È di ieri la notizia che l’antropologo e attivista David Graeber, di 59 anni, è venuto a mancare a Venezia. Autore, tra le altre opere, del volume Debito: I primi 5.000 anni, uno dei testi che più hanno ispirato il movimento Occupy, è stato attivo in molte cause, non ultima il sostegno alla lotta del Rojava. Per ricordarlo, traduciamo e pubblichiamo questo suo pezzo del 2014. Ciao David! Traduzione a cura di Emma Purgato.
Perché la logica di base dell’austerità è stata accettata da tutte e tutti?
Perché la solidarietà è vista come una piaga.
“Quello che non capisco è, perché le persone non scendono in strada a protestare?” Questo sento, di tanto in tanto, da persone che vengono da condizioni di ricchezza e potere. C’è una specie di incredulità. “Dopotutto,” sembra essere il sottotesto, “appena qualcuno prova a minacciare le nostre agevolazioni fiscali pare che ci stiano trucidando; se qualcuno attaccasse il mio accesso a cibo e alloggio, brucerei le banche e prenderei d’assalto il parlamento senza esitazione. Che problema hanno queste persone?”.
È una buona domanda. Viene da pensare che un governo che ha inflitto una tale sofferenza sulle persone che hanno meno risorse per resistere, senza nemmeno dare una svolta all’economia, dovrebbe essere a rischio di suicidio politico. Invece, la logica di base dell’austerità è stata accettata da quasi tutte e tutti. Perché? Come fanno politici che promettono continua sofferenza ad ottenere qualsiasi tacito consenso, se non addirittura il sostegno, dalla classe lavoratrice?
Credo che proprio l’incredulità con cui ho iniziato offra una parziale risposta. I lavoratori e le lavoratrici saranno, come ci viene continuamente ricordato, meno attenti per quanto riguarda questioni di diritto e correttezza rispetto ai “migliori”, ma allo stesso tempo sono molto meno egocentrici. Si prendono molta più cura dei loro amici, e delle loro famiglie e comunità. Nel complesso, perlomeno, sono fondamentalmente più gentili.
Questo sembra riflettere una legge sociologica universale, in qualche misura. I movimenti femministi hanno fatto notare da lungo tempo che chi sta alla base di qualsiasi organizzazione sociale iniqua tende a pensare, e quindi a preoccuparsi, per chi sta in cima, più di quanto chi sta in cima pensi o si preoccupi per loro. Ovunque, le donne tendono a pensare e a sapere di più delle vite degli uomini di quanto gli uomini sappiano delle donne, così come le persone nere sanno di più delle persone bianche, gli/le dipendenti dei datori e datrici di lavoro, e le persone povere delle persone ricche.
Ed essendo, in quanto esseri umani, creature empatiche, la conoscenza porta alla compassione. Nel frattempo, i/le ricche e potenti possono rimanere ignari e disinteressati, perché se lo possono permettere. Ciò è stato recentemente confermato da numerosi studi di psicologia: chi nasce in famiglie della classe lavoratrice ottiene invariabilmente punteggi più alti in test per misurare le emozioni degli altri, rispetto ai rampolli dei ricchi, o alla classe dirigente. In qualche modo questo non sorprende. Dopotutto, avere “potere” vuol dire soprattutto questo: non doversi preoccupare di quello che pensa e prova chi sta intorno. I potenti assumono chi lo fa per loro.
E chi assumono? Soprattutto figli della classe lavoratrice. Credo che tendiamo ad essere così accecati da un’ossessione per (o romanticizzazione di, oserei dire?) il lavoro di fabbrica come nostro paradigma del “vero lavoro”, che abbiamo dimenticato di cosa consiste veramente la maggior parte del lavoro umano.
Anche ai tempi di Karl Marx o Charles Dickens, nei quartieri operai vivevano molte più cameriere, lustrascarpe, netturbini, cuochi, infermiere, tassisti, insegnanti, prostitute e venditori ambulanti che operai di miniere, stabilimenti tessili o fonderie. Tanto più ai giorni nostri. Quelli che consideriamo come archetipi del lavoro femminile – prendersi cura delle persone, dei loro bisogni e desideri, spiegare, rassicurare, anticipare quello che il capo vuole o sta pensando, senza contare prendersi cura di, monitorare e mantenere piante, animali, macchine e altri oggetti – rappresentano una porzione molto maggiore di quello che i lavoratori e le lavoratrici fanno quando sono al lavoro rispetto a martellare, intagliare, sollevare o raccogliere.
Questo è vero non solo perché la maggioranza dei componenti della classe lavoratrice sono donne (dato che la maggioranza delle persone in generale sono donne), ma perché abbiamo una visione distorta anche di quello che fanno gli uomini. Come hanno dovuto recentemente spiegare a pendolari indignati, i lavoratori e le lavoratrici della metropolitana in sciopero, i controllori in realtà non passano la maggior parte del loro tempo a controllare i biglietti: passano gran parte del tempo a spiegare, aggiustare cose, trovare bambini smarriti, e prendersi cura di persone anziane, malate e confuse.
Pensandoci bene, non è praticamente questo ciò che comporta la vita? Gli esseri umani sono progetti di creazione reciproca. La maggior parte del lavoro che facciamo è l’uno sull’altro. La classe lavoratrice semplicemente ne fa una quantità sproporzionata. È la classe della cura, lo è sempre stata. È l’incessante demonizzazione dei poveri da parte di coloro che traggono beneficio dal loro lavoro di cura che rende difficile prenderne atto, in una tribuna pubblica come questa.
In quanto figlio di una famiglia working class, posso testimoniare che questo è ciò di cui andiamo veramente fieri. Ci ripetevano continuamente che il lavoro è una virtù in sé e per sé – forma il carattere o qualcosa del genere – ma nessuno ci credeva. La maggior parte di noi credeva che il lavoro andasse evitato, a meno che non portasse beneficio ad altri. Ma di quel tipo di lavoro, che fosse costruire ponti o svuotare vasi da notte, si poteva andare fieri. E c’era qualcos’altro di cui andavamo molto fieri: eravamo il tipo di persone che si prendevano cura le une delle altre. Questa è la differenza tra noi e i/le ricche, che, per quanto ci sembrava di capire, metà del tempo riuscivano a malapena a costringersi a prendersi cura dei propri figli e figlie.
C’è una ragione per cui la massima virtù della borghesia è la parsimonia, e quella della classe lavoratrice è la solidarietà. Eppure, è proprio questa la fune da cui è attualmente sospesa tale classe. C’è stato un tempo in cui prendersi cura della propria comunità poteva significare lottare proprio per la classe lavoratrice. A quei tempi parlavamo di “progresso sociale”. Oggi vediamo gli effetti di un’incessante guerra contro l’idea stessa di politiche e comunità della classe lavoratrice, che ha lasciato la maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori senza nessun modo di esprimere quella cura, se non verso astrazioni fabbricate: “i nostri nipoti”; “la nazione”; sia attraverso un patriottismo sciovinista o appelli al sacrificio collettivo.
Come risultato, tutto sta facendo retromarcia. Generazioni di manipolazione politica hanno infine trasformato quel senso di solidarietà in una piaga. La nostra cura viene usata contro di noi. E rimarrà così fino a che la sinistra, che dichiara di parlare per i lavoratori e le lavoratrici, inizierà a pensare seriamente e strategicamente a cosa rappresenta la maggior parte del lavoro e a quali aspetti di esso sono ritenuti virtuosi da chi lo fa.