Le mobilitazioni di Black Lives Matter negli Stati Uniti, del Cile, del Libano e – ultime in ordine di tempo – della Bielorussia, hanno rotto la monotonia delle manifestazioni (organizzate, ma per lo più paventate) che invocano una fantomatica libertà di non credere al Covid-19 e che ultimamente hanno catturano l’attenzione dei media globali. Aggregati che tengono insieme chi ritiene che la tutela della salute pubblica non giustifichi un rallentamento dell’economia, complottisti e no vax della prima ora, sovranisti e razzisti convinti che la miglior medicina sia il pedigree della propria stirpe. Tutti sostenuti dai leader di riferimento, spesso attempati maschi bianchi che prima di venire contagiati (e pure dopo, visto che gli vengono garantite le migliori cure), accolgono con piglio giovanilista la pandemia, nuova “igiene del mondo”.
Questa composita (ma nemmeno troppo) galassia ha un comune denominatore: la difesa dell’individualismo proprietario di matrice capitalistica, un individualismo che nel tempo della crisi della globalizzazione ha riscoperto il legame dell’identità etnica come collante e che rappresenta invero la stampella principale della conservazione dello status quo: una società diseguale, patriarcale, razzializzata, atomizzata, anestetizzata rispetto alle istanze di cambiamento.
Uno spirito di conservazione che campeggia anche tra chi – con non meno virulenza – legge il virus solo come un problema di ordine sanitario, schiacciandolo su una normazione d’emergenza che apre il campo a una governance tecnocratica e individuandone la risposta unicamente nelle “norme” di distanziamento sociale, nei comportamenti individuali o, peggio ancora, negli stili di vita.
La sfida del Venice Climate Camp è quella di rovesciare questo ordine dicotomico del discorso e questa fenomenologia della crisi sanitaria vista come asettica e sganciata dalle contraddizioni che, nel tempo, hanno sedimentato il rapporto tra capitale, natura e vita.
La gestione emergenziale del Covid, con tutto il confusionario codazzo di decreti, non ha minimamente impattato in quello che si è da subito palesato come un fallimento epocale del neoliberismo di fronte a una pandemia, neppure tanto inattesa. Stiamo parlando della garanzia del diritto universale alla salute che, a otto mesi dal primo allarme lanciato dall’Oms, non sembra ancora rappresentare una priorità né per le istituzioni europee, né tantomeno per il governo italiano e le regioni. Non abbiamo assistito ad alcun investimento nelle infrastrutture sanitarie e di ricerca, ad alcun ripensamento sulle politiche di privatizzazione e neppure alla possibilità di avere una generalizzazione dei protocolli preventivi e un accesso di massa ai tamponi. Allo stesso tempo mancano i più elementari dispositivi di prevenzione in moltissimi luoghi di lavoro, veicolo di larga parte del contagio in questi mesi.
In questa fase, parlare della gravità della situazione sanitaria significa intenderla come terreno prioritario del conflitto politico e sociale. Non è con l’isolamento e l’attesa messianica del vaccino che si sconfigge il Covid-19 e si mitigano gli effetti sociali che questo sta producendo. È solo ribaltando gli attuali rapporti di forza che si può immaginare una modifica strutturale della sanità, trasformando realmente la salute in un “bene comune”.
Ma per fare questo c’è bisogno di tutta la corporeità dei movimenti, c’è anzitutto la necessità di garantirci e garantire la possibilità di incontrarci, organizzare assemblee, di rifiutare qualsiasi divieto legato a iniziative politiche, a partire dal Venice Climate Camp. E tutto questo non per un feticcio ideologico, ma per l’importanza cruciale che ha il conflitto in questo corso storico nel ribaltare tutte le condizioni che hanno prodotto la presente pandemia, a partire proprio dallo smantellamento della sanità pubblica che ha significato una vera e propria strage dei più deboli.
Ma andiamo con ordine. Lo abbiamo ripetuto più volte in questi mesi: il Covid-19 non è un castigo divino o un’opera del fato. La “liberazione” di nuovi virus e la loro velocità di circolazione sono fenomeni legati all’aggressività dell’estrattivismo capitalista (continuamente in cerca di terreni vergini da mettere a valore) e alla logistica che muove senza sosta merci e persone in nome del profitto di un gruppo sempre più ristretto di individui e dello sfruttamento di masse sempre più larghe di diseredati. Ma il neoliberismo (con le sue asimmetrie di razza, genere e specie) non è solo responsabile dell’aumento del rischio di pandemie, esso è anche il responsabile dello smantellamento della capacità di cura del sistema. Tradotto significa: una sanità privatizzata e classista non solo non è in grado di rispondere ad un’emergenza come quella attuale, ma ne rappresenta un’aggravante.
A sostegno di questa tesi potremmo portare vari esempi, a partire da quello che accade negli Stati Uniti, ma limitiamoci al nostro paese. Il “modello lombardo” (largamente seguito da molte altre regioni italiane) non ha retto perché le risorse pubbliche sono state stornate verso il privato. Ciò ha comportato il taglio dei posti letto e una destrutturazione della sanità territoriale, favorendo lo sviluppo di nosocomi di grandi dimensioni (incapaci di aderire alle differenti necessità sanitarie dei territori) che si sono dimostrati vere e proprie centrifughe del virus. È chiaro che questa è una critica all’impostazione sistemica, non alla generosità del personale medico-sanitario, in prima linea quando il virus pareva inarrestabile.
La vicenda delle RSA e la strage dei “nostri vecchi”, di anziani e malati (molti dei quali avevano perso l’autosufficienza fisica o la ragione, finendo così per non essere più considerati soggetti a pieno titolo) è una mostruosa manifestazione vicina (sebbene non sovrapponibile) a quella necropolitica che da anni caratterizza le politiche migratorie e rappresenta il più violento carattere razzializzante della nostra società, ma che ancora non avevamo visto applicata domesticamente, ovvero a cittadin* Italian* bianch*. È evidente che ci sono enormi differenze tra i due fenomeni, l’attuale sterminio dei migranti è pianificato e giustificato in termini di diritto per garantire la prosecuzione delle asimmetrie create dalla modernità coloniale. Lo stesso non si può dire delle nostre RSA, eppure questa vicenda mette in luce una razionalità politica che si è innanzitutto dispiegata come scelta su chi può e deve morire, piuttosto che come azione sul come si deve vivere (ovvero su come si deve essere curati, se pensiamo al tempo della pandemia).
A questa attitudine necropolitica non possiamo che rispondere con una nuova biopolitica della cura; cura di sé, della comunità, del mondo. A pochi giorni dal Venice Climate Camp stiamo assistendo anche in Italia a un nuovo aumento della curva dei contagi e questa situazione avvalora il fatto che l’evento deve essere svolto in una condizione di estrema sicurezza e agio, per tutti e tutte.
Mai come in questa fase conflitto e cura vanno intesi in maniera intrecciata e inestricabile. Non è possibile immaginarli separati e non è pensabile costruire questa simbiosi senza che ci siano luoghi fisici dove si discute, ci si organizza e si modella l’iniziativa politica. Consapevoli di questo, abbiamo accuratamente verificato se ci fossero le condizioni materiali per svolgere il Camp nell’area che avevamo individuato al Lido di Venezia nella piena salvaguardia della salute e del benessere collettivo.
Dopo un’attenta valutazione abbiamo deciso di spostarlo al centro sociale Rivolta (in via Fratelli Bandiera 45, a Porto Marghera), uno spazio attrezzato e completamente adatto a garantire tutti i dispositivi di protezione individuale e collettiva di cui ci doteremo. Salvaguardare il Venice Climate Camp e la sua comunità significa innanzitutto preservare uno snodo politico fondamentale per i movimenti sociali, un appuntamento concepito in primo luogo contro le condizioni che hanno comportato la diffusione del virus e contro quelle che ne hanno compromesso la cura.
Non c’è rivoluzione ecologica senza la fine dell’estrattivismo e senza una sanità che curi tutte e tutti, partendo dai soggetti più deboli, ma al tempo stesso non esistono oggi le possibilità di un lavoro politico radicale se non si rompe l’equazione salute collettiva=distanziamento sociale. La nostra equazione è differente, salute collettiva=cura comune. Cos’è la cura comune? Nel caso del camp è la capacità di una comunità temporanea di essere assieme in sicurezza, una capacità che matura non attraverso un dispositivo disciplinare, di auto-isolamento, ma attraverso l’applicazione di comportamenti e pratiche di convivenza non ispirate ad una logica individualistica, ma costruite in nome del comune.