Un’intervista ad Angela Davis di Gaye Theresa Johnson e Alex Lubin, pubblicata originariamente su Verso Books e tradotta in italiano da Ilaria Faccin e Serena Tarascio.
“Il concetto associato al marxismo nero, che trovo più produttivo e più potenzialmente trasformativo, è il concetto di capitalismo razziale… Il capitalismo globale non può essere compreso adeguatamente se viene ignorata la dimensione razziale del capitalismo”.
Futures of Black Radicalism riunisce attivisti, studiosi e pensatori chiave della Tradizione Radicale Nera che stimano e celebrano il lavoro di Cedric J. Robinson, che per primo ha categorizzato il termine. I saggi ivi raccolti esaminano il passato, il presente e il futuro del radicalismo nero, nonché le influenze che ha avuto su altri movimenti sociali. Il capitalismo razziale, un’altra potente idea sviluppata da Cedric J. Robinson, si collega ai movimenti sociali internazionali di oggi, esplorando i legami tra resistenza nera e anticapitalismo.
Durante i tuoi studi ti sei concentrata sull’abolizionismo carcerario, sul femminismo nero, sulla cultura popolare e il blues e sull’internazionalismo nero con un’attenzione particolare alla Palestina. Nel suo insieme, in che modo questo lavoro trae ispirazione e forse porta avanti la Tradizione Radicale Nera?
Cedric Robinson ci ha sfidati a riflettere sul ruolo dei teorici e attivisti radicali neri nel plasmare storie sociali e culturali che ci ispirano a collegare le nostre idee e le nostre pratiche politiche alle profonde critiche al capitalismo razziale. Sono contenta che abbia vissuto abbastanza a lungo per farsi un’idea di come le giovani generazioni di studiosi e attivisti abbiano iniziato ad assorbire la sua teoria sulla Tradizione Radicale Nera. In “Black Marxism”, ha sviluppato un’importante genealogia che ruota attorno al lavoro di C. L. R. James, W. E. B. Du Bois e Richard Wright. Se si guarda al suo lavoro nel suo insieme, includendo “Black Movements in America” e “Anthropology of Marxism”, come ha sottolineato H. L. T. Quan, non possiamo non capire come le donne siano state centrali nella creazione della Tradizione Radicale Nera. Quan scrive che, quando interrogato sul perché ci si concentri così tanto sul ruolo delle donne e sulla resistenza nel suo lavoro, Robinson ha risposto “E perché no? Tutta la resistenza, in effetti, si manifesta nel genere, si manifesta come genere. Il genere è di fatti sia un linguaggio di oppressione sia di resistenza “.
Ho imparato molto da Cedric Robinson riguardo agli usi della storia: modi di teorizzare la storia (o permetterle di teorizzare se stessa) che sono cruciali alla nostra comprensione del presente e per la nostra capacità di prevedere collettivamente un futuro più vivibile. Cedric ha sostenuto che le sue notevoli ricerche storiche derivano dal proposito di obiettivi politici nel presente. Ho avvertito un’affinità con il suo approccio da quando ho letto per la prima volta “Black Marxism”. Il mio primo articolo pubblicato (scritto mentre ero in prigione) sulle donne nere e sulla schiavitù era, in effetti, uno sforzo a confutare il discorso dannoso, ma sempre più popolare, del matriarcato nero, così come rappresentato attraverso rapporti ufficiali del governo e attraverso idee maschiliste generalizzate (come la necessità di gerarchie di leadership basate sul genere progettate per garantire il dominio maschile nero) circolanti all’interno del movimento nero alla fine degli anni ’60 e all’inizio dei ’70. Anche se non era questo il modo in cui concepivo il mio lavoro in quel periodo, certamente oggi non esiterei a collegare quella ricerca allo sforzo di rendere più visibile una tradizione radicale, e pertanto femminista, nera.
La nuova formazione sul campo (studi critici sul sistema penitenziario e il suo contesto esplicitamente abolizionista) si colloca all’interno della Tradizione Radicale Nera, sia attraverso la sua relazione genealogica riconosciuta con il periodo nella storia degli Stati Uniti che chiamiamo l’Era della Ricostruzione, sia, naturalmente, attraverso la sua relazione con il lavoro di W. E. B. Du Bois e con il femminismo nero storico. Il lavoro di Sarah Haley, Kelly Lytle Hernandez e un’entusiasmante nuova generazione di studiosi, collegando la loro preziosa ricerca con il loro attivismo di principio, stanno aiutando a rivitalizzare la Tradizione Radicale Nera.
A quanto pare, con ogni generazione di attivismo antirazzista, il limitato nazionalismo nero ritorna come una fenice per reclamare la fedeltà dei nostri movimenti. Il lavoro di Cedric è stato in parte ispirato dal suo desiderio di rispondere al limitato nazionalismo nero dell’era della sua (e mia) giovinezza. Certo è estremamente frustrante assistere alla rinascita di forme di nazionalismo che non solo sono controproducenti, ma contravvengono a quello che dovrebbe essere il nostro obiettivo: la prosperità dei neri e pertanto dell’umanità. Allo stesso tempo, è proprio emozionante assistere al modo in cui nuove formazioni giovanili – Black Lives Matter, BYP100, i Dream Defenders – stanno contribuendo a dare forma a un nuovo internazionalismo coniugato con il femminismo nero che evidenzia il valore delle teorie e pratiche queer.
Qual è il tuo giudizio sul movimento Black Lives Matter, in particolare alla luce della tua partecipazione nelle Pantere Nere negli anni ’70? Il Black Lives Matter ha secondo te un’analisi e una teoria della libertà sufficienti? Vedi qualche somiglianza tra il movimento del BPP e il BLM?
Considerando la relazione tra le Pantere Nere e il movimento Black Lives Matter dei giorni nostri, sembra che i decenni e le generazioni che separano l’uno dall’altro creino una certa incommensurabilità che è una conseguenza di tutti i cambiamenti economici, politici, culturali e tecnologici, che rendono il momento attuale così diverso sotto tanti aspetti importanti rispetto alla fine degli anni ’60. Ma forse dovremmo cercare connessioni tra i due movimenti che si rivelano non tanto nelle somiglianze, quanto piuttosto nelle loro differenze radicali.
Il BPP è emerso come risposta all’occupazione della polizia di Oakland, in California, e delle comunità urbane nere in tutto il paese. È stata una mossa assolutamente brillante da parte di Huey Newton e Bobby Seale pattugliare il quartiere con pistole e libri di legge, in altre parole, “sorvegliare la polizia”. Allo stesso tempo, questa strategia (certamente ispirata anche dall’emergere delle lotte di guerriglia a Cuba, dagli eserciti di liberazione nell’Africa meridionale e in Medio Oriente e dalla resistenza riuscita del Fronte di Liberazione Nazionale in Vietnam) a posteriori, rifletteva un fallimento nel riconoscere, come affermava Audre Lorde, che “gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone”. In altre parole, l’uso delle pistole (anche se principalmente come simboli di resistenza) ha trasmesso il messaggio che la polizia si sarebbe potuta sfidare efficacemente facendo affidamento su esplicite strategie della stessa.
Un hashtag creato da Patrisse Cullors, Alicia Garza e Opal Tometi all’indomani dell’omicidio di Trayvon Martin da parte di un vigilante, #BlackLivesMatter, ha iniziato a trasformarsi in una rete di risposta diretta alle crescenti proteste di Ferguson, Missouri, con le quali si è manifestato un desiderio collettivo di chiedere giustizia per Mike Brown e per tutte le vite nere sacrificate sull’altare del terrore della polizia razzista. Chiedendoci di resistere radicalmente alla violenza razzista nel cuore stesso delle strutture e delle strategie di polizia, il Black Lives Matter sin dall’inizio ha riconosciuto che avremmo dovuto porre la richiesta di smilitarizzazione della polizia al centro dei nostri sforzi per avanzare verso una modalità di giustizia più critica e più collettiva. Sostanzialmente legata a un approccio che richiede l’abolizione della polizia così come la conosciamo e la viviamo, la smilitarizzazione ha anche contestato il modo in cui le strategie di polizia sono state transnazionalizzate all’interno di circuiti che collegano piccoli dipartimenti di polizia statunitensi a Israele, che domina l’arena della polizia militarizzata associata all’occupazione della Palestina.
Apprezzo l’analisi più complessa che viene abbracciata da molti attivisti BLM, perché riflette precisamente una mentalità storica che è in grado di costruire, abbracciare e criticare radicalmente gli attivismi e le teorie antirazziste del passato. Mentre il BPP tentava (a volte senza successo) di abbracciare i femminismi emergenti e quello che allora veniva chiamato il movimento di liberazione gay, leader e attivisti del BLM hanno sviluppato approcci che accolgono in modo più produttivo teorie e pratiche femministe e queer. Ma le teorie della libertà sono sempre provvisorie. Ho imparato da Cedric Robinson che qualsiasi teoria o strategia politica che pretenda di possedere una teoria totale della libertà o una che possa essere categoricamente compresa, non è riuscita a spiegare la molteplicità delle possibilità, che, forse, possono essere solo evocativamente rappresentate nel regno della cultura.
La tua ricerca più recente si focalizza sulla questione palestinese e la connessione con il movimento di liberazione dei neri. Quando questa connessione ti è sembrata ovvia e quali circostanze, o congetture, hanno reso questa visione possibile?
In effetti la mia raccolta di interventi e interviste più recenti riflette una comprensione popolare crescente del bisogno di una struttura internazionalista all’interno della quale il lavoro in atto per smantellare le strutture di razzismo, etero-patriarcato e ingiustizia economica negli Stati Uniti possa diventare più duraturo e più significativo. Nella mia storia politica personale, la Palestina ha sempre occupato un posto fondamentale e precisamente a causa delle similarità tra Israele e gli Stati Uniti – il loro colonialismo da coloni-fondatori e i loro processi di pulizia etnica dei popoli indigeni, i loro sistemi di segregazione, l’uso di sistemi legali per perpetrare la repressione sistematica e via dicendo. Sottolineo spesso che la mia consapevolezza della situazione complessa della Palestina risale a quando studiavo alla Brandeis University, che era stata fondata lo stesso anno dello Stato di Israele. Inoltre, durante la mia incarcerazione, ho ricevuto supporto da prigionieri politici palestinesi, come da avvocati israeliani che difendevano i palestinesi.
Nel 1973, quando ho preso parte al Festival Mondiale della Gioventù e degli Studenti a Berlino (nella Repubblica Democratica Tedesca), ho avuto l’opportunità di incontrare Yasir Arafat, che ha sempre riconosciuto l’affinità della lotta palestinese e le lotte della liberazione dei neri negli Stati Uniti e che, come il Che, Fidel, Patrice Lumumba e Amilcar Cabral, era una figura stimata all’interno del movimento per la liberazione dei neri. Era un periodo in cui l’internazionalismo comunista (in Africa, nel Medio Oriente, in Europa, Asia, Australia, Sudamerica e nei Caraibi) era una forza potente. Riguardo alla mia storia personale, essa avrebbe avuto quasi certamente una conclusione differente, se questo internazionalismo non avesse giocato un ruolo importante.
I punti di incontro tra le lotte di liberazione dei neri negli Stati Uniti e i movimenti contro l’occupazione israeliana della Palestina hanno una storia molto lunga. Il libro di Alex Lubin “Geography of Liberation: The Making of an Afro-Arab Political Imaginary” tenta di classificare aspetti importanti di questa storia. Tuttavia, spesso non è nell’ambito esplicitamente politico che si scoprono momenti di contatto. Come enfatizza Cedric Robinson, è nell’ambito culturale. Ovviamente il libro di Robin Kelley “Freedom Dreams: The Making of the Black Radical Imagination” pone l’accento sulla sfera del surrealismo come una zona di contatto particolarmente generativa. Nella seconda parte del ventesimo secolo, è stata la poetessa nera femminista June Jordan a richiamare l’attenzione sulla questione dell’occupazione della Palestina. Nonostante gli attacchi sionisti che ha dovuto subire e nonostante la perdita temporanea di un’amicizia molto importante con Adrienne Rich (che più tardi divenne anche lei critica dell’occupazione), June divenne una potente testimone per la Palestina. Nella sua poesia si sentiva spinta a rappresentare la congiuntura della liberazione nera e palestinese.
“Sono nata nera/ e adesso / sono diventata palestinese/ contro l’inesorabile scorno del male/ c’è sempre meno spazio per vivere/ e dove sono i miei cari / È tempo di fare ritorno a casa”.
In un periodo in cui le femministe di colore stavano tentando di modellare le strategie di ciò a cui adesso ci riferiamo come intersezionalità, June, che rappresenta il meglio della Tradizione Radicale Nera, ci ha insegnato la portata delle affinità politiche al di là dei confini nazionali, culturali e apparentemente razziali per aiutarci a immaginare futuri più abitabili. Mi manca molto e mi dispiace molto che non sia vissuta abbastanza a lungo per vedere gli attivisti del Black Lives Matter attraverso questo continente innalzare striscioni di resistenza all’occupazione della Palestina.
Come ho sottolineato in molte occasioni, quando nel 2011 mi sono unita alla delegazione delle attiviste e studiose femministe indigene e di colore in Cisgiordania e Gerusalemme Est, pensavo di comprendere pienamente l’occupazione. Sebbene tutte noi eravamo già legate, in un modo o nell’altro, al movimento di solidarietà, fummo tutte veramente scioccate da quanto poco sapevamo veramente della violenza quotidiana dell’occupazione. In conclusione della nostra visita, abbiamo deciso collettivamente di dedicare le nostre energie alla partecipazione al BDS e ad aiutare ad accrescere la consapevolezza nei nostri vari collegi elettorali rispetto al ruolo degli Stati Uniti per sostenere l’occupazione militare (oltre 8 milioni di dollari). Dunque sono rimasta fortemente connessa in questo progetto a Chandra Moharty, Beverly Guy-She all, Barbara Ransby, Gina Dent e agli altri membri della delegazione.
Nei cinque anni seguenti al nostro viaggio, molte altre delegazioni di accademici e attivisti hanno visitato la Palestina e hanno aiutato ad accelerare, accrescere e a rafforzare il movimento di solidarietà per la Palestina. Come gli artefici del movimento di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni hanno modellato il loro lavoro sulla campagna anti-apartheid contro il Sudafrica, gli attivisti statunitensi hanno tentato di sottolineare che ci sono lezioni profonde da raccogliere dalle prime politiche di boicottaggio. Molte organizzazioni e movimenti all’interno degli Stati Uniti hanno considerato come l’incorporamento di strategie anti-apartheid nelle loro agende avrebbe trasformato radicalmente il loro lavoro. Non solo la campagna anti-apartheid ha aiutato ad accrescere gli sforzi internazionali nel cancellare lo stato di apartheid, ha anche ravvivato e arricchito molti movimenti domestici contro il razzismo, la misoginia e per la giustizia economica.
Allo stesso modo la solidarietà con la Palestina ha il potenziale per trasformare ulteriormente e rendere più estesa la consapevolezza politica dei nostri movimenti contemporanei. Gli attivisti di BLM e altri associati a questo movimento storico molto importante di una consapevolezza collettiva crescente, che richiama al riconoscimento delle strutture di razzismo persistenti, possono giocare un ruolo importante nell’obbligare altre aree dell’attivismo per la giustizia sociale di accogliere la causa di solidarietà con la Palestina (e specificatamente il movimento di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni). Alleanze nei campus universitari che riuniscono organizzazioni di studenti neri, Students for Justice in Palestine e diramazioni universitarie di Jewish Voice for Peace ci ricordano del bisogno profondo di unire gli sforzi antirazzisti con forti sfide all’islamofobia e all’antisemitismo e con la resistenza globale alle politiche e pratiche di apartheid dello Stato d’Israele.
Teoreticamente e ideologicamente, la Palestina ci ha anche aiutato ad allargare la nostra visione di abolizione, che abbiamo caratterizzato in questo periodo come l’abolizione dell’imprigionamento e della vigilanza. L’esperienza della Palestina ci spinge a rivisitare concetti come la “nazione-prigione” o lo “stato carcerario” per capire seriamente le carceralità quotidiane dell’occupazione e la vigilanza onnipresente non solo delle forze israeliane ma anche dell’autorità palestinese. Questo ha stimolato di rimando altre direzioni di ricerca sugli usi dell’incarcerazione e il suo ruolo, per esempio, nel perpetrare nozioni di binarismo permanente rispetto al genere e nel naturalizzare la segregazione basata sull’abilità fisica, mentale e intellettuale.
Che genere di movimenti sociali possono, o dovrebbero, esistere alla congiuntura presente, data la supremazia dell’egemonia globale americana, le relazioni economiche neoliberali, la controguerriglia militarizzata a casa e il “daltonismo” razziale?
In un tempo in cui il discorso popolare si sposta rapidamente come risposta diretta alle pressioni che scaturiscono da proteste prolungate contro la violenza di stato e da pratiche rappresentative legate a nuove tecnologie di comunicazione, io suggerisco che abbiamo bisogno di movimenti che prestano attenzione tanto all’educazione politica popolare quanto alle mobilitazioni che hanno avuto successo nell’inserire la violenza della polizia e l’incarcerazione di massa nella agenda politica nazionale. Ciò significa, penso, che cerchiamo di creare un’analisi della congiuntura attuale che derivi lezioni importanti da campagne relativamente recenti, che hanno spinto la nostra coscienza collettiva al di là di limiti precedenti. In altre parole, abbiamo bisogno di movimenti che siano preparati a resistere alle seduzioni inevitabili dell’assimilazione. La campagna di Occupy ci ha permesso di sviluppare un vocabolario anticapitalista: il 99 percento contro l’1 percento è un concetto che è entrato nella parlata popolare. La questione non è soltanto come conservare questo vocabolario (come, per esempio nell’analisi proposta dalla piattaforma di Bernie Sanders che ha portato alla selezione del candidato democratico a presidente per il 2016), ma piuttosto come costruire a partire da questo o complicarlo con l’idea del capitalismo razziale, che non può essere espresso così appropriatamente in termini quantitativi che presumono l’omogeneità, che assicura il razzismo in modo continuativo.
Cedric Robinson non ha mai smesso di estrapolare idee, prodotti culturali e movimenti politici dal passato. Ha tentato di capire perché traiettorie di assimilazione e di resistenza nei movimenti di liberazione dei neri negli Stati Uniti hanno coesistito e le sue intuizioni (nei movimenti neri in America, per esempio) continuano ad avere grande valore. Le strategie assimilazioniste, che lasciano intatte le circostanze e le strutture che perpetuano l’esclusione e la marginalizzazione sono state sempre offerte come l’alternativa più ragionevole all’abolizione, che ovviamente non solo richiede resistenza e smantellamento, ma anche re-immaginazioni radicali e ricostruzioni radicali.
Forse questo è il momento di gettare le fondamenta per un nuovo partito politico, che parli a un numero molto maggiore di persone di quello che i partiti politici progressisti tradizionali siano stati capaci di fare. Questo partito dovrebbe essere legato organicamente alla varietà dei movimenti radicali, che sono emersi in seguito all’ascesa del capitalismo globale. Mentre rifletto sul valore del lavoro di Cedric Robinson in relazione all’attivismo radicale contemporaneo, mi sembra che questo partito dovrebbe essere radicato nell’idea del capitalismo razziale (sarebbe antirazzista, anticapitalista, femminista e abolizionista). Ma soprattutto, dovrebbe riconoscere la priorità dei movimenti dal basso, movimenti che riconoscono l’intersezionalità delle problematiche attuali; movimenti che sono sufficientemente aperti a permettere l’affermazione futura di questioni, idee e movimenti che non possiamo neanche immaginare oggi.
Fai una distinzione, nella tua ricerca e attivismo, tra il marxismo e il “marxismo nero”?
Ho passato la maggior parte della mia vita a studiare le idee marxiste e mi sono identificata con gruppi che non solo hanno abbracciato le critiche ispirate dal marxismo all’ordine socioeconomico dominante, ma si sono anche sforzati di comprendere la relazione co-costitutiva del razzismo e del capitalismo. Avendo seguito in special modo le teorie e le pratiche dei comunisti neri e gli anti imperialisti negli Stati Uniti, in Africa, nei paesi caraibici e in altre parti del mondo e avendo lavorato all’interno del Partito Comunista per parecchi anni con una formazione nera che prese il nome di Che Guevara e Patrice Lumumba, il marxismo, dalla mia prospettiva, è sempre stato sia un metodo che un oggetto di critica. Di conseguenza non vedo necessariamente i termini “marxismo” e “marxismo nero” come antitetici.
Prendo molto seriamente le argomentazioni di Cedric Robinson nel libro “Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition”. Se supponiamo la centralità incontestata dell’Occidente e i suoi sviluppi economici, filosofici e culturali, allora le modalità economiche, le storie intellettuali, le religioni e le culture associate con l’Africa, l’Asia e le popolazioni indigene non saranno riconosciute come dimensioni significative dell’umanità. Lo stesso concetto di umanità celerà sempre una razzializzazione interna, clandestina, che impedisce per sempre possibilità di uguaglianza razziale. Non serve dire che il marxismo è fermamente ancorato a questa tradizione dell’Illuminismo. Le brillanti analisi di Cedric rivelavano nuovi modi di pensare e agire generati precisamente attraverso i punti d’incontro tra il marxismo e gli intellettuali/attivisti neri che hanno aiutato a costruire la Tradizione Radicale Nera.
Il concetto associato al marxismo nero, che trovo più produttivo e più potenzialmente trasformativo, è il concetto di capitalismo razziale. Anche se il libro di Eric William “Capitalism and Slavery” è stato pubblicato nel 1944, gli sforzi intellettuali di esplorare questa relazione sono rimasti relativamente marginali. Speriamo che la nuova ricerca sul capitalismo e la schiavitù possa aiutare a legittimare ulteriormente la nozione di capitalismo razziale. Mentre è importante riconoscere la parte decisiva che lo schiavismo ha giocato nel consolidamento storico del capitalismo, gli sviluppi più recenti legati al capitalismo globale non possono essere compresi adeguatamente, se viene ignorata la dimensione razziale del capitalismo.