L’undicesimo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo articolo, scrivi a: redazione@globalproject.info)
La sensazione preponderante è stata la sospensione, un vuoto ovattato in cui filtravano voci dei tg, dei live streaming, titoli roboanti, dolore e incredulità.
Sembrava di essere un* protagonista di qualche serie tv distopica, o forse più un carattere secondario o una comparsa. Quelle carrellate di persone una dopo l’altra che lo sguardo dei protagonisti mette a fuoco per un momento, in un voyeurismo da Rear Window.
Vite troppo poco interessanti per avere una caratterizzazione più approfondita o per rientrare nella narrazione come villain.
Insomma si stava sul divano, in una penombra costante e in attesa dell’inizio delle comunicazioni ufficiali, con la luce degli schermi a illuminare il viso – che spesso era lì che ci osservava dall’ennesima call Jitsi o Zoom, in un effetto straniante di specchio pixelato.
Ho un lavoro “creativo”, di quel tipo che puoi fare da casa. Orari e deadline completamente esenti da giorni feriali o festivi – ambiguità e promiscuità tra tempo di lavoro e tempo di vita – li avevo già provati senza che occorresse una pandemia globale. È un lavoro di quelli considerati hobby, di quelli che “sarà mica pesante”. Insieme a questo ne avevo un altro a contatto con persone più o meno piccole. Da quando avevo iniziato a sperimentarmi in questo terreno avevo creduto di trovare il giusto equilibrio tra lo stare dietro uno schermo – e comunicare in differita – e il corpo, i corpi, in presenza. Con tutti quegli inciampi tra dubbi, domande, divagazioni del pensiero.
Ovviamente tutto estremamente precario, intermittente, non garantito. Ma per la prima volta ero passat* dal lavoro nero al grigio di quello autonomo.
Sono stat* in una sensazione di sospensione per un bel po’. Prima totale, poi la mente si è attivata, la voglia di fare qualcosa, di non dissolvere le relazioni a causa della virtualità imposta, la necessità di leggere – di ascoltare – di informarmi. Credo di non aver mai seguito così tanti webinar, lezioni online da infiltrat*, call pubbliche che cercavano di organizzare corpi distanti. Ho comprato libri e mi sono abbonat* a riviste.
Ho sofferto con fastidio la bulimia di opinioni di trombon* rimbalzata nella mia bolla social (fatevi ‘na chat con amic*, non dovete scrivere un articolo/saggio su ogni cosa vi passi per la mente), la bulimia di post “categorici” della mia bolla social, l’acredine che si sviluppava nei commenti a quei post della mia bolla social.
Che non ne siamo usciti meglio mi pare alquanto evidente.
Di lato a questo si sviluppavano esperienze che ci facevano uscire finalmente di casa con un motivo che non fosse egoistico, ma di mutualismo e solidarietà.
E mi sono res* conto all’improvviso che erano più di due mesi che non toccavo qualcun*. Non da un punto di vista erotico sentimentale. Proprio il contatto fisico di una stretta di mano o di un abbraccio di saluto. La sospensione della fisicità è rimasta persistente, ed è ancora tutta lì, nel metro di distanza e forse nella perdita di un’abitudine alla prossimità.
E mi sono res* conto che vedo la carne delle mie dita. In un continuo micro-autolesionismo che il gel disinfettante amplifica all’inverosimile. L’ultima volta che avevo visto la carne delle mie dita era in un periodo di crisi esistenziale, economica, relazionale. Quelle crisi che troppo spesso la mia generazione – e quella dopo – si trova a subire a fasi alterne nel corso della propria vita, quelle crisi che solitamente ci fanno definire “pappemolli” o “bamboccioni” da chi c’era prima di noi.
Guardo le mie dita doloranti e non posso non pensare alle parole di quei post nella mia bolla – quelli sì, indispensabili – che raccontavano la realtà della pandemia di tutte quelle donne – spesso razzializzate – che lavorano nelle sanificazioni. Quella che per i padroni è nuovamente occasione di business ma che mette in “prima linea” corpi, vite, voci. Cosa è della loro di salute, di sicurezza? Quella che pretendiamo per i nostri luoghi di lavoro o di studio su che braccia, mani e polmoni si regge?
Nel mentre che scrivo gli Stati Uniti bruciano, e ci costringono a osservarci e a riconoscere il nostro privilegio, di persone bianche, con documenti, spesso con un tetto. Di osservare su che basi di oppressione è costruito il Vecchio Continente, o lo Stivale.
Non ci dicono cosa fare, non hanno tempo da perdere ma troppe vite rubate.
Di quello che sta succedendo negli States non mi interessa granché la pornografia del riot che invade la mia bolla (bianca), bensì quell’invito a stare in silenzio e ascoltare. Di attivarci ma stare un passo indietro. Non di “usare il privilegio per amplificare le voci di chi non ha voce”. Perché le voci ci sono, solo non le abbiamo ascoltate o le abbiamo – consapevolmente o meno – silenziate.
Portiamoci a casa questo posizionamento, questa attitudine.
Altrimenti le lotte che partiranno adesso che possiamo uscire di casa – che dovranno parlare alle lotte che si sono sviluppate nelle fabbriche, nei campi, negli ospedali durante il lockdown – lasceranno sempre qualcun* indietro, paventando però l’universalità.