di Gioacchino Toni
Sin dagli inizi degli anni Ottanta, David Cronenberg afferma di essersi reso conto durante la realizzazione dei suoi primi film di essere più interessato a quanto accade all’interno dell’individuo, mentalmente e fisicamente, rispetto a ciò che avviene al di fuori di esso ed è per tale motivo che, secondo il regista canadese, si può dire che nelle sue opere il mostro coincida con il corpo stesso.
La produzione cinematografica di Cronenberg è sicuramente influenzata dalla letteratura di William S. Burroughs e James G. Ballard, anche al di là dei film in cui si confronta direttamente con le loro opere. Dal primo scrittore il canadese sembrerebbe derivare “l’onirismo visionario” e la convinzione di un’umanità avviata a una vera e propria metamorfosi. Nei confronti di quest’ultima, così come Burroughs, anche Cronenberg pare essere al tempo stesso affascinato quanto spaventato.
Con Ballard, invece, il regista condivide un analogo allontanamento dalle etichette “di genere” della prima ora (scrittore di fantascienza l’inglese, autore di film horror il canadese) che conduce entrambi a ripiegare su un tipo di metamorfosi che riguarda lo spazio interiore dell’individuo, il corpo e la mente. Insomma, i demoni non vengono da fuori ma alloggiano e proliferano sotto la pelle e all’interno della mente, avendo non di rado a che fare con un processo di ibridazione tra essere umano e tecnologia capace di mettere in crisi ogni certezza identitaria e il confine stesso del corpo.
Spesso nella produzione cronenberghiana il diastro prende il via da qualche esperimento scientifico che determina negli esseri umani trasformazioni che questi non sono in grado di fronteggiare e quasi sempre nella cinematografia del candese le mutazioni dei personaggi non sono collocabili entro la netta distinzione hollywoodiana tra Bene e Male.
Nonostante il regista sia stato per comodità a lungo associato ai b-movie di genere horror, nelle sue opere vengono affrontate tematiche complesse che hanno a che fare con le facoltà percettive della mente, con l’identità, la sessualità e il rapporto dell’essere umano con i media e, più in generale, con la tecnologia e tutto ciò fa di Cronenberg uno degli autori che maggiormente hanno saputo mettere lo spettatore di fronte ai suoi demoni anticipando persino le riflessioni sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo proposte dalla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), tanto che la studiosa Claudia Attimonelli coglie nel titolo stesso della serie espliciti rimandi al finale di Videodrome (Id., 1983)1.
Diego Altobelli, nel suo recente volume Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemon Lab edizioni, 2020), propone un interessante viaggio attraverso i luoghi/non luoghi del regista della “nuova carne”, mostrando come i suoi film, pur distanti tra loro nel tempo e nella forma, siano legati da rimandi e connessioni su cui l’autore ha costruito una poetica di cui non si può che cogliere la sorprendente portata anticipatoria.
Ogni storia, nel cinema di David Cronenberg, è caratterizzata da un luogo che è sia narrativo sia figurativo, immaginifico o reale, proiezione dello sguardo o introspezione della psiche, e che diventa metafora della condizione umana, trappola scientifica, pura rappresentazione altra, immagine visionaria. Sono i luoghi, nel cinema di Cronenberg, a unire il suo discorso autoriale. Tratteggiano un percorso che lo spettatore è obbligato a percorrere per arrivare a comprenderlo. Tutto il cinema del regista canadese è caratterizzato dal rapporto luogo/azione/significato2.
Si tratta di spazi e luoghi particolari che possono condurre alla destrutturazione del rapporto personaggio-immagine nell’indistinguibilità tra realtà e immaginazione di Videodrome ed eXistenZ (Id., 1999), alla distruzione degli ambienti di Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) e Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), al caotico spazio mentale di La zona morta (The Dead Zone, 1983) e Spider (Id., 2002), ai rapporti tra corpo e mente di Inseparabili (Dead Ringers, 1988) o all’ibridazione con o attraverso le macchine di Crash (Id., 1996) e La mosca (The Fly, 1986), ai luoghi-allucinazioni de Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991) fino agli spazi orientali abitati da identità sessuali inquiete di M. Butterfly (Id., 1993) ecc.
I luoghi nel cinema del regista canadese sono spesso metafora di altro […]. Sono percezioni, proiezioni della mente. È uno dei modi con cui Cronenberg distrae, disorienta, altera la percezione dello spettatore. […] I luoghi in Cronenberg divengono alterazione del percepire il cinema […] un preciso strumento per catturare l’attenzione dello spettatore. In qualche modo, costringerlo a fidarsi3.
In questo la poetica cronenberghiana sembra davvero non molto distante da quella ballardiana dell’inner space che lo scrittore inglese deriva dalla convinzione che ciò che si è soliti chiamare realtà oggi coincida con l’immaginario creato dai media e che dunque ormai realtà e sogno siano indistinguibili4.
Pur attraversate da tematiche tra loro diverse, le opere di Cronemberg, sostiene Altobelli, sono contraddistinte da una comune importanza assegnata allo spazio. Se luogo e mente appaiono in continua mutazione dall’essere all’apparire, il corpo è invece, secondo lo studioso, il motore del racconto e dell’immagine. «Il cinema di Cronenberg è […] un organo a sé stante che genera continui impulsi percettivi allo stesso tempo visivi e narrativi. Luoghi del racconto sempre nuovi, mutevoli, pavimenti instabili che però si poggiano saldamente sull’unicum che è il discorso autoriale del regista. La sua idea di cinema.»5 È dunque di questi luoghi, di queste percezioni e mutazioni che tratta il libro Human Fly e lo fa proponendo sei itinerari che si dipanano lungo l’opera del canadese.
Il primo percorso – Da Toronto a Londra. La negazione dell’Io in Spider – prende il via con Stereo (Id., 1969), una storia ambientata nei locali asettici di un istituto di ricerca, uno spazio isolato dal mondo esterno abitato da individui alienati alla ricerca ossessiva di contatti fisici e intenti a portare avanti misteriose sperimentazioni scientifiche. Lo spazio geometrico e labirintico dell’ambientazione rimanda alla situazione mentale dei personaggi che vivono una condizione claustrofobica priva di sbocchi esterni.
Se gli esperimenti in questo film non conducono a vere e proprie alterazioni corporali, le cose cambiano con Crimes of the Future (Id., 1970), opera che, sin dal titolo, si riferisce a quelle perversioni, devianze e patologie che affliggono la popolazione maschile in un futuro distopico, e che hanno a che fare con malattie infettive e disturbi sessuali. Qua il regista non pare però intenzionato a muovere accuse nei confronti della società; ad interessarlo, sostiene Altobelli, è piuttosto il topos mente-corpo che caratterizza buona parte della sua produzione.
Si osserva il tentativo della mente di rimodellare il corpo e creare una specie di nuova rappresentazione dell’essere umano: una nuova razza, se così possiamo intenderla, che, pare suggerire il regista, dovrebbe nascere dai crimini che la vecchia generazione si porta dietro […]. È una mutazione dell’essere, più che dell’apparire, ma che non potrà (mai) avere un lieto fine. […] Cronenberg è distruttivo nel raccontare l’evoluzione della specie. Il sacrificio fa parte della prosecuzione del percorso6.
Per certi versi è come se la negazione dell’identità in cui versano gli uomini, dominati dalle loro perversioni, rimandasse alla negazione di un sguardo univoco dello spettatore, questione che torna prepotentemente nel film La zona morta, derivato da un soggetto di Stephen King. Qua, risvegliandosi dal coma procurato da un incidente stradale, il protagonista si trova improvvisamente in grado di percepire nella propria mente il passato e il futuro di tutti coloro che tocca. Ecco allora che strade, sentieri, luoghi di passaggio diventano allegorie del destino verso cui va incontro il protagonista.
Mai come in questo film David Cronenberg mette alla prova la percezione del racconto, lo modella, costituendone il corpo che lo ospita. Avviene nel film una mutazione continua di luoghi che “ospitano” il racconto, che a sua volta muta. È la rappresentazione del microcosmo canadese, alieno e allucinato, con la neve che si poggia sulle fredde architetture delle città che lo compongono e che fa da sfondo al primo vero “film letterario” del regista. È il primo momento nella filmografia di Cronenberg in cui agli shock visivi vengono preferiti quelli emotivi, giocando in modo ambivalente sia con il dramma che con il thriller.7
Si diceva dell’impossibilità per lo spettatore di un sguardo univoco su quanto viene mostrato da Cronenberg; se per buona parte della sua durata il film fornisce all’osservatore prove della veridicità dei poteri visionari del protagonista, sul finale viene introdotto un caso in cui la controprova manca e ciò non può che insinuare il dubbio di trovarsi di fronte a una percezione alterata. É così che il pubblico viene condotto all’interno di una “zona morta” della percezione.
L’incapacità dello spettatore di districarsi in questo mescolarsi di piani di realtà e onirismo visionario è decisamente evidente ne Il pasto nudo, film che, come sottolineato dallo stesso regista, non è un adattamento cinematografico di un’opera letteraria, quanto piuttosto un film su Burroughs stesso, sulla mutazione psichica e sulla pericolosità del creare. Qua, gli spazi in cui è ambientata la vicenda, così come i personaggi che li abitano, contribuiscono a suggerire stati di allucinazione.
Ogni luogo qui è un’interzona, un non luogo […]. La qualità onirica di una messa in scena così allusiva è un’estensione (evoluzione) delle allucinazioni percettive di Videodrome. […] Tra l’altro, ad aggravare questo senso di smarrimento, è la sensazione di trovarsi in un altro tempo. Il pasto nudo è di fatto un film in costume, un noir ambientato negli anni del post-proibizionismo americano […]. Si può quindi affermare che alla componente spaziale Cronenberg aggiunga anche un altro elemento di smarrimento che è quello temporale, in questo senso non lontano dal disorientamento che si prova, ad esempio, vedendo eXistenZ8.
Gli spazi urbani, così come gli interni, sembrano qua essere proiezioni della stessa mente di chi li abita. Il pasto nudo è un film che miscela l’universo cronenberghiano con la mente di Burroughs, è un’opera che, sostiene Altobelli, si presenta come «l’allucinata rappresentazione della parola (verbo) che si fa corpo (carne) […] alla ricerca di Annexia, meta del Creatore [che] esiste nella mente del protagonista. E a quella mente, ancora una volta, noi spettatori siamo costretti a credere e a fidarci, come in La zona morta»9.
Dalla Toronto di Stereo il primo percorso proposto dallo studioso conduce alle ambientazioni londinesi di Spider, film che si presenta come un’immersione psicotica nella mente del protagonista che, una volta dimesso dall’ospedale psichiatrico, si incammina dalla stazione ferroviaria lungo un meandro di strade attorniate da abitazioni che si ripetono sempre uguali, così come gli interni in cui si troverà ad abitare: tutto si ripete in maniera ossessiva agli occhi del personaggio, al pari dei suoi pensieri.
Cronenberg vuole rappresentare una condizione umana irrappresentabile: dall’interno (le stanze) invece che dall’esterno (le strade), privandosi della luce (l’illuminazione razionale) e basandosi su rebus insondabili. Per fare ciò Cronenberg rinuncia all’horror visionario e carnale per proporre quello psicologico privo di un corpo (forma), pur se interno al corpo stesso (la mente di Dennis). È il corpo di Dennis – Spider – Cleg a contenere i suoi ricordi […] Difficile (anche per noi) capire dove dirigersi con un protagonista che si muove stancamente nei sentieri dei ricordi che vede con altri occhi, ma che sono pur sempre i suoi10.
Altobelli individua nel film anche la rappresentazione meta filmica della poetica dell’autore: al pari di come proietta se stesso nel passato, il personaggio proietta i suoi pensieri sulla carta così come ne Il pasto nudo lo scrittore diviene parte del racconto che egli stesso scrive. In Spider, però, continua lo studioso, il parassita è l’uomo stesso che distorce e altera i ricordi per poter sopravvivere nella realtà esterna al proprio corpo.
Il secondo percorso – I rigurgiti di passato in A History of Violence – proposto da Altobelli prende il via da Scanners (Id., 1981), film ambientato all’interno di grandi e inquietanti strutture architettoniche che contribuiscono, insieme al resto degli scenari urbani, a creare un clima caotico e ostile ove il pericolo è dietro l’angolo e può manifestarsi all’improvviso. In un sovrapporsi di voci, visi, personaggi e luoghi si struttura la percezione di un altro sentire e di un altro vedere, questione che torna anche nel film La mosca, che riprende L’esperimento del dottor K (The Fly, 1956) di Kurt Neumann.
Qua Cronemberg mette in bocca al protagonista una frase che Altobelli indica come centrale: «Questa non è la storia di un uomo che sognava di essere una mosca, ma di una mosca che ha sognato di essere un uomo, e ora è sveglia». In maniera del tutto simile il fratello del protagonista di A History of Violence (2005) sul finale chiede a quest’ultimo: «Cosa hai sognato in questi anni? Hai sognato come Tom o come Joey?»11. In entrambi i casi, sottolinea lo studioso, il regista ci parla di un problema di percezione, di come il corpo sente se stesso.
In The Fly il laboratorio/appartamento del protagonista è mostrato come luogo caotico, ben lontano da quell’immagine di luoghi ordinati e asettici in cui si compiono gli esperimenti scientifici nei primissimi film del canadese. Oltre agli interni ed esterni urbani, l’altro luogo fondamentale ne La mosca è, ovviamente, il pod del teletrasporto nato dall’incontro tra organico e inorganico, tra tecnologia e “intuizione umana”.
Simile a un grande embrione con un cordone ombelicale, la cabina del teletrasporto, la cui forma ovoidale richiama alla mente il ricordo ancestrale della nascita, altro non è che la casa di appartenenza, il punto di partenza. In La mosca David Cronenberg elabora il concetto della metamorfosi attraverso una visione a fasi: la nascita, la vita e la morte; ovvero il pod, il laboratorio e la strada/ città. Sono tutti ambienti connessi tra loro che generano la mostruosità12.
Altobelli individua interessanti linee di continuità tra The Fly e A History of Violence: in entrambi i casi si è di fronte all’impossibilità dell’esistenza di due entità (mosca/uomo o doppia vita di uno stesso individuo). Da tale impossibilità deriva quella rottura che sfocia inesorabilmente nel mostruoso. Ed è proprio sul rapporto Io/doppio che si basa Inseparabili, film tratto dal romanzo omonimo di Bari Wood e Jack Geasland, basato sulla dualità, sull’impossibilità di due individui di condividere il corpo e, soprattutto, il pensiero. A essere mostruoso qua è il distacco dei corpi a cui sono stati condannati i due mentre la mente si ostina a mantenerli uniti.
Se nelle opere cronenberghiane il disastro è determinato da una serie di eventi che tentano di unire figure estranee, in questo caso il canadese sembra suggerire l’impossibilità dell’unione nella condizione umana. Anche la figura femminile che si insinua tra i due – «personaggio che fa passare lo spettatore dall’osservare l’uno al contemplare la trinità, attraverso il doppio (i due gemelli)»13 – non sfugge allo statuto del mostruoso; non a caso buona parte del film è ambientato nell’appartamento dei gemelli e in quello della donna, presentati come opposti e complementari, a metafora della compensazione che i due nuclei vanno cercando nel corso del racconto.
Partito da Scanners, il secondo itinerario proposto da Altobelli giunge così al film A History of Violence, opera derivata da una graphic novel del 1997 di Vince Locke (disegni) e John Wagner (testi). Di nuovo un film costruito su dualismi e scissioni ma stavolta non viene mostrato un corpo in corso di trasformazione: il corpo qua è già modificato. Ancora una volta il mostro si palesa dentro l’individuo; abita già il protagonista, seppure in forma latente. Altobelli individua nel film anche un atto di accusa nei confronti dell’american dream in quanto palesa come questo, per realizzarsi, richieda spargimento di sangue. In A History of Violence la sonnolenta provincia americana è il luogo in cui il protagonista si è rifugiato
per smantellare il proprio Io per proteggere un ipotetico Noi. È il frammento che difende il corpo. È il pezzo di puzzle che non vuole essere associato nell’immagine più grande. La chiave di lettura della pellicola non è, come per altri film di Cronenberg, la creazione di unicum mostruoso e vorace, ma il processo di deterioramento e distacco che quel mostro attua sulla comunità che l’ha generato (Ivi, p. 76.)).
[continua]