Maledetto denaro/Maledetto lavoro/Nel vostro lurido spettacolo non c’è decoro/I soldi in cambio della vita /Un prezzo troppo caro”,
cantano così la Furia bucando in pieno la relazione esistente tra l’assenza di scrupoli “in nome dello show business” e l’elevato numero di infortuni e decessi avvenuti durante l’allestimento di palcoscenici faraonici per concerti o spettacoli.
Un chiaro riferimento alla vicenda di Matteo Armellini, il rigger trentunenne schiacciato dal palco che avrebbe dovuto ospitare lo show di Laura Pausini al PalaCalafiore di Reggio Calabria nel 2012.
Parole che però, in un momento come questo, nei postumi della pandemia global di Covid-19 sono un chiaro rimando alla situazione in cui versano attualmente gran parte dei lavoratori del mondo dello showbusiness.
Il mondo dello spettacolo non è solo luci, palchi, musica: è logoramento di chi quelle luci e quei palchi monta, sposta, rimonta, e lo spettacolo è il lavoro, non lo svago. Lavoro? Senza contratto, rischi e fatica per un pugno di euro black and cash caricato l’ultimo baule, finito lo spettacolo, sempre che arrivino: la prima garanzia che manca è di essere pagati, quale che sia la forma. Ma il lavoro senza niente in cambio non si chiama schiavitù? E dove mettiamo tutto lo studio, la formazione e la preparazione che c’è dietro queste figure lavorative?
Lo spettacolo è il settore che ha subìto e subirà i contraccolpi più duri a seguito delle necessarie misure di contenimento dell’infezione da coronavirus, del cambio di comportamenti e abitudini sociali nonchè delle modalità di lavorare. La “ripartenza” ha coinvolto una ristretta minoranza delle maestranze e degli artisti: dalla fine del lockdown c’è chi ha potuto lavorare solo qualche giornata, c’è chi non ha ancora ri-iniziato e chi, soprattutto ancora, non ha ancora ricevuto le indennità di 600 euro, o hanno ricevuto dinieghi senza apparente motivazione.
Allo stesso modo quelli che sono considerati i grandi eventi, le grandi kermesse cinematografiche e musicali non hanno però subito una battuta d’arresto, non una parola è stata spesa, ad ora dalla Mostra del Cinema di Venezia, ad esempio, sulla precarissima situazione in cui versa una parte – appunto solo una parte – del mondo dello spettacolo. Non un accenno, figuriamoci un premio o un riconoscimento. Non un tappeto rosso.
È proprio per questo che ieri, 9 settembre 2020, è andato in scena il presidio dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, al Lido di Venezia, davanti alla Mostra del Cinema, per chiedere che un Leone d’Oro venga simbolicamente consegnato anche alle professioniste ed i professionisti dello spettacolo, in modo da mantenere alta l’attenzione sulle istanze che da mesi portano avanti dai loro territori.
Un’iniziativa che sfidato il diniego della Asl – quindi della Questura- con la scusa delle misure di contenimento del coronavirus, per continuare a dare voce ad un settore già poco tutelato e ancora più danneggiato dalla pandemia.
Un’anteprima di quella che poi è stato il vero appuntamento inerente al tema durante questa seconda edizione del Venice Climate Camp: l’assemblea nazionale delle maestranze che per tre ore serrate ha tenuto banco rispetto a come questa lotta si possa organizzare e ri-organizzare in tutte le sue svariate forme, autonomamente o in forma sindacale.
Il vero obiettivo però rimane quello di costruire una rete che sappia far fronte alle problematiche di frammentazione e gestione verticistica, la tensione è quella di viaggiare in sintonia creando uno strumento collettivo e funzionale alle lotte per il riconoscimento di tutti i diritti del lavoro di cui l’intero comparto spettacolo non gode.
La vera ripartenza non è uno spettacolo e non potrà esserlo a fronte di chi da cinque mesi si vede negata la possibilità di lavorare: “tutti i facchini, scaff, tecnici e maestranze dello spettacolo, camerieri di catering”, e con loro tutto il personale ritenuto “superfluo” nelle Produzioni ridotte all’osso, non solo non possono appunto lavorare, ma continuano a non avere tutele; “Senza sicurezza, senza diritti, senza un tetto orario, spesso senza contratto, a volte senza la certezza di tornare a casa”.