La Cina è tornata vicina, ma non la si vede…

di Nico Maccentelli

Ritorno alla sinistra. Politica di classe e immaginazione comunista nell’alleanza operai-studenti – di Pun Ngai, sul web: China Files, Reports from China

Questo breve saggio della sociologa Pun Ngai(1) sulle lotte operaie  alla Jasic Technology di Shenzhen nell’estate del 2018 e che potete leggere qui, è uno spaccato delle condizioni operaie cinesi, che definire brutali è un eufemismo. Ma è anche un’analisi della resistenza operaia e dell’unificazione tra movimento operaio e quello studentesco sotto l’egida di una ripresa del marxismo e del maoismo. In tempi di pessimo marxismo nostrano, in cui ciò che si è voluto tenere è un nostalgico peggio, un razzolare nelle macerie del socialismo reale senza voler analizzare seriamente ciò che non ha funzionato, le degenerazioni burocratiche, dando chiavi di lettura astratte e stravaganti dell’integrazione della Cina “comunista” ai processi di accumulazione e produzione del capitalismo mondiale, il contributo di questa sociologa di Hong Kong è piuttosto eloquente e illuminante: getta luce su una situazione sociale, quella cinese, di cui si sa e si vuole sapere molto poco. E sulla quale molte forze comuniste si accontentano delle versioni ufficiali dei ceti dirigenti di Pechino.

Pun Ngai descrive una situazione di fabbrica alla Jasic Technology che è comune a tutte le zone speciali in Cina:

“Gli operai devono lavorare dodici ore al giorno, senza un giorno di riposo e senza pause a eccezione dei pasti e del sonno. Persino quando andiamo in bagno siamo sotto la stretta sorveglianza degli uomini della sicurezza. Inoltre la ditta obbliga gli operai a sprecare il proprio giorno di riposo alla fine del mese in escursioni organizzate, al termine delle quali devono tornare al lavoro.”

Ma descrive anche le lotte operaie per poter migliorare le condizioni di lavoro, i tentativi di avere un sindacato, la discesa in campo degli studenti, i gruppi di studio marxisti e il forte retroterra politico e culturale maoista ancora ben presente nella società cinese. E di contro la repressione spietata della polizia con arresti, pestaggi.

“Sempre più società di studio del marxismo (makesizhuyi xuehui 马克思主义学会) e gruppi di studenti di sinistra provenienti da università di tutto il Paese affluirono a Shenzhen, chiedendo il rilascio degli operai. Con manifestazioni di strada, comizi e canti dell’Internazionale, catturarono l’attenzione di numerosi media stranieri.”

La Pun Ngai poi articola la sua analisi, di cui menziono questo passaggio eloquente sulla ripresa del maoismo in Cina:

“Il processo di politicizzazione del movimento dei lavoratori durante la lotta alla Jasic ha riattivato e conferito nuova sostanza alla teoria marxista e al pensiero di Mao. Per la prima volta si è levata forte e chiara una voce per l’avvenire della rivoluzione comunista. All’interno del triplice ritorno di cui sopra, il ritorno alla politica di classe è il nodo più fondamentale delle lotte operaie nell’era della riforma e apertura. Secondo gli attivisti di sinistra che operavano alla Jasic, compresi operai e studenti, tutta la storia dell’umanità è storia di lotta di classe. Pur costituendo la forma politica più importante della transizione socialista in Cina all’epoca di Mao, la politica di classe è stata abbandonata con la condanna, seguita alle riforme, della Rivoluzione culturale e della linea politica di Mao. La politica di riforma e apertura simboleggia l’ingresso della Cina nel capitalismo globale, con la trasformazione dei rapporti di produzione e di riproduzione e l’abbandono dei binari storici del socialismo. Dopo quarant’anni di riforme, la Cina è divenuta la “fabbrica del mondo”, con oltre 280 milioni di lavoratori migranti dalle campagne alle città, 90 milioni di operai licenziati dalle aziende statali e milioni di laureati universitari che ogni anno entrano a far parte della massa dei nuovi operai. Per “fabbrica del mondo” non si intende soltanto l’enorme capacità produttiva della Cina nell’ambito della produzione mondiale, ma anche la cristallizzazione del processo attraverso cui il capitalismo globale, mediante la riproduzione allargata, ha convogliato le vite sociali dei Paesi non capitalisti all’interno della globalizzazione.”

Un abisso rispetto alle narrazioni dei comunisti nostrani, quelle che ormai considero un meta-pippone propagandistico, quindi occasionale e opportunistico, sulle “magnifiche capacità economiche” della “Cina socialista”. La questione riguarda la Cina, ma anche il socialismo reale sovietico in una totale cesura con quelle posizioni rivoluzionarie che dalla seconda metà del secolo scorso avevano operato una rottura con i limiti e le degenerazioni di tali esperienze. Un bel modo di rifondare.

Visto che poco o nulla si muove dalle nostre parti e la vulgata dei “vincitori di fine secolo” sulle “perfidie del comunismo” si afferma tranquillamente in ogni interstizio sociale e culturale, ho iniziato a riconsiderare le esperienze del movimento comunista internazionale del secolo scorso. Per prima cosa ho pensato che Che Guevara non vada lasciato solo sulle magliette, dato che ritengo il guevarismo ancora oggi una guida per l’azione politica. In un intervento sul mio blog, dal titolo: “Elogio del guevarismo” (che potete leggere qui), ho avuto modo di enucleare ciò che ancora di attuale c’è nella somma di esperienze politico-rivoluzionarie collocabili nel guevarismo: capostipite quella colonna guerrigliera che diede l’assalto alla caserma Moncada nel 1953 e con il Movimiento 26 de Julio, che diede vita con Cuba (a fare da centro internazionalista) a quella grande stagione degli anni ’60 e ’70 di lotte di liberazione antimperialiste nel Terzo Mondo. Ma anche diede l’avvio alle sinistre rivoluzionarie che caratterizzarono alti livello di scontro con il potere borghese sin dentro le metropoli imperialiste. In  specifico, ho evidenziato i quattro punti essenziali di rottura del guevarismo con l’ortodossia marxista sovietica: il superamento delle politiche eterodirette da Mosca dei vari partiti comunisti, il rilancio di un percorso rivoluzionario nei paesi dove vi fossero le condizioni, la visione internazionalista oltre “il socialismo in un solo paese”, che aveva permeato la politica sovietica anche dopo la destalinizzazione, oltre i tatticismi dei comunisti a vantaggio della politica estera della superpotenza socialista e last but not least, essere la genesi delle sinistre rivoluzionarie dal Terzo mondo all’Occidente. Sono elementi politici e strategici collegati tra loro e non se ne dà uno senza gli altri.

L’altra questione rimasta in sospeso tra macerie e orfanelli nostalgici è il maoismo. Riprendere anche l’impianto politico e metodologico di Mao Tse Tung sembra sia più facile per i comunisti rivoluzionari cinesi che regolarmente vengono sbattuti in galera e costretti ad abiure da burocrati borghesi camuffati da comunisti. Da noi tutto è lasciato a qualche gruppetto dogmatico che si fregia del titolo “il partito”. Dell’esperienza maoista già ne avevo accennato nell’articolo sopra citato, dandole il giusto valore non solo storico, ma anche e soprattutto politico. Per altro in Asia ha dato e continua a dare vita a esperienze rivoluzionarie differenti dal guevarismo, piuttosto rilevanti come in India, Nepal (al governo c’è il Partito Comunista del Nepal), in generale in Indocina… anche se non sempre positive (si pensi al polpottismo). In definitiva il maoismo riveste anch’esso un’attualità che in Occidente neppure possiamo immaginarci.

Io mi limito ad alcune considerazioni preliminari, senza ripetere l’ottima analisi della sociologa di Hong Kong (3).

Oggi all’interno delle compagini comuniste di vario tipo, si sentono argomentazioni sulla Cina come “socialista”, esaltandone le capacità pianificatorie. Bisogna capire da che premesse si sviluppano e caratterizzano queste “capacità”. Da quali rapporti di classe partono. E allora bisogna dirlo forte e chiaro che la democrazia sovietica non c’era più nell’URSS, così come quella cinese è finita con la morte di Mao. Questi sono alcuni aspetti su cui non si sono mai fatti veramente i conti.

E qui apro un inciso doveroso: quando parlo di democrazia, non mi riferisco certo alla democrazia borghese parlamentare. Direi che le argomentazioni di Lenin sulla posizione di Kautsky in merito siano ancora piuttosto attuali e dirimenti la questione da un punto di vista comunista. Non piacerà il termine, ma quando i comunisti parlano di democrazia sovietica, o per dirla all’italiana, dei consigli, si riferiscono alla dittatura del proletariato, ossia citando Lenin:“…dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro altre classi, ma significa obbligatoriamente soppressione (o forte limitazione, che è anche un aspetto della soppressione) della democrazia per quella classe contro cui la dittatura è esercitata”(2). Dunque è al contrario la forma più alta di democrazia popolare poiché si basa sulla soppressione del dominio classista della borghesia che sotto la veste della democrazia borghese esercito il suo dominio reale attraverso una democrazia tra pochi, tra ceti borghesi dominanti. Ciò lo vediamo tanto più oggi nella sottrazione di sovranità delle istituzioni parlamentari verso circoli ristretti, burocrazie. Nella situazione italiana lo riscontriamo nel trasferimento dei poteri politici ed economici alle euroburocrazie e quelli militari al comando NATO. Ma se questo metro di lettura vale per l’Occidente e i comunisti sono così giustamente puntigliosi nell’analizzarne gli aspetti politico-istituzionali di dominio, perché allora ciò non dovrebbe valere per i “paesi socialisti”, andando a vedere la vera natura dei rapporti sociali di classe e individuare dunque di conseguenza la lotta di classe stessa? Si scoprirebbe per esempio che nel caso della Cina di socialista non c’è nulla.

L’opposizione borghesia proletariato creatasi in Cina, in URSS, nei paesi socialisti (sarebbe meglio dire a capitalismo di stato) dell’orbita sovietica in genere, pur tra esperienze diverse ha un denominatore comune: è espressa dalla contraddizione tra  burocrazia e classi proletaria e contadina, o classe operaia sola, a seconda della tipologia geo-economica del paese, delle caratteristiche economico-sociali. L’opposizione tra classi nei paesi imperialisti è invece tra capitalismo privato da una parte e classe operaia, proletariato dall’altra. Ovviamente schematizzo per poter meglio comprendere gli opposti, ma l’analisi delle composizioni sociali e di classe è questione ben più complessa e uno dei tasti dolenti del marxismo nostrano. Dunque, ciò che da un certo punto in poi numerose entità comuniste non hanno più voluto ammettere è il revisionismo che ha segnato la storia delle esperienze socialiste, il loro crollo, il loro mutamento in qualcosa d’altro. Lo si è spesso sussunto acriticamente facendo fare passi indietro al movimento di classe anche sul piano politico e ideologico.

Il revisionismo cinese in particolare, iniziato con la morte di Mao, è spiegato molto bene in questo articolo della Pun Ngai. Così come è spiegato molto bene che con le contraddizioni di classe che si sono acuite in conseguenza dell’internità della potenza cinese nei cicli di produzione delle multinazionali occidentali e di un modello di produzione capitalista che è totalmente adeguato e integrato nella società cinese, le avanguardie marxiste cinesi stanno riprendendo il maoismo come bandiera di un nuovo e poderoso ciclo della lotta di classe in Cina.

Il marxismo esiste in Cina come formazione, permea tutta la società. Ma il revisionismo cinese lo ha distorto, e cerca da decenni, di fase in fase, di pianificazione in pianificazione, di piegarlo ai suoi scopi che sono di tutt’altra natura e che rispecchiano l’ascesa e l’affermazione della borghesia cinese, dei suoi apparati burocratici, della grande classe media fino alle élite ben connesse con il Partito Comunista Cinese, che ormai è loro espressione sin dalla svolta controrivoluzionaria denghista.

Per fare un paragone con il revisionismo italiano, il PCI, ha fatto presto: essendo a differenza del PCC dentro una formazione economico-sociale capitalistica, ha cancellato il marxismo ed è direttamente approdato al liberalismo borghese passando per la svolta della Bolognina. Arrivando a essere un partito reazionario borghese che oggi ha il volto orrido e spietato del neoliberismo… il PD.
Ovviamente l’operazione di demarxistizzazione è molto più facile in un partito, che in una società come quella cinese che ha nel marxismo uno degli elementi costitutivi sul piano della cultura. Per cui il processo revisionista cinese assume il percorso della mistificazione e non quello della rimozione.

Tuttavia è questo il punto debole politico e culturale del regime pseudo-comunista cinese. La lotta di classe di orientamento comunista-maoista, marxista-leninista, in Cina c’è ed è destinata a svilupparsi alla faccia della forte repressione fascista delle autorità.

Ora, dunque, comprendiamo come il maoismo (e come per altri versi il guevarismo) non sia un “cane morto” e abbia un’importanza fondamentale per l’intero scontro di classe mondiale. E non possa essere relegato a mera questione cinese.

Pertanto, quando si incensa la Cina per la sua politica di pianificazione, occorre però comprendere il contesto socio-economico e che non si sta facendo un bel servizio né alla classe operaia cinese, né a quella mondiale, a causa di un’arretratezza analitica dei comunisti nostrani che nella ricerca di riferimenti persi da oltre 30 anni, hanno sussunto dei nuovi “piccoli padri” come Xi Jinping.

Se si vuole affermare nel nostro contesto la pianificazione come modello sociale e politico di transizione al socialismo, l’operazione politica che ne va fatta è ben diversa. Sulla Cina  è bene farsi due domande che sono indispensabili anche a livello generale: chi è al potere? Pianificare per chi e per cosa?

Aspetto secondario ma neanche tanto: l’arma spuntata del contrasto politico alle vulgate critiche dei media e dell’opinione pubblica sul “totalitarismo cinese” per attaccare il comunismo in generale. Difendere una burocrazia totalitaria e classista contrapponendola ai regimi borghesi occidentali e filo-USA che la controparte spaccia per “democratici” è decisamente una forma di autolesionismo politico.

Non c’è proprio nulla di nuovo da proporre compagni?

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NOTE

(1) Professore associato alla Hong Kong University of Science and Technology e autrice di numerose pubblicazioni personali e collettive.

(2) La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, V.I. Lenin

(3) Segnalo anche: https://www.connessioniprecarie.org/2016/06/06/il-sogno-cinese-alla-prova-della-classe-unintervista-a-pun-ngai/

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