di Luca Cangianti
Rovine monumentali dal significato ormai indecifrabile, navi elfiche che gocciolano via dai Rifugi Oscuri, canti che alludono a eventi lontani. È un mondo che svanisce quello del Signore degli Anelli e ha ragione Wu Ming 4 a dire che l’«opera di Tolkien è pervasa da un senso d’ineluttabile perdita»1. Questa malinconia è il prezzo che paghiamo per aver fatto esperienza del male, per aver acquisito la coscienza di dover viaggiare e lottare per sempre.
L’avventura di Frodo è strutturata secondo l’archetipo del viaggio dell’eroe studiato da Campbell e Vogler2, ma con una variazione di struttura fondamentale: il protagonista, dopo aver conosciuto le meraviglie e gli orrori del mondo straordinario, non torna conciliato e arricchito nel mondo ordinario. Anche la Contea è stata contaminata: Frodo, Sam, Merry e Pipino sono quindi ulissianamente costretti a intraprendere un’ulteriore battaglia contro il regime estrattivista instaurato da Sharkey, alias Saruman, nella la loro terra. Dopo quest’ultima vittoria ci si aspetterebbe che Frodo possa esser accolto trionfalmente nel mondo ordinario così come vorrebbe il modello di Campbell e Vogler. Ma non è così: il viaggio di questo hobbit continua come quello dell’Ulisse dantesco e del Che. L’eroe non riesce a trovar pace e si rimette in cammino; la narrazione rimane aperta, slabbrata, alludendo a qualcosa di eccedente che pulsa al di fuori di essa e rifiuta di esserne compiutamente incluso. L’eroe torna, si rende conto di non poter terminare il compito rivoluzionario nella sua terra e sceglie di ripartire. La rivoluzione di Frodo non edifica un nuovo stato, non erige monumenti e non trasforma i guerriglieri in una casta di burocrati.
Frodo è «un personaggio irrisolto e in qualche modo avulso dal lieto fine»3 perché doppiamente ferito, sia in principio, in quanto orfano, che, in seguito, come vittima dei Cavalieri Neri. «Vi sono ferite che non guariscono mai del tutto!» afferma Gandalf; «Non esiste un vero ritorno» ribatte Frodo. «Anche tornato nella Contea, essa non mi parrà più la stessa, perché io sono cambiato. Sono stato ferito da pugnale, pungiglione, denti e da un gravoso fardello»4.
La ferita è dunque un elemento dinamico che all’inizio predispone l’eroe al viaggio e poi gli impedisce di potersi reintegrare nel mondo ordinario. Essa è inoltre un dono, anche se molti di noi ne farebbero volentieri a meno: dopo esser stato ferito dai Nazgûl i sensi di Frodo sono «più acuti, ed egli più conscio delle cose non visibili. Un segno che lo avvertì presto del cambiamento in lui, era il fatto che vedeva nel buio più dei suoi compagni, eccetto forse Gandalf»5.
Per il cristiano Tolkien il male, pur battuto, non sarebbe mai scomparso dal mondo6. Con la distruzione dell’Anello, Sauron è sconfitto, ma non muore. Egli perde la propria corporeità, ma nulla esclude che possa riacquistarla, come già accaduto in passato nel Bosco Atro. La resilienza del male allunga indefinitamente il viaggio dell’eroe. La ferita è la coscienza dell’eternità del male che il protagonista porta incisa nella propria carne. Chiunque abbia custodito l’Anello è destinato a non fermarsi: questo è vero non solo per Bilbo e per Frodo, ma anche per Sam. Il Signore degli Anelli si chiude infatti con un apparente sospiro di sollievo accompagnato dalle sue parole, «Sono tornato», ma poi veniamo a sapere dalle «Appendici» che, rimasto vedovo, egli sarebbe salpato dai Rifugi Oscuri per le Terre Imperiture7.
Durante un banchetto a Gran Burrone, Bilbo confessa a Frodo le sue riflessioni: «Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia»8. Frodo è un eroe inquieto perché arriva a comprendere e ad accettare che sia il viaggio sia la sua narrazione non possono concludersi mai del tutto. A Sam che gli chiede se «i grandi racconti» hanno una fine, risponde: «No, non terminano mai i racconti… Sono i personaggi che vengono e vanno, quando è terminata la loro parte»9. Le storie che si chiudono sono reazionarie. Per qualche tempo il male sgattaiola via disincarnato da Luigi XVI, dallo zar o da Hitler, ma poi finisce per reincarnarsi in Napoleone, in Stalin o magari in un politico qualsiasi eletto democraticamente. Se nei paraggi non ci sono delle piccole creature, ferite nell’animo e sensibili al richiamo dell’avventura, rischiamo di finire i nostri giorni a Mordor.