della gentilezza, dell’empatia e dell’accoglienza, ho imparato ancora di più ad ascoltare, prima di proporre soluzioni. Ho capito che, il più delle volte, la richiesta che veniva dall’altra parte era solo quella di sentirsi compresi, di poter smettere di vergognarsi, di non sentirsi soli e sole, di avere la conferma che in tanti e tante se la stavano passando così. Per fortuna da tutti e tutte è partita la solidarietà, le raccolte alimentari, i contributi: l’aiuto dalle persone per le persone.
“Todos por todos, nada para nosotros”, dicono gli zapatisti e così è stato.
Ma in tutto questo io dov’ero? A fine giornata mi sentivo sempre sfinita, sopraffatta e impotente, mi sentivo svuotata, mi prendo cura di tutti e tutte ma chi si prende cura di me?
Attenzione, non sono mai stata sola, ho una comunità di affetti incredibile, sorelle e fratelli, compagni e compagne, ma il momento era troppo delicato, e io troppo orgogliosa, per chiedere a loro di farlo. Dopo tante altalene emotive l’ho fatto io, per me stessa, perché me lo merito. Mi merito lo yoga la mattina, il tempo da dedicare al cibo buono e sano, quelle letture lasciate sempre da parte, il telefono spento quando sono sfinita. Sono “tornata” nel mondo di fuori, non ho mai accettato di rinunciare alle mie passeggiate mattutine con il mio cane dando legittimità alla psicosi collettiva. Camminavo per strada e mi sembravano tutti impazziti, tutti terrorizzati, tutti incattiviti, così ho cominciato a svegliarmi alle 6.00 per uscire e non vedere nessuno. All’improvviso ho notato il cielo limpido e l’aria pulita, era scomparso il rumore del traffico e i fiorellini avevano iniziato a crescere nel mio giardino spoglio a causa dello smog.
“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”.
Una frase tanto banale, quanto potente. È così, è vero, e un po’ alla Grace e Frankie ho maturato il mio personale “vaffanculo”. Vaffanculo a un mondo in cui si deve vivere tutto di corsa, in cui ogni giorno ci viene rubato tempo e futuro, ‘fanculo alla società delle perfomance, al bisogno di essere bella come dicono loro, di avere il corpo che dicono loro, di avere i gusti sessuali che dicono loro, di comprare da mangiare dove dicono loro, di laurearmi quando dicono loro, di vivere ogni giorno come se stessi affogando perché lo dicono loro.
Vaffanculo a tutte le volte cui mi è mancato il respiro, a quelle in cui ho sentito la bocca asciutta senza saliva, a quelle in cui sono stata inghiottita dalle mura intorno a me, ‘fanculo a tutto. Quanti vaffanculi liberatori tutti insieme.
Ho pianto molto in questa quarantena, pensando alla fugacità della vita, a quanto sono umana, a quanto sto crescendo velocemente, al fatto che il tempo che ho a disposizione è poco e non voglio più sprecarlo sentendomi sbagliata, neanche un minuto.
Quanti pianti liberatori in questa quarantena.
Quello che è sbagliato in questo mondo non sono io, non siamo noi, sta fuori dalla porta di casa, si chiama capitalismo, è un sistema malato, che distrugge il pianeta, sfrutta le persone e le fa ammalare.
Siamo la generazione degli attacchi di panico, dicono, e a me viene da chiedere: perché?
Ho 29 anni, un curriculum abbastanza dignitoso per la mia età, lavoro da quando ho 15 anni, praticamente metà della mia vita, ho fatto decine di colloqui e decine di lavori di merda.
Oggi ho 29 anni e nonostante tutti i sacrifici che ho fatto non ho in mano niente: pochissimi risparmi, nessuna certezza, navigo a vista e vedo a fatica come sarà il mio futuro, ma non quello lontano, quello dei prossimi mesi. Sono incazzata, non c’è niente da fare, e questa rabbia, insieme ai miei “vaffanculo”, alla mia depressione, ho deciso di prenderla, di impacchettarla e di rispedirla al mittente, ho deciso che da qui in avanti non è più un mio problema. Sono incazzata e vorrei fare tutto ciò che è necessario perché questo diventi un reale problema per chi è il responsabile del mondo che abbiamo in mano oggi. Qualche anno fa mi sono tatuata vicino al cuore “pazienza e rancore”, qualche tempo dopo un fiore, l’alstroemeria che rappresenta la “devozione”, promesse fatte a me stessa e mai mantenute.
Oggi è il giorno in cui mi preoccupo di queste promesse, è il giorno in cui voglio prendere questo gomitolo di emozioni, metterlo insieme e farne un orizzonte di lotta.
Ci hanno consegnato un mondo che fa schifo, così come non ho niente, non ho niente da perdere e mi sento in dovere di mettere in gioco tutto. Non so come andrà, ma so che mi sento bene con me stessa dopo tanto tempo. Non so se riusciremo a strappare qualche vittoria, ma so che cammineremo a testa alta. Non so se saremo capaci di portarla fino in fondo, ma so che, come cantava Primo Brown, “butto semi al vento, magari fiorisce il cielo”.