Uscire dall’incaprettamento

Foto di Engin Akyurt da Pixabay

Un contributo di Bernardo Servegnini membro del Gruppo Tematico Economia&Decrescita 

L’incaprettamento è una tecnica usata dai mafiosi per uccidere le loro vittime. Il condannato viene collocato in posizione rannicchiata, viene legato ad una corda che passa intorno al collo e viene stretta intorno alle mani e ai piedi. In questo modo, il condannato è immobilizzato in una posizione molto scomoda, ma qualsiasi suo movimento produrrà una stretta maggiore intorno al collo. In pratica, più si muoverà, più si strozzerà da solo. E’ la stessa tecnica usata dal sistema capitalista nei confronti della società. In questo sistema siamo costretti a produrre sempre più per poter sopravvivere, ma più produciamo più ci condanniamo a morte attraverso la distruzione del pianeta e delle nostre relazioni sociali.

LE REGOLE DEL GIOCO

Negli ultimi duecento anni, con l’avvento della società industriale, i modelli socio-economici di riferimento sono sempre stati “produttivisti”. Lo è stato quello comunista, che proponeva una crescita continua per garantire la piena occupazione, ma soprattutto lo è stato quello capitalista, il modello che è oggi diffuso su tutto il pianeta e la cui stessa essenza è la produzione illimitata. Nel capitalismo, infatti, chi non cresce fallisce perché, se la produzione non viene continuamente aumentata, si finisce sopraffatti dalla concorrenza. La concorrenza dev’essere battuta ad ogni costo e con ogni mezzo, se si vuole restare in piedi: e così tutti sono tenuti a seguire il mantra della “competitività” -pensiamo a quante volte i politici ci ripetono questo termine. Ecco allora che, nel sistema capitalistico, la ricerca del benessere diventa una sfida di tutti contro tutti, con vincitori e sconfitti, in un clima di “mors tua vita mea” e di “si salvi chi può”. La solidarietà cessa di essere un valore e ciascuno è impegnato nello sforzo di superare l’altro per non soccombere. Ma se in epoche passate la società poteva anche prestarsi a questo gioco perverso, ignara delle sue conseguenze e illusa che nessuno potesse restare indietro, oggi il pianeta ci sta presentando il conto: più produciamo, più consumiamo le risorse del pianeta, che sono limitate e in fase di esaurimento. Non solo: più produciamo, più inquiniamo il pianeta compromettendo irrimediabilmente quelle poche risorse che ci restano. E il conto viene pagato dagli sconfitti, dagli esclusi, dai “non competitivi”, che aumentano sempre più man mano che la crisi aumenta, man mano che la corda intorno al collo si fa sempre più stretta.

Non è facile smettere di giocare a questo gioco, perché è un gioco che ci ha avviluppato come la corda degli incaprettati: ha avviluppato le nostre menti, prima di tutto. Ma ha avviluppato anche tutta l’impalcatura che tiene in piedi (sempre più faticosamente) la società. Nella dimensione privata, perché ogni singolo lavoratore ha bisogno che la produzione aumenti sempre più per mantenere il suo posto di lavoro (o per trovarlo, se non ce l’ha). Ma anche nella dimensione pubblica, perché lo Stato, che dovrebbe perseguire il benessere pubblico e la giustizia sociale, è anch’esso coinvolto in questo gioco: per poter garantire i servizi pubblici (sanità, scuole, pensioni, infrastrutture ecc…)  infatti lo Stato ha bisogno di soldi che ottiene tramite le tasse. Quindi, se la produzione cresce, lo Stato otterrà più soldi attraverso la tassazione del profitto, del lavoro e dei consumi. Al contrario, se la produzione diminuisce, arriveranno meno soldi allo Stato e quindi avremo meno sanità, meno scuole, meno pensioni, meno infrastrutture ecc… E’ per questo che i nostri politici sono così attenti al PIL, il prodotto interno lordo, che deve sempre crescere per scongiurare il collasso del sistema. 

I LIMITI NATURALI

Ma purtroppo, al crescere della produzione, al crescere del PIL, aumentano i problemi di sostenibilità ambientale e sociale. Questa è una verità incontrovertibile con la quale tutti noi siamo chiamati a fare i conti e che non possiamo far finta di non vedere. Qualcuno ha provato a dire, con grande successo mediatico, che è possibile continuare ad aumentare la produzione senza danneggiare il pianeta. Salvare capra e cavoli. Si sono inventati la formula “sviluppo sostenibile”,  per illudere la gente che fosse possibile salvare il produttivismo e contemporaneamente  l’ambiente. Ma nessuno scienziato ha mai provato che sia possibile disaccoppiare la crescita della produzione dalla crescita del degrado ambientale. E’ vero anzi il contrario come ha dimostrato lo studio “Decoupling debunked – Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability” pubblicato in lingua inglese l’8 Luglio 2019 dall’European Environmental Bureau la cui traduzione italiana col titolo “IL MITO DELLA CRESCITA VERDE” è stata curata dal Movimento per la Decrescita Felice ed è saricabile a questo indirizzo: https://www.decrescitafelice.it/2019/12/e-arrivato-il-momento-di-abbandonare-il-mito-della-crescita-verde-mdf-presenta-la-traduzione-italiana-di-decouplin-debunked/

Produrre sempre di più significa infatti trasformare continuamente il pianeta: incidere sulla litosfera (attraverso l’estrazione di minerali e combustibili), sull’idrosfera (attraverso le irrigazioni, gli scarichi industriali, la produzione di energia idroelettrica ecc…), sull’atmosfera (attraverso le emissioni) e soprattutto sulla biosfera, compromettendo la vita sulla Terra e costringendoci a continue rincorse per riparare i nostri danni. E non saranno le energie rinnovabili a salvarci, se le produrremo a ritmi superiori alle loro capacità di rinnovarsi. Non sarà il ri-ciclo ad aiutarci, se continueremo a immettere roba nel ciclo. 

LA PERVERSIONE CONSUMISTICA

La società produttivista, così ancorata alla logica dell’accumulazione del capitale e dell’aumento costante della produzione, ha generato il fenomeno del consumismo: consumare sempre di più è necessario per mantenere in piedi il sistema. Ed ecco allora che la pubblicità e il marketing ci bombardano ogni minuto della nostra vita, ecco che la moda vuole imporsi come nostro punto di riferimento, ecco che l’obsolescenza programmata ci costringe a ricomprare più volte gli stessi prodotti (che si rompono poco dopo l’acquisto), ed ecco che le aziende ci offrono finanziamenti per indurci a comprare a rate purchè compriamo sempre più. Indebitati e felici. E’ l’incaprettamento.

Dobbiamo convincerci che l’unico modo per fare pace con il nostro unico pianeta è smettere di aumentare la produzione e i consumi. Questa può apparire una brutta notizia. La buona notizia invece è che non abbiamo affatto bisogno di aumentarli. Possiamo vivere bene, anzi molto meglio, producendo e consumando molto meno. A patto però di cambiare radicalmente il sistema, perché, come dicevamo sopra, nel capitalismo aumentare la produzione è cosa necessaria mentre diminuirla è cosa tragica. Si tratta di aumentare la produzione di cose inutili e dannose, pur di produrre. E’ l’incaprettamento. 

LA POLITICA ATTUALE

Il consumismo ha pervaso le nostre coscienze al punto tale che oggi sembra impossibile anche solo pensare di poter uscire dalla società dei consumi. Di fatto il consumismo è la nostra nuova religione per cui proporre di uscire dalla società dei consumi è la più grande bestemmia, il più grave peccato. Non è un caso, infatti, che nessun partito politico, da destra a sinistra, si permette oggi di contrastare il consumismo.

Per la destra questa posizione è comprensibile perchè la destra è tradizionalmente impegnata nella difesa dellostatus quo e quindi degli interessi di quei pochi che accumulano capitale. E’ naturale quindi che questa parte politica tenda a minimizzare il problema ambientale. Fanno finta che non ci sia, come Trump o Bolsonaro, o non ne parlano proprio (avete mai sentito Salvini parlare di ambiente?).

Poi c’è la sinistra “moderata”, fatta di elettori che pensano (o fingono) di essere di sinistra mentre in realtà lavorano per la destra. E’ il caso del Partito Democratico americano, ad esempio, o del PD in Italia. Gente che non si sognerebbe mai di mettere in discussione il capitalismo e gli interessi dei grandi industriali e banchieri, che dal loro punto di vista sono necessari e anzi da ringraziare perché creano “posti di lavoro”. Per trovare una collocazione politica, a loro bastano due tweet contro l’omofobia o a favore dei “porti aperti” e si possono già spacciare per “compagni” o per partigiani, al punto da cantare Bella ciao con la mano sul petto. Sul tema ambientale sono quelli dello sviluppo sostenibile, del “green new deal” e di altre amenità create dal grande capitale per il grande capitale. Roba utile per riempirsi la bocca di parole vuote e per catturare qualche consenso. E i loro elettori sono quelli che pensano che sia sufficiente comprare l’auto ibrida e fare la spesa nei negozi alimentari “bio” per sistemare le cose mentre, come spegato anche in un recente numero de l’Internazionale, il consumo verde non può bastare ad affrontare l’emergenza ecologica e climatica ma sono necessarie misure politiche che vadano ad incidere sulle cause strutturali del cambiamento climatico.

Certamente le scelte individuali di riduzione dei consumi e di consumo etico sono scelte importanti e tutti siamo chiamati a farle. E’ ormai chiaro, però, che tali scelte, da sole, non potranno frenare la corsa verso l’innalzamento delle temperature, l’esaurimento delle risorse naturali e la perdita di biodiversità. Forse questi “elettori” non amano i grandi sconvolgimenti e a loro il capitalismo va più che bene. E questo forse perché non hanno ben presente che anche loro respirano l’aria che le piante purificano. O forse a tali elettori manca del tutto la consapevolezza che la situazione in cui ci troviamo è estremamente grave e che ciò che sta accadendo è un’emergenza senza precedenti.

Infine -e questa è la cosa più bizzarra- proporre l’uscita dal consumismo è una bestemmia anche per gran parte della sinistra “anticapitalista”, nonostante che sia proprio il consumismo ciò che permette al capitalismo di sopravvivere. Ti dicono: “non è giusto chiedere al povero operaio di non consumare. Poveraccio, già è sfruttato e malpagato, in più gli vuoi pure negare il piccolo paradiso dei consumi?” Non si avvedono che l’uscita dal consumismo significa contestualmente l’uscita dal capitalismo e che abbandonare il consumismo significa diminuire la produzione e quindi evitare a quell’operaio di essere sfruttato. Evitare alle classi povere nel mondo di essere vittime di un gioco al massacro, di un dissanguamento, di un furto globale ai loro danni. Pensano che uscire dal consumismo significhi tornare all’età della pietra: di fatto sono anch’essi adepti della religione del consumo, anch’essi traviati dalla quella logica produttivista che, a partire dalla rivoluzione industriale, ha fatto creder loro che il benessere stia nel consumo. Pensano, al pari dei capitalisti, che le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità consistano nella progressiva crescita della disponibilità di roba da consumare, e che uscire dal consumismo significhi dover rinunciare a qualcosa di vitale, quando invece è vero il contrario. 

BENI E MERCI

La sinistra anticapitalista, ma un po’ tutta l’opinione pubblica, dovrebbe riflettere bene sulla differenza che c’è tra “beni” e “merci”. Il consumismo, la crescita, il PIL, si riferiscono alle merci, non ai beni. Ma ci sono delle merci che non sono beni, e dei beni che non sono merci. Ad esempio, le sigarette sono merci, ma non si può dire che siano dei beni. Le armi sono merci, ma servono per uccidere, cioè l’esatto contrario del bene. Anche il cibo che si butta o l’energia che si spreca sono merci, ma non rappresentano un bene. D’altra parte, l’aria che respiriamo è un bene, preziosissimo, ma non è (ancora) una merce. Il tempo che dedichiamo ai nostri cari è un bene, ma non è una merce. Il lavoro delle casalinghe e di chiunque si occupi delle faccende domestiche è un servizio utile, ma non una merce. Tutte le cose frutto della autoproduzione sono beni, ma non merci. Non hanno valore monetario. Non fanno aumentare il PIL. Tutti concetti ben presenti a chi abbia letto almeno alcuni scritti di Maurizio Pallante, come ad esempio questo articolo: https://www.decrescitafelice.it/2016/06/beni-merci-cosi-difficile-capire/

Inoltre ci sono delle merci che, nonostante possano essere considerate dei beni, in realtà non lo sono per il semplice fatto che vengono prodotte in quantità eccessive. Pensiamo alle automobili: in Italia ci sono quasi quaranta milioni di automobili. Non è affatto il caso di produrne altre! Innanzitutto perché le automobili oggi in circolazione, nonostante l’obsolescenza programmata, possono funzionare per decenni. Ma soprattutto perché sarebbe molto meglio per tutti implementare il car sharing, il car pooling, il trasporto pubblico, riorganizzare la logistica sia per quanto riguarda i trasporti di merci (appunto) che per quanto riguarda il pendolarismo. Insomma, in una società più razionale non ci sarebbe bisogno di produrre altre automobili almeno da qui al 2030. Ma in una società capitalista, quale quella in cui ci troviamo, se smettessimo di produrre automobili milioni di lavoratori resterebbero disoccupati, avremmo famiglie sul lastrico a cui lo Stato dovrebbe provvedere con la cassa integrazione per pagare la quale sarebbe costretto a indebitarsi ancora di più e quindi ad aumentare le tasse a tutti gli italiani e a tagliare ulteriormente servizi pubblici fondamentali. Perché nel capitalismo, ridurre i consumi significa recessione, e recessione significa disgrazia per tutti. L’incaprettamento. Ecco perché non si può uscire dalla società dei consumi senza contestualmente uscire anche dal capitalismo. 

RIVOLUZIONE

Uscire dalla società dei consumi è indispensabile per salvare il pianeta e per garantire la giustizia sociale, ma ottenere questo cambiamento attraverso delle “riforme” progressive, attraverso i “piccoli passi”, rischia di essere controproducente. Per il principio dell’incaprettamento, ogni provvedimento teso a valorizzare i beni comuni e la giustizia sociale, se preso singolarmente, rischia di produrre un intoppo negli ingranaggi di un sistema che è programmato diversamente, e che è portato, per sua natura, a scaricare le proprie crisi sui più deboli; si andrebbe così a incrementare ancora di più la disuguaglianza sociale, ottenendo il risultato opposto a quella giustizia che cercavamo. Ecco perché la socialdemocrazia ha fallito! Ecco perché il liberismo si è imposto, necessariamente, come unico strumento in grado di far funzionare il sistema capitalista in tempi di vacche magre. Se vogliamo uscire dal capitalismo, se vogliamo ripristinare la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale, non possiamo affidarci alla socialdemocrazia, non possiamo affidarci al riformismo. Nessuno è mai riuscito a divincolarsi dall’incaprettamento un piede alla volta, una mano alla volta, ma si è liberato solo chi ha avuto a disposizione delle forbici per tagliare la corda. Ecco allora che bisogna avere il coraggio di impugnare le forbici e operare un taglio netto con questo sistema.

E’ necessario quindi prima di tutto cambiare la nostra mentalità, specialmente in relazione all’istinto dell’accumulazione personale, che è una perversione tanto dannosa per i singoli (come ci insegnano da millenni i maestri spirituali) quanto per la collettività (come ci mostrano i disastri prodotti dal capitalismo), perversione che tuttavia il sistema ha sollecitato e incentivato fino a sfociare nell’era del consumismo. 

La società nel suo insieme dovrà riconoscere nella sobrietà un valore condiviso. Questo cambio di prospettiva dovrà essere posto a fondamento dell’etica pubblica e a guida dei comportamenti individuali.  Solo questa trasformazione del senso civico e della sensibilità collettiva renderà possibile un’apertura alla sperimentazione di nuovi modelli rivoluzionari, cioè opposti al modello oggi dominante. Modelli che siano fondati sui principi della solidarietà, da contrapporre all’individualismo competitivo che sta alla base dell’attuale sistema e della sua degenerazione. E’ ora di cominciare a prenderci cura gli uni degli altri e del pianeta Terra, che è la casa di tutti.

LA CURA

Da più parti nel mondo, nelle forme più svariate e partendo da esperienze e sensibilità diverse, sta prendendo piede una filosofia comune che punta a realizzare un nuovo paradigma di società: la società della cura. Il principio della cura può essere un buon collante dei vari movimenti, un collante che può portare alla formazione di una forza politica nuova, unitaria e in grado di proporsi con credibilità nelle istituzioni ai vari livelli, dal locale al globale. 

In una società della cura, ogni territorio, ogni comunità, dovrà essere libera di elaborare le proprie specifiche soluzioni, che saranno necessariamente diverse, essendo diversi i sostrati ambientali e territoriali  ed essendo diverse le culture, ognuna con la propria storia e le proprie caratteristiche. Ma perché si verifichi il cambiamento, sempre più comunità dovranno condividere alcuni principi che riguardano la sostenibilità ambientale e la solidarietà sociale. Insomma, i principi della cura. Eccone alcuni:

1 La produzione pianificata, in modo da produrre solo beni e servizi utili e non merci inutili, superflue o dannose. 

2 La democrazia reale, intesa come costruzione collettiva delle decisioni.

3 L’autonomia politica locale, sulla base di principi condivisi a livello generale e della sussidiarietà interregionale.

4 La piena occupazione ottenuta attraverso la distribuzione del lavoro in maniera equa e proporzionata alle capacità di ognuno.

5 Il riconoscimento del lavoro come opera di cura verso la collettività e non come strumento di profitto personale. 

6 L’eliminazione della speculazione finanziaria.

7 La solidarietà inter-generazionale e verso le generazioni future.

8 Il riconoscimento  e il rispetto dei diritti civili individuali e collettivi.

9 Il ripudio di ogni forma di violenza privata e pubblica.

10  La valorizzazione e condivisione dei beni comuni, che sono il vero collante della comunità.

 

Questi sono alcuni principi che, secondo il paradigma della cura, sarà necessario introdurre nella società. Per mettere in atto questi cambiamenti c’è bisogno di una vera e propria rivoluzione, ma questa rivoluzione può solo essere condivisa. Non possiamo delegare il lavoro ad un gruppo elitario di “carbonari”, o di “patrioti”, che magicamente risolvano i nostri problemi; dobbiamo comprendere il diritto-dovere di ciascuno di noi a partecipare a questo cambiamento, che altrimenti non si potrà realizzare. Ma prima ancora dobbiamo metterci d’accordo su ciò che vogliamo: se vogliamo un mondo sano sarà necessaria la decrescita della produzione e del consumo di merci. Se vogliamo una società armoniosa sarà necessaria la socializzazione del lavoro e la condivisione del benessere. Se invece vogliamo morire incaprettati, ci basterà seguire l’antico motto: produci, consuma, crepa.

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(*) Gruppo Tematico Economia & Decrescita MDF

Il Gruppo Tematico è nato nel giugno 2015 allo scopo di affrontare il rapporto tra Decrescita ed Economia in modo sistematico, sia a livello microeconomico (proposte economiche in ambiti specifici) che a livello macroeconomico (definizione dei parametri che possono caratterizzare uno scenario economico con un impatto ecologico sostenibile).

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