A causare la deflagrazione, un deposito di 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio dimenticato da oltre sei anni
Una apocalisse senza precedenti, quella che ha sconvolto Beirut. Una esplosione di una violenza tale da essere avvertita anche a Cipro e da essere paragonata da un piangente governatore della capitale libanese, Marwan Abboud, ad “Hiroshima e Nagasaki”. La Croce Rossa parla di pericolose tossine liberate nell’aria e di 100 morti e 400 feriti. Ma sono numeri destinati ad aumentare man mano che si scaverà tra le macerie. Secondo le fonti ufficiali del Governo libanese, non si sarebbe trattato di un attentato ma, con tutta probabilità, di un incidente causato da una nave che trasportava fuochi d’artificio esplosa, per cause ancora da accertare, in prossimità di un deposito che conteneva 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio, un composto chimico che viene solitamente utilizzato in quelle buste di “ghiaccio istantaneo” per anestetizzare le contratture degli atleti ma che è anche adoperato per realizzare esplosivi. I filmati amatoriali che girano in rete infatti, dimostrano che le esplosioni sono state due, una più contenuta, la seconda catastrofica. Solo Donald Trump, continua a twittare su un supposto atto di terrorismo “provocato da qualche tipo di bomba”, ma sappiamo come il presidente Usa in questo momento sia in ambasce per la sua rielezione e disposto a dare spazio a qualsiasi fake news pur di alimentare paure e giustificare derive autoritarie.
Ma anche se non si tratta di un attentato, rimane pur sempre la responsabilità di chi ha autorizzato lo stoccaggio di un carico così pericoloso che, secondo il New York Times e la CNN, era stato sequestrato dalla polizia ad una nave mercantile e dimenticato per oltre sei anni in un magazzino a ridosso del porto.
Pure se, come sembra, non è stata una azione terroristica, l’esplosione di Beirut rischia comunque di mandare in frantumi gli ultimi equilibri che sostenevano quel fragilissimo mosaico che è l’antico Paese dei Cedri, che non ha ancora superato le devastazioni sociali della sanguinosa guerra civile, soffocato tra una Siria in guerra perenne e le inaccessibili frontiere con Israele che ne sorveglia anche le coste.
La pandemia ha dato il colpo di grazia ad una economia che comunque era già moribonda, e che si trascinava aggrappandosi ad una moneta nazionale che vale quanto il dollaro dello Zimbabwe. Oggi, oltre metà della popolazione di questa che – prima della guerra civile e dell’invasione israeliane – era la “Svizzera del Medio Oriente”, vive ben oltre sotto la soglia di povertà, senza ammortizzatori sociali, accesso alla sanità e all’istruzione. Per non parlare dei profughi, palestinesi da oriente e siriani da occidente che non sono nemmeno contemplati una questa classifica della miseria.
Quanti sono i rifugiati siriani che vivono nei campi della valle della Bekaa o lavorano in nero, anzi scriviamolo pure, che lavorano come schiavi nei cantieri edili di Beirut o di Sidone? Almeno 5 milioni. Forse 6. Forse anche di più, secondo le stime della Croce Rossa internazionale. Impossibile essere più precisi. Quattro anni fa, per “risolvere” il problema della loro presenza, il Governo Libanese ha formalmente vietato agli operatori dell’Unhcr di censire i profughi che si accalcavano alla frontiera. Per il Libano questi disperati non esistono e, di conseguenza, lo Stato non si deve curare di loro!
Poi ci sono i palestinesi. Profughi che potremmo definire “storici” in quanto presenti nel territorio sin dall’insediamento dello Stato di Israele. Quelli registrati sono 422mila e sono i più fortunati perché hanno la possibilità di accedere ad alcuni servizi sanitari e scolastici messi a disposizione dall’Onu. Servizi che comunque sono stati notevolmente ridimensionati dalla crisi economica. Ma, ancora oggi, a queste persone, così come ai loro figli e nipoti, non è consentito possedere un’auto o regolarizzare un contratto di lavoro. Non sono libanesi né possono aspirare a diventarlo. Agli altri, che sono arrivati dopo il conflitto del ’67, le cosa vanno decisamente peggio. Lo Stato libanese, non ha concesso loro nessun riconoscimento ed ha impedito all’Onu di fare altrettanto. Vivono accampati in campi fatiscenti che, di tanto in tanto, Israele piglia pure a cannonate. Intere generazioni senza pace e senza futuro, abbandonate dal mondo. Intere generazioni la cui unica risposta ai loro bisogni è stata quella che gli da confezionato l’integralismo islamico.
A tenere incollato questo assurdo mosaico, un Governo centrale costituzionalmente ingessato dal terrore di infrangere gli equilibri “etnici” presenti sul territorio. Il Presidente della repubblica deve per legge essere un cristiano maronita, il primo ministro sunnita e il presidente sciita. In questo modo, tra un veto incrociato ed un altro, governare diventa praticamente impossibile. Anche la democrazia elettiva si è uniformata a queste categorie e, di conseguenza, tutti i partiti sono a base “etnica”. C’è il partito degli hezbollah, votato agli sciiti, quello sunnita per i sunniti e quello dei falangisti – anche se adesso si chiamano Free Patriotic Movement ma rimangono comunque quei fascisti che erano prima – votatissimo dai cristiani maroniti. Ma ci sono anche partiti drusi per i drusi ed armeni per gli armeni.
Ma questa non è democrazia. Maronite o druse, sciite o sunnite, queste formazioni politiche che puntano esclusivamente sul nazionalismo e su una supposta superiorità “etnica” di una parte della popolazione sono fondamentalmente malate di destra. Ed un fascista mussulmano non è poi così diverso da un fascista maronita.
Faccio notare che scrivo il termine “etnia” e i suoi derivati sempre tra virgolette perché “etnia” significa “razza” e la razza, come sappiamo, non esiste. Meglio sarebbe scrivere di cultura o di appartenenza, ma in Libano nessuno si sente libanese. I maroniti sono convinti di discendere direttamente dai fenici e trattano i mussulmani come invasori. I mussulmani vedono nei cristiani i discendenti di quella Roma degli Imperatori che ha rubato loro la terra. Una assurdità storica ed anche genetica che comunque si respira in ogni quartiere, separato dagli altri quartieri da muri invisibili ma comunque reali.
A Beirut, così come nella altre città libanesi, sai sempre dove sei. Grandi capitelli di San Marone con la faccia truce, segnano i territori cristiani dove ragazze in jeans e con i capelli al vento passeggiano sotto enormi poster di militari stragisti, sorridenti, impuniti e celebrati come eroi. Qualche casa più in là, sventolano le bandiere gialle e verdi di Hezbollah. Camionette cariche di irregolari col mitra in mano pattugliano la strade dove le donne portano il velo integrale. E ancora, preti armeni ortodossi, guardano con sospetto i preti armeni cattolici, cambiando marciapiede se gli capita di incrociarsi, nelle strade del quartiere armeno di Borj Hammoud. Al di là del ponte di Yerevan, le immagini dei martiri di dio appiccicate sui muri e le scuole coraniche ti raccontano che sei entrato nel quartiere sunnita.
Sono stato in Libano due anni fa, per documentare lo svolgimento delle elezioni e qui ho conosciuto Joumana Haddad, poetessa e scrittrice. In Italia i suoi libri come “Ho ucciso Shahrazad. Confessioni di una donna araba arrabbiata” e “Non ho peccato abbastanza” sono editi da Mondadori. Si era presentata alle elezioni nelle file di Li Baladi, l’unica formazione trasversale alle religioni e alle appartenenze del Paese. Nessun richiamo al patriotismo o alla superiorità “etnica” nei suoi discorsi ma attenzione ai problemi veri: l’ambiente, la povertà, i profughi i cui diritti chiedeva fossero riconosciuti. Al conteggio, Joumana risultò l’unica eletta nelle file del suo partito. Poi il sistema computerizzato andò in crash. La commissione formata esponenti del Patriotic Movement e di Hezbollah cacciò dalla sala tutti i giornalisti. Quando fecero rientrare gli osservatori, le percentuali che lampeggiavano sugli schermi erano completamente diverse e Joumana risultò la prima dei non eletti. L’ho incontrato in una piazza di Beirut proprio la sera della sua mancata elezione mentre aiutava le altre attiviste ad arrotolava tristemente le bandiere di Li Baladi. Le ho chiesto come vedeva il futuro del Libano. “Questo Paese sta per esplodere” mi rispose con le lacrime agli occhi.