Muore la libertà con i nostri clic. Intervista a Michel Onfray

DI ROBERTO SAVIANO

repubblica.it

Nel suo nuovo saggio il filosofo francese descrive le sette fasi che trasformano uno Stato in dittatura e i pericoli del Grande Fratello. “Mai come oggi c’è stata una così forte servitù volontaria”

Michel Onfray è un filosofo che leggo esattamente come ascolto Thelonious Monk, Chilly Gonzales o Martha Argerich, quando mi sento in mare aperto, senza direzione loro mi danno orizzonte. Onfray è un filosofo libertario, è un misuratore della tossicità del potere; un metodo anarchico governa il suo ragionare. Esce in Italia il suo Teoria della dittatura, un testo che si adopera nella complessa descrizione di come accade che i governi si tramutino in tirannie e di come anche le democrazie si sclerotizzino in dinamiche autoritarie. Onfray individua sette fasi principali che trasformano uno Stato in dittatura: distruggere la libertà, impoverire la lingua, abolire la verità, sopprimere la storia, negare la natura, propagare l’odio, aspirare all’Impero. Il desiderio che hai, quando finisci un suo libro, è di chiamare Onfray per chiarire la costellazione di dubbi che ti ha innescato. Così, questa volta, ho deciso di farlo.

Per distruggere la libertà tu dici, Michel, che bisogna assicurare una sorveglianza continua, distruggere la vita personale, eliminare la solitudine, divertire con le feste comandate, uniformare l’opinione, denunciare i crimini di pensiero. La felicità, la sua ricerca, può essere uno strumento per contrastare l’autoritarismo o, al contrario, il trabocchetto insito nella propaganda autoritaria, ovvero perdi libertà ma in cambio hai più felicità?

“La felicità non può essere l’ultima parola in un mondo in cui c’è chi ritiene che non ci sia nulla di sbagliato nell’ottenere la propria felicità a scapito degli altri. La lotta contro l’autoritarismo è materia per caratteri temprati, che abbiano il senso dell’interesse generale e la capacità di mettere da parte la propria felicità in nome dell’ideale superiore della virtù civica, come fece Catone il Vecchio”.

Onfray scrive che per impoverire la lingua, bisogna: usare un linguaggio a doppia valenza, distruggere parole, piegare la lingua all’oralità, eliminare i classici. Per abolire la verità, bisogna: imporre l’ideologia, strumentalizzare la stampa, diffondere notizie false, ricreare la realtà.

Tutte le dittature – chiedo – hanno la loro neolingua che riduce ogni concetto a slogan: è quello che sta accadendo con il web. Esiste una soluzione? 

“La scuola repubblicana che insegnava a ragazzi e ragazze a leggere, scrivere, far di conto e pensare senza guardare alle loro origini sociali è morta nel maggio del ’68. È stata sostituita da un dispositivo ludico nel quale l’apprendimento di contenuti è stato abbandonato in favore della sollecitazione di un ipotetico genio infantile. La scuola, che una volta produceva cittadini, adesso produce pecore di Panurgo in catena di montaggio. La moralizzazione della rete, che tra le altre cose implicherebbe di far rispettare le leggi di un paese anche ai social network, è un pio desiderio: in rete, in forma anonima, si può essere negazionisti, revisionisti, antisemiti, misogini, fallocrati e quant’altro. Dobbiamo adattarci alla realtà: tutto questo è segno del decadimento della nostra civiltà e dell’avvento di un altro mondo che avrà più a che vedere con Orwell e Huxley che con Dante e Cartesio”. 

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