Il dodicesimo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo articolo, scrivi a: redazione@globalproject.info)
I mesi appena trascorsi sono stati disordinati, non trovo altra parola per descriverli. Una routine disordinata, una casa disordinata, una scrivania disordinata, capelli perennemente disordinati, ore e ore di studio disordinato. Soprattutto tanti, tanti pensieri disordinati.
Ho vissuto disordinatamente, e in apnea. In apnea perché mi sono buttata a capofitto nello studio delle materie del secondo semestre, seguendo inizialmente in maniera pedissequa lezioni che trovavo in realtà noiose e anche inutili, e poi nella lettura di altre mille cose, romanzi, saggi, articoli. Mi sono riempita di parole tanto da arrivare a sera esausta e crollare in attesa di un’altra giornata assolutamente uguale. E devo dire di aver superato marzo ed aprile molto più facilmente di quanto non mi sarei mai aspettata, conoscendomi.
Se i mesi della Fase 1, nonostante gli inevitabili alti e bassi, sono stati alla fine sopportabili (soprattutto perché la mia è stata una quarantena da privilegiata, i miei non hanno avuto nessun problema economico e quindi io nessuna particolare preoccupazione) e in, un certo qual modo, quasi produttivi, all’inizio della Fase 2 sono uscita dall’apnea: ed è stato tremendo. Per tante ragioni.
Prima di tutto il pensiero di poter rivedere qualcuno dei miei cari, sebbene mi rendesse felice, mi ha reso anche estremamente ansiosa. Il fatto di non sapere bene come comportarmi, di non sapere cosa aspettarmi da un ritorno alla socialità che però non poteva avere le stesse caratteristiche del prima, di non poter ritrovare subito l’intimità a cui ero abituata (Posso abbracciare l’amica? Lo vorrei tanto ma forse a lei non va, allora è meglio che lasci perdere. Ma non vorrei sembrare fredda, e se poi magari ci vede qualcuno? Meglio che l’amica la chiami e le chieda di fare la solita videocall, vah…) mi ha fatto forse rinchiudere ancora di più in casa. Avevo solo voglia di trovare un angolino tranquillo in cui starmene con i miei pensieri.
E questo è un altro punto dolente. La cosa che più mi è mancata in questa quarantena è stata la solitudine. Il che è paradossale, considerando che invece è ciò che ha reso questi mesi un incubo per tante e tanti. A me, in una casa sempre piena e con gli spazi totalmente condivisi anche quando la porta era chiusa perché il fratellino entrava ogni due per tre senza bussare, è mancata la possibilità di stare davvero da sola, senza interruzioni. Stare da sola mi ricarica, mi permette di ascoltarmi, di vivere anche solo per qualche ora dentro me stessa per capirmi, per comprendere come sto davvero, cosa va, cosa non va, quali voglio che siano i miei obbiettivi, ecc. Quindi mi sono ignorata per due mesi. Sono stata bene, eh, per carità. Ma quando finalmente mi sono potuta rifugiare nei boschi dietro casa, per la prima volta in settimane sono stata con me stessa. E lì è arrivata la botta: ero una me stessa ingarbugliata e disordinata e dolorante, con un sacco di cose da mettere in ordine nella mente e poche forze per farlo. Le crisi d’identità che non ho avuto durante l’adolescenza si sono presentate tutte in queste ultime settimane.
Poi è sopraggiunta la nostalgia. Perché, pur essendo contenta di aver passato questo periodo distopico a casa con la mia famiglia, Padova, la città in cui studio e ormai considero più casa che il mio paesino in Trentino, mi è mancata in un modo indescrivibile. Nostalgia nel vero senso etimologico del termine, dal greco “il dolore del ritorno”. Sentimento che i greci in realtà non conoscevano, ma che fu coniato da un giovane medico per descrivere le sofferenze dei soldati svizzeri in Francia, che addirittura morivano di dolore e che guarivano solo una volta tornati tra le cime elvetiche.
Ecco, io sentivo che per guarire il mio spleen avrei solo dovuto tornare qui, nella mia stanzetta, con i miei libri, le mie piante (piante collezionate per mesi con amore, che immaginavo avvizzire piano piano, pensiero che mi gettava in un esagerato sconforto). Probabilmente mi sono suggestionata, mi sono convinta che fosse davvero così, che i portici, le piazze, Pontecorvo, i miei negozietti di fiducia, fossero l’unico rimedio possibile. Di per sé mi sarei anche potuta chiudere in casa, mi sarebbe bastato essere nuovamente in suolo patavino.
Con il senno di poi, probabilmente la mia era solo bisogno di ritrovare l’indipendenza che mi era stata tolta a marzo, e tornare a stare da sola era forse l’unica soluzione.
Alla fine sono riuscita a tornare, sto scrivendo seduta alla mia scrivania, esausta dopo l’ennesima giornata di studio di una sessione che si preannuncia come una sorta di prolungamento della quarantena. Sessione che tra l’altro non ha alcuna clemenza, e che va avanti con ritmi serratissimi senza considerare l’eccezionalità dei mesi trascorsi.
Trovarmi immersa nella tanto agognata solitudine e finalmente sola con me stessa è stato liberatorio. I pensieri hanno cominciato a fluire, a districarsi, a mettersi un po’ in ordine dopo tanto caos. Forse questo stesso testo sconclusionato e che non porterà a nulla è solo un tentativo di far quadrare le cose. Con i pensieri sono venuti fuori anche tanti dubbi, dolorosi ma necessari, su quello che sto facendo della mia vita, su quelli che sono i progetti che fino ad ora avevo dato per scontati e che sento sempre meno adatti a me. Mi trovo a studiare materie che non mi piacciono, con la prospettiva di studiare materie poco dissimili a queste per altri cinque anni, per poi ritrovarmi risucchiata in un vortice di camici e corsie che considero potenzialmente entusiasmante, ma non per me, forse per altri. E la cosa è decisamente peggiorata con la didattica a distanza, che mi sembra abbia solo ulteriormente meccanizzato un apprendimento che, guardando alla mia breve esperienza universitaria, era già piuttosto disumanizzato e volto unicamente alla somministrazione di nozioni avulse da ogni contesto.
Sono dubbi che riaffiorano ciclicamente da quando ho messo piede in università, ad ottobre, ma che in questi mesi ero riuscita a rimuovere, nascondere, dissimulare a me stessa. La pandemia mi ha forse solo messa davanti alla caducità della vita (sì, che originale), e davanti al fatto che sbattere la testa per anni su cose per me prive di attrattiva vuol dire buttare tempo e forze.
Sto seriamente considerando di lasciare Medicina per iscrivermi a qualche facoltà umanistica, che poi è quello che ho sempre voluto fare da più piccola. Mi chiedo ogni giorno prima di aprire i libri cosa avessi in mente un anno fa, quando mi sono iscritta: probabilmente il richiamo del posto fisso, con una buona dose di ingenuità (voglio diventare dottoressa per andare in Africa con Medici Senza Frontiere, rispondevo alle domande sul perché della mia scelta, senza probabilmente rendermi conto che prima di andare in Africa ci sarebbero voluti una buona ventina d’anni di strette di denti, e che in Africa posso sicuramente andarci in qualche altro modo, che mi si addica di più).
Si, è una pazzia, e sì, se i laureati di oggi e di ieri sono una generazione di precari, probabilmente i laureati di domani, ovvero noi, lo saranno ancora di più.
O forse no. Credo e spero che il mondo stia cambiando, mi auguro in meglio, sebbene la scintilla del cambiamento sia stata drammatica. Servirà proporre nuove letture e visioni, serviranno teorie e risposte alle domande che inevitabilmente questo periodo farà scaturire. Vivere questo cambiamento in prima persona, esserne parte attiva e concreta, nonostante l’acerbità dei miei vent’anni, mi eccita e mi entusiasma. E quindi, perché no, forse in realtà è il momento adatto per fare quello che molti considererebbero un atto folle.
Quindi alla fine, forse dimenticando un po’ troppo velocemente i mesi bui che ci lasciamo alle spalle, e probabilmente grazie al fatto che il mio presente non è stato stravolto dalla pandemia, emergo da questa quarantena con una speranza nel futuro che di sicuro prima non mi apparteneva, e soprattutto con la voglia di fare davvero parte di questo futuro.