La lotta per la salute contro il lavoro capitalista: Il gruppo operaista di Porto Marghera nella pandemia del Covid-19

Dalle corsie degli ospedali alle fabbriche, dai magazzini della logistica ai mattatoi, la pandemia del Covid-19 ha evidenziato ed esacerbato uno stato di cose esistente da ben prima: la salute delle lavoratrici e dei lavoratori può essere messa a rischio dalla mera necessità di presentarsi sul posto di lavoro. Fin dall’inizio della pandemia, gli osservatori marxisti hanno sottolineato come la crisi sanitaria non possa essere compresa separatamente dal modo di produzione in cui le nostre vite sono inserite. Ciò non riguarda solo sistemi sanitari inadeguati, poiché anche lo stesso salto di specie del Sars-Cov-2 dagli animali agli esseri umani è legato al sistematico degrado ambientale in corso, frutto avvelenato dell’imperativo capitalista all’appropriazione di “risorse” naturali per proteggere i margini di profitto che muovono l’economia.

L’operaismo degli anni ’60 e ’70 non è ricordato per aver avuto molto da dire sulle lotte ambientali. Infatti, le analisi del gruppo operaista di Porto Marghera[1] non sono state più di tanto riprese o studiate in tempi recenti, nonostante avessero sviluppato un’originale teoria della nocività – intesa come danno sia alla salute umana che all’ambiente – come inerente al lavoro capitalista. A ciò ha probabilmente contribuito il fatto che i protagonisti di questa esperienza fossero operai e tecnici, piuttosto che “intellettuali a tempo pieno”, le cui riflessioni sono disperse in una miriade di volantini di fabbrica e articoli per Potere operaio, Lavoro zero e Controlavoro.

Il gruppo di Porto Marghera fu attivo tra la metà degli anni ’60 e il 1980 e cominciò a occuparsi di salute e ambiente a partire dal 1967 a causa degli alti livelli di rischio e tossicità che gli operai dovevano fronteggiare nelle fabbriche, prima fra tutte il Petrolchimico della Montedison. Questo caso di ambientalismo working class ha visto operai impiegati in industrie inquinanti denunciare il degrado ambientale, oltre la stessa salute dei lavoratori, da esse causate già in tempi non sospetti: “Per ogni chilometro quadrato di Mestre cadono, ogni mese, 10.000 chilogrammi di polvere prodotta dagli stabilimenti di Porto Marghera. La polvere è, naturalmente, accompagnata da gas il cui effetto tossico è da tutti riconosciuto. Il cancro polmonare, nelle popolazioni di Mestre e Venezia, raggiunge percentuali tra le più alte d’Italia” (Potere operaio, volantino di fabbrica, 28 novembre 1968).

Un personaggio chiave nella teorizzazione della nocività da parte del gruppo fu il tecnico del Petrolchimico Augusto Finzi. Nato nel 1941 in una famiglia ebrea di Venezia, Finzi spese parte della sua prima infanzia in un campo profughi in Svizzera per sfuggire all’olocausto, nel quale l’industria chimica tedesca – la più avanzata dell’epoca – ebbe un ruolo chiave e agghiacciante. Nel 1960, Finzi si diplomò all’Istituto Pacinotti di Mestre e cominciò subito dopo a lavorare in un reparto Cvm-Pvc del Petrolchimico. Scomparse nel 2003, morto prematuramente di cancro come molti suoi compagni di lavoro.

La concezione della nocività proposta dal gruppo di Porto Marghera era legata alla “strategia del rifiuto” operaista, il rifiuto del lavoro. In questa prospettiva, il lavoro capitalista è produzione di capitale e quindi riproduzione di una società di sfruttamento. La lotta di classe non è allora intesa come un’affermazione del lavoro in quanto valore positivo, ma come negazione. Scriveva Tronti: “Lotta operaia contro il lavoro, lotta dell’operaio contro sé stesso come lavoratore, rifiuto della forza-lavoro a farsi lavoro”. L’incontro tra la strategia del rifiuto e le durissime condizioni vissute in fabbrica dagli operai portò il gruppo all’intuizione centrale del lavoro capitalista come inerentemente nocivo:

Gli operai nelle fabbriche non vanno per fare le inchieste, ma perché ci sono costretti: il lavoro non è un modo di vivere ma l’obbligo di vendersi per vivere. Ed è lottando contro il lavoro, contro questa vendita forzata di sé stessi, che si scontrano con tutte le regole della società. Ed è lottando per lavorare di meno, per non morire più avvelenati dal lavoro, che lottano anche contro la nocività. Perché nocivo è alzarsi tutte le mattine per andare a lavorare, nocivo è seguire i ritmi, i modi della produzione, nocivo è fare i turni, nocivo è andarsene a casa con un salario che ti costringe il giorno dopo a tornare in fabbrica. (Assemblea autonoma, volantino di fabbrica, 26 febbraio 1973)

Una prima versione delle riflessioni del gruppo fu sistematizzata nella relazione “Contro la nocività”, presentata al Convegno operaio veneto del 1971 a Mestre. Il testo si apre così:

Affrontando il problema della nocività in fabbrica, bisogna subito distinguere una forma di nocività, quale è quella tradizionalmente intesa, legata all’ambiente di lavoro (sostanze tossiche, fumi, polveri, rumore, ecc.) da quella legata più ampiamente all’organizzazione capitalistica del lavoro. È indubbio che, in ultima analisi, è questo secondo tipo di nocività a incidere più profondamente sull’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ne fa un essere alienato, un pezzo della macchina produttivistica, staccato completamente dal fine del suo lavoro e soggetto all’usura continua che su di lui provoca un uso inumano della sua forza-lavoro, come è quello capitalistico, legato solo al profitto della classe dominante. (Comitato politico, 28 Febbraio 1971)

In questa prospettiva, una lotta per la salute che avesse come solo obiettivo la nocività tradizionale, come quella proposta dal sindacato attraverso commissioni bilaterali incaricate di riformare l’ambiente di lavoro, era considerata insufficiente perché suscettibile a essere incanalata verso le necessità di ristrutturazione capitalista senza intaccare il problema di fondo, ovvero la priorità della produzione di valore rispetto alla riproduzione della vita: “Nella fabbrica di tipo nuovo, accanto a una modesta riduzione dei tossici e quindi delle malattie professionali in senso classico, si avrà un forte aumento delle malattie psico-somatiche” (Ibidem). La riduzione del tempo di lavoro senza perdite di salario era la tattica proposta per trasformare la lotta per la sopravvivenza in fabbrica in una lotta per la liberazione dal lavoro capitalista.

Sulla scia tracciata da Raniero Panzieri, una critica della tecnologia capitalista era già nell’equazione. Macchinari più sicuri erano necessari, “Ma per avere questi impianti bisogna forse avere una nuova razza di ingegneri, che costruisca macchine non per distruggere la salute e per aumentare a dismisura il profitto (come gli ingegneri del Vajont) ma anche allo scopo di difendere chi lavora” (Potere operaio, volantino di fabbrica, 28 novembre 1968). Il gruppo, infatti, criticava la linea sindacale di chiedere più crescita – invece che riduzioni dell’orario di lavoro – per proteggere l’impiego, poiché gli investimenti necessari alla crescita si sarebbero tradotti in automazione e “il padrone si serve ancora dell’automazione in funzione antioperaia. L’introduzione delle nuove macchine e dei computer non porta agli operai una diminuzione dell’orario di lavoro, ma incrementa ancora una volta il profitto dei padroni” (Comitato operaio, volantino di fabbrica, 6 febbraio 1970). In tali circostanze, l’automazione non s’ha d’accelerare. Il gruppo adottò così un approccio antagonistico-trasformativo alla tecnologia capitalista che aggirava sia la posizione strumentalista, secondo cui la tecnologia capitalista sarebbe un mezzo neutrale immediatamente reindirizzabile verso fini anticapitalisti, sia il rigetto della tecnologia in quanto tale.

Nel corso degli anni ’70, l’esperienza pratica del Collettivo di lotta contro le produzioni nocive portò il gruppo ad affiancare a un discorso meramente quantitativo su “più soldi, meno lavoro” anche una riflessione qualitativa su “cosa, come e quanto produrre”. Quest’ultima era legata al concetto di “auto-valorizzazione proletaria”, intesa come costruzione di contropotere attraverso la produzione, riappropriazione e condivisione di valori d’uso per il soddisfacimento di bisogni collettivi, in opposizione al lavoro capitalista diretto alla produzione di valori di scambio per il mercato[2]. “È il conflitto (…) fra i valori d’uso inventati dalla fantasia e i cascami, le cosiddette merci, prodotti dal lavoro coatto” (Lavoro Zero, Dicembre 1977, p. 4). Il gruppo collegò l’auto-valorizzazione alla lotta contro la nocività, proponendo una lotta “per l’autogestione della salute (…e) provvedimenti socio-sanitari atti a migliorare gli ambienti di lavoro e di vita collettiva” (Lavoro Zero, Maggio 1979, p. 15).

Ma queste idee ci dicono qualcosa sulla crisi attuale?

Torniamo alla distinzione tra nocività “tradizionalmente intesa” come rischio immediato di danni alla salute e all’ambiente – che ribattezzo “nocività concreta” – e nocività indotta dall’organizzazione capitalista del lavoro – chiamata qui “nocività astratta”[3]. La nocività concreta è un fenomeno “transistorico”, esisteva cioè anche in modi di produzione precedenti al capitalismo (per esempio, le morti sul lavoro non mancavano di certo in epoca feudale). La nocività astratta è specificamente capitalista, è legata alla legge del valore, alle pressioni competitive del mercato sul processo lavorativo. Il dominio del mercato – di una logica intrinsecamente individualista e di breve termine cieca alla devastazione ambientale – è a sua volta fondato sulla separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, che li costringe a vendere la propria forza-lavoro in cambio del denaro necessario a procurarsi i mezzi di sussistenza. La nocività astratta è data dagli imperativi del mercato, dal fatto che, per vivere, i lavoratori debbano operare conformemente alla preservazione della profittabilità del proprio datore di lavoro, agendo in condizioni di rischio fisico e mentale di vario tipo nonostante i mezzi di prevenzione oggi materialmente disponibili.

Nel contesto pandemico, la nocività lavorativa concreta si manifesta nel rischio di contrarre il Covid-19 sul posto di lavoro, o sul tragitto per arrivarci, o da contatti che sono stati infettati lavorando. Tale rischio naturalmente esisteva anche nelle pandemie pre-capitaliste. In una società non-capitalista, però, il lavoro produce principalmente solo valori d’uso. La produzione non-capitalista può avvenire per costrizione da parte di un signore feudale che si impossessa di una porzione del prodotto ma anche – in linea di principio – sulla base di pianificazioni democratiche su quanto si debba produrre e a quali condizioni. La nocività astratta, la nocività capitalista, invece, si manifesta nel fatto che i lavoratori devono andare a lavorare non solo per produrre i valori d’uso necessari a garantire la riproduzione della specie ma anche perché la separazione dai mezzi di produzione li obbliga a lavorare in condizioni che garantiscano la competitività delle rispettive aziende. Anche durante una pandemia, ça va sans dire.

Nella società capitalista, i due tipi di nocività – concreta e astratta – sono strettamente interrelati. Sotto molti aspetti, la nocività concreta sulla salute umana è stata alleviata (ringraziamo le lotte per la salute) – come indicato dall’innalzamento dell’aspettativa media di vita. Tuttavia, la nocività astratta imposta dalle leggi del mercato fa sì che la nocività concreta persista – nella forma di rischi per la salute fisica e mentale in linea di principio evitabili nonché, ovviamente, in quella di un processo di degrado ambientale che non ha precedenti nella storia – mettendo la produzione di valore al di sopra della riproduzione della vita umana e non-umana sul pianeta. In altre parole, nel capitalismo, la nocività concreta è plasmata e mantenuta dalla nocività astratta. Nel caso della pandemia in corso, la nocività concreta di decine di milioni di contagi e centinaia di migliaia di morti è stata causata e plasmata – come si ricordava all’inizio – dalla nocività astratta del capitalismo.

Certo, l’obbligo di vendersi sul mercato del lavoro è mitigato dalla necessità sistemica di mantenere determinati livelli di riproduzione e consenso tra la forza-lavoro anche e soprattutto in tempi di crisi, necessità di cui si fa carico lo stato come capitalista collettivo tramite l’erogazione di servizi sanitari e sussidi di disoccupazione. Ma lo stato dipende dall’accumulazione di capitale per il proprio finanziamento, quindi tali misure sono subordinate alla conservazione del modo di produzione. In questa logica, i costi delle parziali tutele della salute e del reddito concesse alla classe lavoratrice in molti paesi saranno nel lungo termine scaricati sulla stessa attraverso ondate di austerità e ristrutturazioni proporzionali all’enorme magnitudine della crisi.

Inoltre, poiché nel capitalismo la riproduzione della classe lavoratrice dipende essa stessa dall’accumulazione di capitale tramite l’equazione tra lavoro capitalista e sussistenza, i lavoratori hanno bisogno di posti di lavoro e quindi di crescita economica eterna, a prescindere dalle conseguenze ambientali di quest’ultima. Come economisti e dirigenti ripetono incessantemente, la crescita economica è necessaria a proteggere e creare posti di lavoro. Il ricatto occupazionale è più evidente in casi di estrema nocività concreta, per esempio l’Ilva di Taranto, ma è in realtà una costante della società capitalista.

Se i lavoratori dipendono dalla stessa nocività del lavoro capitalista per vivere, come possono lottare contro di essa? La proposta iniziale del gruppo di Porto Marghera, in linea con l’operaismo dell’epoca, era una piattaforma radicalmente egualitaria per “più soldi, meno lavoro” volta a rompere il legame tra salario e produttività, gettando il capitalismo – così speravano – in una crisi terminale. Da qui discendeva la rivendicazione del “salario garantito per tutti”, simile alle odierne proposte radicali di un reddito universale. Come già detto, il gruppo aggiunse poi a questa piattaforma quantitativa un cruciale complemento qualitativo, che attraverso un approccio antagonista-trasformativo alla tecnologia capitalista mirava alla costruzione di un contropotere in grado di cambiare “cosa, come e quanto produrre”.

Oggi, questa doppia strategia potrebbe traslarsi in una piattaforma rivendicativa basata su redistribuzione radicale della ricchezza, riduzione dell’orario di lavoro e conversioni a linee di produzione più sostenibili e meno mercificate, come passi transizionali aspiranti al trascendimento del capitalismo e articolati con gli aspetti antirazzisti, femministi e antimperialisti della lotta. A questo scopo potrebbe essere utile immaginare – come già fanno diverse realtà tra cui il Climate Camp che si terrà proprio a Porto Marghera – una versione ambientalista del reddito universale (con una componente monetaria ma anche beni e servizi de-monetizzati), che si distingua dalla prospettiva accelerazionista nel senso che tale reddito sarebbe finanziato da una “decrescita equa” nel Nord Globale – ovvero una decrescita realizzata attraverso una radicale redistribuzione della ricchezza – piuttosto che attraverso un’intensificazione dell’automazione capitalista. In parallelo, anche il cosa e il come del produrre devono trasformarsi. Anche oggi, è un orizzonte “più valido cambiare i contenuti della produzione che appropriarsi dell’apparato produttivo” (Controlavoro, Gennaio 1980, p. 1) così com’è.


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