Di Raffaele Varvara, ComeDonChisciotte.org
“Lo stiamo perdendo”. Si suol dire così in gergo clinico quando l’evoluzione sfavorevole della patologia, induce a pronosticare il peggio. Sta succedendo alla nostra conquista sociale più importante: il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Il nostro SSN può essere assimilato ad un paziente di 42 anni, che sta manifestando i primi segni e sintomi di una patologia definita “crisi di sostenibilità”.
Subito una premessa: si dovrebbero prendere le distanze dal termine “sostenibilità” (secondo l’interpretazione che ne danno la maggior parte degli economisti), troppo spesso confuso con compatibilità, definanziamento e razionalizzazione. La sostenibilità di un sistema complesso, come la sanità, è la sua capacità di mantenere un’omeostasi: riuscire a trovare un equilibrio che perduri nel tempo (1).
La “crisi di sostenibilità” del nostro paziente è uno stato di squilibrio tra il soddisfacimento dei bisogni di salute della popolazione e le risorse culturali e materiali che servono per garantire questo soddisfacimento.
La mancanza di risorse culturali è un cosiddetto fattore endogeno al nostro “paziente SSN” ovvero un problema tutto interno alla sanità, mentre la mancanza delle risorse materiali è un fattore esogeno ovvero determinato da agenti esterni. Il mix di questi fattori fa pensare ad una prognosi infausta. Per una anamnesi accurata, però, bisogna andare indietro fino al 1978: quel Natale, gli italiani trovarono sotto l’albero il Servizio Sanitario Nazionale (istituito il 23 dicembre con la famosa legge 833). Fino al giorno prima, le prestazioni sanitarie erano fornite dalle mutue, a seconda dell’occupazione del “mutuato”: gli operai, ricevevano cure diversificate rispetto agli impiegati e gli impiegati ricevevano una assistenza diversa rispetto ai quadri e ai dirigenti.
Per ben 30 anni dunque, dal ’48 al ’78, il diritto alla salute era stato correlato non al cittadino ma al lavoratore.
Il sistema mutualistico era regressivo rispetto all’ art. 32 della Costituzione. Così, il primo ministro donna della nostra storia repubblicana, Tina Anselmi, soppiantò il sistema mutualistico, generatore di diseguaglianze, in favore di un sistema pubblico e universalistico, tipico di uno Stato sociale.
Oggi, il nostro SSN è nuovamente regressivo rispetto alla complessità dei bisogni di cura che è impegnato a garantire, tant’è che i cittadini (compreso esperti e professionisti sanitari) hanno l’impressione di assistere ad una affannosa rincorsa del sistema sanitario all’evoluzione dei bisogni di salute della popolazione; gli attuali assetti culturali, organizzativi, strutturali e tecnologici del nostro SSN, infatti, non sono in grado di dare risposte ai nuovi ed emergenti bisogni di salute, determinati dai cambiamenti demografici, epidemiologici e antropologici in corso.
Un esempio? Il nostro SSN non contempla ancora una risposta strutturata a livello territoriale rispetto ai bisogni di non autosufficienza dei nostri nonni pluripatologici e fragili, mentre concentra la sua risposta prevalentemente (ancora e soltanto) alla fase acuta di malattina in ospedale.
La nostra sanità è la più grande invarianza del nostro Paese. Il mondo cambia, i bisogni di salute mutano rapidamente ma la cultura, i valori, il modo di essere professionisti, le prassi, le organizzazioni del lavoro, sono ferme ad una visione mutualistica e perciò anacronistica e regressiva perché vecchia di 40 anni.
Se il medico di medicina generale è ancora impiegato come il dottor Tersilli di Sordiana memoria, evidentemente risulterà inadeguato rispetto alla mole dei nuovi bisogni di cura dei pazienti contemporanei.
Stare fermi quando il mondo va avanti equivale ad andare indietro!
Il SSN produce ottimi risultati sulla salute dei singoli, ma inteso come sistema è paragonabile ad una scuola in cui gli alunni imparano a scrivere utilizzando calamaio e inchiostro; risultato?
L’alunno avrà imparato a scrivere correttamente ma con un metodo didattico anacronistico e fuori tempo rispetto all’evoluzione dei giorni nostri. Il sistema sanitario odierno è regressivo quanto una scuola di questo tipo!
Analizzati i fattori endogeni alla sanità, approfondiamo i fattori esogeni, la mancanza di risorse materiali. Il definanziamento progressivo, la decapitalizzazione del lavoro dei professionisti sanitari, le nuove diseguaglianze, le incapacità politiche gestionali: tutti quanti questi aspetti, hanno la stessa matrice causale. E per comprenderla, serve dotarsi di una lettura di sistema che consenta di collegare i problemi della nostra sanità pubblica, con i problemi a livello sistemico. Ciò che succede nelle nostre realtà di cura è il riflesso di un progetto politico più ampio, che riusciamo a cogliere allargando lo zoom sul nostro presente.
Una volta presa coscienza della natura profonda dei nostri problemi, pian piano tenteremo di ricostruire i passaggi politici che si sono susseguiti a partire dal 1992; cioè da quando, il Trattato di Maastricht e il D.Lgs 502, hanno mutato il volto della sanità italiana attraverso parole d’ordine imposte dalla classe dominante neoliberale: sussidiarietà, federalismo, autonomia fiscale, depoliticizzazione, efficienza e concorrenza.
Per iniziare a smascherare il vero significato politico di queste riforme, consideriamo il rapporto inevitabilmente conflittuale tra sanità pubblica (diritto alla salute) e Trattati Europei e analizziamo quelle parole chiave prima e dopo l’avvento dei Trattati, per capire come la classe dominante neoliberale, invadendo le nostre vite, ha forgiato il nostro modo di pensare ed operare.
Prima della firma dei Trattati, il principio di sussidiarietà o solidarietà veniva esercitato dallo Stato centrale per aiutare le regioni in difficoltà a diminuire le diseguaglianze e le sperequazioni. Dopo la firma dei Trattati, il principio di sussidiarietà viene esercitato da parte dello Stato per “aiutare” quelle regioni che non rientrano nei tetti di spesa (con tagli al personale e blocco delle assunzioni e turnover) a sostituire gli assessori alla sanità (scelti democraticamente) con un commissario “ad acta” cioè adatto… alle prescrizioni di austerità contenute nei Trattati.
L’opera di depoliticizzazione degli Stati sovrani nazionali, funziona sempre alla medesima maniera: quando uno Stato o una regione esce dai bilanci prescritti, arriva la mano tecnica a “salvarlo” e la tecnocrazia si sostituisce alla democrazia.
Il federalismo in sanità è stato possibile perché nei primi anni 2000 alla forte la spinta della Lega Nord aveva fatto eco l’ideologia dell’intera classe dirigente neoliberale, secondo la quale il nord doveva essere potenziato perché partner diretto dell’Unione Europea, mentre si rimaneva incuranti dell’arretratezza storica/politica e culturale del sud. Risultato: aumento delle diseguaglianze.
L’aumento delle differenze tra regioni è stato accentuato dall’autonomia fiscale. Le regioni si sono avvalse di questo strumento per rientrare negli standard dei costi per la sanità, quando gli standard, prima dei Trattati erano calcolati in base alla spesa storica (cioè quanto una regione aveva speso l’anno prima per rispondere ai bisogni di salute della propria comunità). Dal “Dopo firma” dei Trattati comunitari, essi vengono calcolati in base ai tetti di spesa massimi delle regioni più virtuose, più ricche.
Conseguenza: aumento delle tasse per i cittadini e contestuale aumento della disomogeneità tra regioni nell’offerta di salute.
Anche il parametro dell’efficienza del SSN si è trasformato. Prima dei trattati esso era un rapporto tra il prodotto ottenuto e le risorse impegnate. Dopo i Trattati e con l’avvento dell’euro, l’efficienza si è trasformata nella possibilità di far galleggiare il sistema col minimo degli investimenti possibili. Tanto più è efficiente il sistema, quanto più si riesce a definanziarlo. Il definanziamento del Fondo Sanitario Nazionale (FSN) iniziò dal 1992 con l’aziendalizzazione.
Anche se negli anni, il valore nominale dell’importo destinato al FSN è aumentato, di fatto rimane inferiore rispetto ai bisogni di salute… quindi se aumenta il valore nominale ma inferiormente ai bisogni e all’inflazione, si va contro la natura incrementale della spesa sanitaria e si ottiene un definanziamento progressivo.
L’avvento della stagione dell’austerità economica vera e propria (2012), portò per la prima volta alla diminuzione anche del valore nominale dell’importo della spesa sanitaria. Questo capolavoro fu eseguito dal governo guidato da Mario Monti, un personaggio che, soprattutto oggi, viene eletto dai grandi media quale salvatore della patria. Monti, pur sapendo che il nostro SSN spende molto meno di altri paesi in rapporto al PIL, decise per il taglio dei fondi destinati alla sanità, con la convinzione che ciò avrebbe dato una sforbiciata a sprechi e disservizi senza compromettere i valori fondanti del sistema (universalità e natura pubblica).
Il Covid19 ci ha dimostrato la fallacia di questa linea politica con la conseguenza che non solo gli sprechi sono rimasti, ma quelli che dovevano essere tagli chirurgici si sono rivelati colpi di mannaia sulle tutele garantite dallo Stato ai cittadini.
Forse, è anche per questo che Monti è appena stato chiamato a presiedere la commissione dell’Oms per le politiche sanitarie.
I parametri vitali del nostro SSN ovvero i numeri della Ragioneria Generale dello Stato ci dicono chiaramente che nel periodo 2010-2013 vi è stata una diminuzione della spesa sanitaria, passata da 113,131 a 109,614 miliardi di euro, a cui è seguita una ripresa dal 2013 raggiungendo i 112,5 miliardi nel 2016. Tra il 2015 al 2016 il tasso di incremento è stato dell’1,2%. Come percentuale rispetto al PIL si registra invece un calo costante a partire dal 2009 (2).
Attualmente i tre quarti della spesa sanitaria sono costituiti da spesa pubblica, mentre un terzo (35,2 miliardi di euro nel 2016) da spesa privata, la stragrande maggioranza di essa è out of pocket. Dal 2012 al 2015 si è registrato un incremento della spesa privata a carico delle famiglie del 2,9% medio annuo, per far fronte alle tutele pubbliche ormai assenti, anche per prestazioni essenziali come l’assistenza continua ai malati cronici sul territorio.
Quando parliamo di Sanità, il definanziamento progressivo va a braccetto con una sostanziale de-capitalizzazione del lavoro, considerato dagli esperti del MEF (non del ministero della salute!), un costo da tagliare e non una risorsa da preservare per la tutela della salute di tutti.
Le politiche di contenimento della spesa (tagli lineari, tetti di spesa, vincoli, commissariamenti), hanno prodotto dieci anni di blocco contrattuale con la conseguente perdita di potere d’acquisto quantificabile in -6.470 euro per i medici e -2.720 euro per gli infermieri, ovvero una contrazione del 9% .
Ma non si sono persi solo soldi; nel triennio 2012-2015 si è registrato un taglio significativo del personale dipendente: da 109 mila a 105 mila i medici; da 272 mila a 266 mila gli infermieri, il blocco del turn over e l’ abuso di lavoro precario somministrato attraverso forme di intermediazione (perlopiù tramite società cooperative).
Con un sistema pubblico perennemente definanziato, a crescere sono gli erogatori privati di salute. Ed ecco che la “concorrenza” inteso come valore che anima il mercato globale delle merci e dei capitali, adesso pervade anche il campo della salute. Il principio della libera concorrenza giustifica anche la possibilità del più forte di imporsi sul più debole. Ed è proprio quello che adesso succede nella nostra sanità: l’erogatore privato (il più forte) si impone sull’erogatore pubblico (il più debole).
Urge impostare una terapia con l’obiettivo terapeutico di salvare la natura pubblica e universalistica del sistema sanitario.
Dopo aver preso coscienza dei problemi, una volta compresi questi meccanismi, l’indignazione spontanea che si sarà generata in ciascuno di noi, deve incanalarsi in un progetto politico/culturale rivoluzionario collettivo che restituisca in toto il primato alla Costituzione, e quindi la sovranità politica, economica e monetaria all’Italia.
In seguito, potremo ricontestualizzare l’art. 32:
1. Bloccando i processi di dissoluzione della sanità pubblica, fermando le derive privatistiche del welfare aziendale, delle mutue sostitutive, del privato convenzionato, dell’intramoenia, delle agevolazioni fiscali ai sistemi privati;
2. Ridando allo Stato il pieno controllo esclusivo della Salute, abrogando la modifica del titolo V;
3. Dando risposte efficaci alle grandi questioni culturali come la questione medica e la questione infermieristica per risolvere la crescente regressione e l’eccessiva invarianza dei servizi.
Per concludere, i problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’autentica e divertente rivoluzione politico/culturale contemporanea. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati, vissuti sotto la tirannia del momento.
Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.
Di Raffaele Varvara, ComeDonChisciotte.org
28.08.2020
NOTE E BIBLIOGRAFIA
(1)= Cavicchi I. “La quarta riforma” disponibile al link: http://www.quotidianosanita.it/la_quarta_riforma.php
(2) = GIMBE 3° rapporto sulla sostenibilità del SSN. Disponibile al link http://www.rapportogimbe.it/
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- Finanziamento e struttura del Servizio Sanitario Nazionale – http://frontesovranista.it/finanziamento-e-struttura-del-servizio-sanitario-nazionale-documento-per-lassemblea-nazionale-del-fsi-9-giugno-2019/
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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org