I don’t live today: scene dalla guerra di classe in America (e non solo)

di Sandro Moiso

Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for sure
I don’t live today

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.

La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.

La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica. Defund the police è diventato uno slogan politico che potrebbe avere, anche qui da noi, una funzione niente affatto secondaria per rilanciare il dibattito pubblico sul ruolo attivo delle forze dell’ordine nella repressione sociale e nella creazione di autentici casi giudiziari, come ad esempio in Val di Susa nei confronti del movimento NoTav.

La sorpresa con cui è stata accolta la richiesta da diverse amministrazioni locali statunitensi, la confusione in cui sono rimasti intrappolati i vertici militari e politici manifestano non soltanto un vacuo ‘pentimento’ per le violenze subite da secoli dalla comunità afro-americana, ma anche la crisi sociale, politica ed economica in cui si dibatte ormai da tempo la maggior potenza imperialista dell’Occidente. Una crisi di cui abbiamo parlato già più volte su Carmilla, destinata inevitabilmente a sfociare in un nuovo conflitto globale per il contollo dell’economia planetaria oppure in una nuova guerra civile di cui da tempo si parla negli ambienti politici e culturali statunitensi. Guerra civile che già da anni ispira, anche soltanto metaforicamente, molte trame della produzione letteraria, cinematografica e fumettistica statunitense.

Guerra civile a venire (o forse già in atto) che ha prodotto un immaginario che già la “comprende” e che, a sua volta, spinge, nemmeno più troppo inconsciamente, verso una sua concreta deflagrazione.
Guerra civile che, proprio in quanto tale, non può essere animata e agita da due soli attori, come la concezione tradizionale dello scontro di classe vorrebbe. Le guerre civili infatti decidono di come le società e le economie dovranno essere ristrutturate una volta concluse e una volta emerso il vincitore.

Così fu per la guerra civile americana, durante la quale il presidente repubblicano Abramo Lincoln guidò la costruzione di un’America industriale sulle ceneri di un’altra America agricola, schiavista e dipendente dalle esportazioni verso l’impero britannico. In cui la questione della schiavitù e dell’oppressione divenne dirimente soltanto a partire dal 1863, con il proclama con cui il presidente del Nord abolì la stessa nella speranza che la rivolta degli schiavi mettesse in crisi il Sud, fino ad allora vincente nello scontro militare. Vittoria finale del Nord cui la classe operaia dello stesso, anche sotto l’invito dei socialisti ispirati da Karl Marx e Friedrich Engels, aveva dato un significativo contributo in termini di arruolamento e partecipazione, non tanto per la liberazione degli schiavi afro-americani, quanto piuttosto a favore di uno sviluppo industriale nazionale che permettesse e favorisse lo sviluppo della stessa classe e il miglioramento delle sue condizioni di vita e di partecipazione democratica alla vita politica nazionale.

Ecco, proprio quella guerra civile ci permette di cogliere l’essenza di tutte le guerre civili: più attori in lotta sullo stesso campo, divisi oppure uniti da interessi che talvolta coincidono e ancor più spesso divergono.
Capitalisti industriali del Nord, banchieri, grandi proprietari terrieri del Sud, piccoli proprietari terrieri degli Stati confederati, schiavisti, abolizionisti, afro-americani schiavi oppure liberi nelle principali città del Nord, operai industriali, socialisti, repubblicani, democratici (questi ultimi all’epoca rappresentanti della proprietà terriera del Sud) furono infatti gli attori principali di quel dramma.

La vittoria dei primi dell’elenco delineò il destino di grande potenza degli Stati Uniti, gli schieramenti politici successivi, gli allineamenti di classe rispetto agli interessi nazionali, odii e conflitti mai rimarginati ma, soprattutto, non risolse il problema della sottomissione degli afro-americani al potere bianco che, comunque, da quella guerra non fu minimamente scalfito o indebolito, ma piuttosto rafforzato da alleanze (ad esempio quello tra gli interessi economici del gran capitale e quelli dell’aristocrazia operaia del Nord) semplicemente impensabili prima di allora.

No sun comin’ through my windows
Feel like I’m livin’ at the bottom of a grave

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

Anche la Grande Crisi degli anni Trenta non contribuì ad un ravvicinamento tra gli interessi dei lavoratori, dei piccoli contadini bianchi impoveriti e quelli della comunità afro-americana. Troppo vicine risultavano, soprattutto al Sud, le ferite lasciate ancora aperte dalla guerra civile; troppo nazionalista risultava ancora la politica di una sinistra americana che incoraggiava gli operai bianchi a partecipare allo sforzo collettivo in vista dello scontro militare con le potenze del male, rappresentate all’epoca da Germania,Italia e Giappone (anche se ai vertici dell’establishment economico e politico statunitense non poche erano le simpatie per quei regimi politici) mentre lo stalinismo spingeva i ‘neri’ alla creazione di un proprio stato autonomo nel Sud degli Stati Uniti, basato unicamente sul presupposto della maggior presenza di discendenti degli schiavi, in stati come l’Alabama, la Georgia e il Mississippi, rispetto alla popolazione ‘bianca’.

In realtà la crisi della segregazione razziale ebbe inizio soltanto un secolo dopo, negli anni Sessanta del ‘900, a seguito di una crisi di coscienza politica sviluppatasi tra gli anni della Nuova Frontiera di kennedyana memoria e la critica del macello imperialista in Vietnam, che vide comunque protagonisti, oltre agli afro-americani, gli studenti, gli intellettuali e una parte dei reduci di quella guerra più che i lavoratori della classe operaia o della classe media bianca. Ancor aggrappati, questi ultimi, ad un sogno americano che per gli altri andava rapidamente disfacendosi nella repressione poliziesca dei movimenti giovanili, nei ghetti delle metropoli e nelle paludi del Sud-est asiatico. Soltanto là dove la componente afro-americana era predominante, come nel caso di Detroit, la classe operaia bianca si unì ai neri nella lotta, che ebbe comunque sempre al suo centro rivendicazioni inerenti l’autonomia di classe, il lavoro e le sue condizioni salariali ancor più che i diritti civili1.

La vera novità di queste ultime settimane, invece, è data dal fatto che le proteste hanno coinvolto soggetti diversi, sia dal punto di vista etnico-culturale che di classe, vedendo uniti nelle protesta la comunità afroamericana (che rappresenta circa il 12% della popolazione statunitense) insieme a quella ispanica, nativa americana, asiatica e almeno ad una parte di quella bianca. Un fatto sicuramente inedito per le proporzioni che ha raggiunto nella partecipazione alle proteste.

D’altra parte l’omicidio del quarantaseienne George Floyd, seguito a distanza di pochi giorni da quello del ventisettenne Rayshard Brooks da parte della polizia di Atlanta sono stati non soltanto gli ultimi casi di una catena di violenze e prevaricazioni di cui la comunità afroamericana e vittima da sempre, ma anche le classiche gocce che hanno fatto traboccare un vaso già colmo.

La crescita abnorme delle disuguaglianze sociali nel corso dell’ultimo decennio ha cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. La precarizzazione delle vite dei lavoratori e l’impoverimento della middle class sono state ulteriormente aggravate dall’epidemia di Covid-19 che ha colpito in maniera sproporzionata la popolazione nera e, in genere tutte le fasce più deboli della popolazione. Creando le condizioni per una tempesta perfetta.

Al 21 giugno gli Stati Uniti risultano essere infatti il paese maggiormente colpito dall’epidemia con con 2.255.119 casi e 119.719 decessi. In un contesto in cui il settore dell’assistenza sanitaria costituisce:

il più grosso fallimento del sistema economico americano. Un disastro che, oltre a provocare un numero infinito di drammi individuali, lacera pericolosamente il tessuto sociale mettendo con le spalle un ex ceto medio già molto impoverito e accentua ulteriormente le disuguaglianze estreme dell’America del Ventunesimo secolo. E quando le disuguaglianze si misurano non con gli squilibri di reddito ma con la differenza tra vivere e morire, le cose, evidentemente, cambiano.[…] I racconti commoventi o che suscitano rabbia sono infiniti: Pazienti in lotta con il cancro che si sono visti negare la chemioterapia per via di una polizza sanitaria che copriva solo il primo ciclo; malati terminali costretti, tra mille sofferenze, a combatter con i call center della propria assicurazione per negoziare qualche rimborso; migliaia di famiglie andate in bancarotta perché non in grado di pagare il prezzo esorbitante dei trattamenti medici erogati dal pronto soccorso. Il motivo è che in America, oltre alle aziende, possono dichiarare fallimeto anche i singoli individui: l’impossibilità di far fronte alle spese mediche è la prima causa di bancarotta2

Immaginiamo come tutto questo si sia incrociato con la pandemia e aggiungiamo il video di nove minuti girato da una ragazza di 17 anni che in poche ore ha fatto il giro del mondo con un effetto dirompente e, circa 48 ore dopo, il fuoco che ha distrutto il terzo distretto di polizia a Minneapolis, che ha invece prodotto l’immaginario della protesta contro le ingiustizie e il razzismo.

“Col passare dei giorni e delle settimane, la narrazione della vera natura della rivolta continuerà a essere discussa” scrive un cronista che ha seguito da vicino la prima settimana a Minneapolis. “[…] Non puoi fare un censimento durante una rivolta, ma il mio resoconto personale è che i giovani in prima linea sono stati sproporzionatamente neri e marroni, per lo più non affiliati a un’organizzazione ufficiale.“
Ma la vera importante novità sono le seconde linee: li’ trovi anche ispanici, latinos, bianchi, asiatici, nativi americani, donne e persone anche anziane3.

A tutto ciò va poi ancora aggiunto che:

Tra il 1998 e il 2015 gli stabilimenti manifatturieri negli Stati Uniti sono passati da 366.249 a 292.825; soprattutto, il numero delle fabbriche con più di 1000 dipendenti si è quasi dimezzato
(da 1504 a 863) e quello delle fabbriche con 500-999 dipendenti si è ridotto di un terzo (da 3322 a 2072). A sua volta il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero è passato da 18.640.000 alla fine del 1980 a 17.449.000 nel dicembre 1998, a 12.809.000 nel dicembre 2018, mentre la popolazione passava da poco più di 227 milioni nel 1980 a quasi 276 milioni nel 1998 e a 327 milioni nel 20183.
La seconda rivoluzione industriale aveva creato le grandi città statunitensi, la terza le ha distrutte.
[…] Tra il 1975 e il 2017 il PIL reale degli Stati Uniti è passato da quasi 5500 miliardi a poco più di 17.000 miliardi e la produttività è cresciuta di circa il 60%, ma i salari orari reali di gran parte dei lavoratori sono rimasti invariati o si sono addirittura abbassati. In altre parole, «per quasi quattro decenni una minuscola élite si è accaparrata quasi tutti i guadagni derivanti dalla crescita economica». Il che testimonia, tra l’altro, che i partiti che si sono alternati al potere negli ultimi decenni – «la politica», con poche eccezioni individuali – hanno avuto la non volontà di legiferare a protezione degli strati mediobassi, cioè della maggioranza della popolazione, e hanno mostrato subalternità agli interessi della piccola minoranza dei potentati economici e finanziari.

L’impressionante aumento di ricchezza dei ricchi[…](ha) cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. E l’insicurezza prolungata ha prodotto a sua volta estraniamento, isolamento e disperazione. I suicidi sono aumentati del 24% tra il 1999 e il 2014; nello stesso arco di tempo, il tasso di suicidi è cresciuto del 63% per le donne tra i 45 e i 64 anni e del 43% per gli uomini della stessa età. Il loro numero è passato da 29.199 del 1999, a 42.773 del 2014, a 47.173 nel 2017 (quando le morti per alcol e droghe sono state più di 100.000). Infine, il fatto che l’arricchimento dei ricchi sia continuato durante la cosiddetta Grande recessione iniziata nel 2008, ha generato nuove frustrazioni, suscitato risentimenti e minato i pilastri della stessa tradizionale fiducia degli statunitensi nella loro democrazia in quanto prassi sociale informale e condivisa, prima ancora che impalcatura istituzionale.4

A questo punto è facile comprendere come le proteste e i riot che sono seguiti al brutale omicidio di George Floyd in quasi tutti gli stati della federazione, vanno ben oltre la pur fondamentale lotta contro la discriminazione razziale e pongono, invece e in maniera lampante, una questione socio-politica che, forse per la prima volta nella storia americana, potrebbe unificare le differenti componenti etniche in unico, autentico melting pot di classe.

Naturalmente, si è cercato fin da subito di vedere nelle rivolte un complotto dei suprematisti bianchi (tornando all’inveterata tradizione degli opposti estremismi che serve sempre a dipingere come fascista o populista qualsiasi forma di lotta non immediatamente inquadrabile nelle maglie istituzionali)5, ma è indubbio che la pressione sociale negli USA è salita a livelli critici a causa della crisi economica da Covid-19, che ha prodotto nel giro di poche settimane un aumento vertiginoso di richieste di nuovi sussidi di disoccupazione, aumentate di circa 40 milioni.

Anche se la maggioranza dei nuovi disoccupati è probabilmente da ricercare nei settori lavorativi contraddistinti dal precariato e vedono coinvolti soprattutto lavoratori e lavoratrici appartenenti alle minoranze etniche e ai millennial bianchi (i quali ultimi hanno visto ridursi del 16% le loro possibilità occupazionali soltanto tra marzo e aprile6), è altrettanto indubbio che tale situazione ha aperto un ulteriore baratro di fronte agli occhi di quella classe media bianca, operaia e non, che già dal 2008 ha imparato cosa significhi perdere rapidamente non solo il posto di lavoro, ma anche la casa e qualsiasi altro tipo di garanzia sociale ed economica (risparmi e investimenti nei fondi pensionistici privati in primis).

Ecco allora che se nel Michigan lavoratori e miliziani bianchi armati avevano occupato il parlamento dello Stato armi alla mano, nei giorni successivi alcuni gruppi di boogaloo boys (militanti di formazioni armate di varia natura e non sempre apparteneti soltanto alla destra bianca) hanno manifestato solidarietà con la morte di George Floyd, in nome di una comune lotta (boogaloo è, né più né meno, che un sinonimo gergale per guerra civile) contro lo Stato federale, le sue leggi, i suoi apparati di sicurezza e la volontà di controllare la diffusione delle armi a discapito del secondo emendamento della Costituzione americana7.

Certo in tale manifestazione di “solidarietà” sono rintracciabili elementi di opportunismo e di provocazione, forse solo un autentico bluff, ma non dimentichiamo mai che, soprattutto tra le frange impoverite dei piccoli farmers tali posizioni estreme, di destra e armate, hanno preso piede da decenni8 proprio a partire dal venir meno di qualsiasi speranza in un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni economiche a seguito di un sempre maggior indebitamento nei confronti delle banche, oggi accompagnato spesso dai danni causati in molti territori, ancora utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento, dalla pratica del fracking, ovvero della fratturazione idraulica del sottosuolo per la ricerca e l’estrazione del petrolio e dello shale gas.

E’ una geografia politica, mentale e spaziale estremamente frantumata quella degli Stati Uniti attuali.
Un mosaico impressionista di emozioni, rivendicazioni, miseria e rabbia che spesso assume i contorni della dichiarazione di zone liberate. Dalla attuale Zona Autonoma di Capitol Hill a Seattle alla ciclica dichiarazione di indipendenza di zone rurali, caratterizzate dalla rivolta contro il prelievo fiscale e l’austerity di stampo governativo, che hanno contraddistinto la storia della federazione americana dalla Shay’s Rebellion del 3 febbraio 1787 fino ai giorni nostri9.

Stiamo attenti, molto attenti, la creazione di un fronte comune tra bianchi impoveriti, armati e arrabbiati e movimenti afro-americani, ispanici o altri ancora è altamente improbabile, ma come scriveva l’ultimo maestro dello haiku: Eppure, eppure10.
La situazione negli USA è altamente esplosiva e sicuramente i vertici politici, finanziari e militari del paese non possono escludere alcuna possibilità di sollevamento e rivolta sociale. Non a caso gli stessi vertici sembrano aver formalmente “abbandonato “ Trump per concedere ai movimenti ben più di quanto il presidente avrebbe voluto (ovvero nulla o quasi), mentre continua ad abbaiare il suo slogan di Law and Order e le sue minacce di dieci anni di galere per chi imbratta o abbatte le statue del passato colonialista e schiavista.

Lo stesso presidente, però, è ben conscio della situazione altamente instabile con cui ha a che fare e, dal chiuso del suo bunker assediato non solo metaforicamente, non smette di soffiare sull’unica risorsa che gli rimane, almeno apparentemente, per vincere le prossime elezioni: ovvero quello del razzismo e dell’odio viscerale che molti lavoratori, piccoli proprietari agricoli e membri impoveriti di una classe media un tempo fiorente, nutrono nei confronti delle banche, dello Stato federale e di una upper class di cui lo stesso Trump è, in fin dei conti, il più agguerrito rappresentante.

L’elastico delle contraddizioni sociali è ormai teso allo spasmo e qualsiasi errore tattico da parte della classe al potere e dei suoi apparati militari e repressivi potrebbe tracimare in uno scontro il cui finale sarebbe ancora tutto da scrivere. Non a caso Obama, sotto la cui presidenza gli omicidi di afro-americani non sono certo diminuiti, e tutto l’apparato del Partito Democratico spingono per cercare di racchiudere la protesta in un ambito puramente elettorale, in cui la questione dei diritti civili sia l’unica componente unificante.

Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, a proposito dei lavoratori irlandesi sfruttati dai padroni e maltrattati dagli operai inglesi, Marx aveva ammonito i secondi, affermando che chi non è in grado di difendere i diritti altrui non è neppure in grado di difendere poi i propri. E tale monito deve continuare a splendere come una stella polare per chiunque abbia a cuore la trasformazione e il superamento del modo di produzione vigente, ma allo stesso tempo occorre che chi vuole lottare efficacemente contro lo stesso tenga presenti tutte le contraddizioni e i bisogni che lo stesso suscita tra segmenti diversi di classe e/o di classi sociali differenti.

Per fare uno scomodo esempio, riferibile all’attuale situazione italiana, sia durante l’epidemia da Covid, con l’obbligo di lavorare per i dipendenti di migliaia di imprese che non si sono mai fermate, che dopo, è qui utile ricordare quanto affermato Sergio Bologna in una recente intervista:

Bisogna inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti, ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva.11

Ecco: il conflitto, industriale e/o sociale, può essere il terreno di coltura di una nuova e allargata strategia di classe che veda finalmente riuniti i differenti temi che agitano le rivolte di ogni tipo in nome di un superamento dell’esistente e non del suo mantenimento in vita in chiave green o pseudo-democratica e liberal. A costo di riprendere l’unico illuminista in grado di proiettarsi oltre l’Illuminismo, Jean Jacques Rousseau, occorre ancora ricordare che l’unica vera disuguaglianza tra gli uomini è quella economica, tra chi ha e chi non ha12. E che da questa, fondamentale a partire dall’invenzione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, derivano tutte le altre.

Superare la prima significherà travolgere le altre, anche se secoli di abitudini sedimentate e di incrostazioni ideologiche e religiose avranno bisogno di un certo tempo per essere cancellate del tutto. Cercare di farlo significa però, in maniera tutt’altro che utopistica, cercare di riunificare ciò che il capitale e lo Stato tendono continuamente a dividere per distogliere la rabbia dal conflitto reale e volgerla ad uno più utilmente sfruttabile ai fini del mantenimento dei rapporti di forza attuali tra le classi.

Come ha recentemente affermato Angela Davis:

“Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.[…] Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco13.

Sia Trump che i democratici stanno soffiando su un fuoco che, però, non è soltanto elettorale, visto che chiunque dei due vinca alle prossime elezioni, avrà grosse difficoltà nel mantenere le promesse fatte e in ogni caso dovrà fare i conti con una rabbia sempre meno celata e sempre meno rimovibile dalle coscienze.

Abbiamo, come già affermato, qui su Carmilla nella serie di articoli sull’Epidemia delle emergenze14, una grande possibilità da cogliere oggi, in America e non solo, a patto di non ridurre il tutto ad una serie di sardineschi inchini e saper invece affrontare la catastrofe che già è in corso, di qua e di là dell’Atlantico.
Perché l’impossiblità di vivere oggi, per la maggior parte della specie umana, è anche la vera ragione della nostra insopprimibile forza.

I don’t, live today
Maybe tomorrow, I just can say
But a, I don’t live today
It’s such a shame to waste
your time away like this
Existing

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