Il Venice Climate Camp – nella sua seconda edizione – ha rappresentato una perfetta metafora: se l’anno scorso ci trovavamo al Lido di Venezia, al margine fisico di una città unica, ma devastata dal Mose e dall’acqua granda, “eventi” che ci parlano immediatamente dell’urgenza di invertire la rotta del cambiamento climatico; quest’anno invece ci siamo ritrovati al margine industriale di Porto Marghera, una realtà che ha pagato con un prezzo altissimo – anche in termine di vite umane – il cambiamento climatico e le politiche industriali nocive che si sono susseguite negli anni.
È popolando il margine di una città che lo si rende conflittuale, lo si fa uscire per dialogare con il resto d’Italia, l’Europa e il mondo. Al Meeting, che ha concluso questa edizione del Camp, è emerso tutto questo: confrontarsi, approfondire, organizzarsi collettivamente, proprio a partire dallo sguardo internazionale che guarda a prossime scadenze, come quella lanciata da Ende Gelände – in Germania – proprio in questi giorni (25-29 settembre). Una proiezione che va oltre i confini, ma non solo; infatti nei diversi interventi sono emersi altri appuntamenti chiave, come lo sciopero globale per il clima del 9 ottobre di Fridays For Future, il 24 ottobre a Carrara per il corteo nazionale contro le cave, e ancora verso la primavera, a maggio, quando a Roma si terrà il vertice Eni, momento cruciale di questo percorso che si sta aprendo.
Uno sguardo che vuole andare ancora più in profondità, se pensiamo agli effetti prodotti dal neocolonialismo in America Latina come in Africa. Con colonialismo intendiamo non soltanto le disuguaglianze di potere che pervadono ancora le interazioni sociali, culturali, economiche ed ambientali a livello globale, ma anche le attitudini mentali e relazionali di dominio e sfruttamento che formano il nostro rapporto con noi stessi, i nostri simili, e gli altri essere viventi: tutti concetti ampiamente espressi nei diversi interventi.
Malcolm Ferdinand – che ha mandato un video-contributo in uno dei panel di approfondimento – contrappone il termine “Negrocene” all’“Antropocene” per esprimere l’idea che l’uomo bianco abbia sfruttato l’ambiente, la terra e le sue risorse esattamente come ha ridotto in schiavitù i neri deportandoli dall’Africa, così come se guardiamo alla crisi climatica possiamo constatare con mano quanto si sia contribuito a ciò.
Ad oggi stiamo vivendo una convergenza catastrofica fra pandemia, crisi climatica e crisi economica. Siamo in una fase in cui i processi tradizionali di governance cedono terreno a nuove forme di dominio: violenza e sopraffazione. Il capitalismo infatti mette al centro la distruzione della vita come strumento per la sua riproduzione.
È dunque necessaria una prospettiva anticapitalista e, allo stesso tempo, sono necessari processi di soggettivazione politica.
Come la crisi può diventare un’opportunità per la lotta anticapitalistica? In questa crisi il sistema sta incontrando difficoltà nel portare a compimento la sua riproduzione e la sua ristrutturazione. Questa crisi si articola in modo forte nell’ambito riproduttivo, che ha sempre avuto un ruolo secondario nel sistema tradizionale capitalistico. I corpi, la cura, la riproduzione ecologica, l’educazione, il welfare sono gli ambiti più colpiti dall’attuale crisi, che potrebbe portare a una ristrutturazione senza precedenti del sistema capitalistico, nella quale i processi di accumulazione e i tentativi di estrazione di valore saranno sempre più violenti nei confronti della vita umana e non umana. Allo stesso tempo, quello che rischia di essere il più grosso movimento di accumulazione nella storia del capitalismo potrebbe accompagnarsi con forti momenti di conflitto sociale. Ed è questa la sfida che i movimenti sociali si trovano di fronte in questa fase, in cui si manifestano una pluralità di contraddizioni e altrettanti spazi di ricomposizione sociale e politica.
Il Venice Climate Meeting ha parlato anche di salute, di cura, di come queste battaglie si inseriscono in questa fase storica e di come con coraggio si sia scelto di organizzare questo Camp mettendo in luce la contrapposizione del “distanziamento fisico ma nessun distanziamento sociale”.
Abbiamo inoltre parlato di formazione e di reddito: sono questioni che entrano a pieno diritto nell’agenda politica di un campeggio climatico. Ne fanno parte perché se l’unico orizzonte praticabile è quello del sovvertimento totale dello stato di cose, non è pensabile ragionare per compartimenti stagni, per settori indipendenti.
Questa pandemia, e la paralisi globale che ha prodotto, sono la diretta conseguenza di una struttura sociale fondata su profonde ingiustizie e disuguaglianze. Il Covid-19 ci ha parlato della fragilità di diritti che diamo per scontati: la socialità, il movimento, il desiderio. Ma il desiderio di cambiare lo stato di cose presenti non l’ha fermato: svariate ore di assemblea hanno dato vita a un piano condiviso, a un patto che apre un nuovo spazio politico di elaborazione ed azione radicale. Questo spazio pone al centro la questione ambientale raccogliendo gli spunti intersezionali che l’ecologia politica ci offre e guarda all’azione diretta verso obiettivi ben identificati e chiari a partire da subito!
Nel fare questo, la volontà è quella di creare le condizioni per uno spazio che sia il più possibile inclusivo, aperto e orizzontale, dove momenti assembleari e iniziative politiche si intreccino, dove pratiche di lotta e processi organizzativi camminino di pari passo.
A questo proposito è importante ragionare sulle forme di organizzazione e se l’organizzazione è un elemento politico, allora è necessario che sia diano assemblee territoriali capaci di coordinare e modellare questo spazio in costruzione.
La questione del clima non è qualcosa su cui si torna indietro. Il concetto di giustizia climatica dev’essere un vettore di trasformazione radicale e complessiva, in cui la ricomposizione delle contraddizioni del capitale e l’autonomia degli spazi di movimento che creiamo materializzino la contesa che lanciamo verso quelle forze pantagrueliche che stanno applicando nuove forme di dominio e sfruttamento. Le piazze giovanili hanno segnato un prima ed un dopo e quindi dobbiamo insistere su questo terreno. Viviamo in tempo reale questa fine del mondo. Motivo per cui da questo meeting la proposta è stata che di fronte all’innalzamento dei mari, anche noi scegliamo di alzarci e sollevarci, sotto lo slogan di Rise Up 4 Climate Justice.
MANIFESTO DI INTENTI
1. Sappiamo che la crisi climatica è qui e ora e che per affrontarla servono misure radicali e immediate. Le azioni de* singol*, sebbene importanti, non bastano, servono movimenti in grado di rivoluzionare il sistema in cui viviamo.
2. Vogliamo che le multinazionali del fossile e il sistema finanziario che le appoggia cessino le loro devastanti attività e che paghino i danni causati al pianeta.
3. Sappiamo che non ci può essere giustizia climatica senza giustizia sociale e che una reale transizione ecologica deve passare dalla redistribuzione delle ricchezze e da un reddito universale.
4. Dobbiamo colpire i punti nevralgici del sistema estrattivista che ci opprime, attraverso mobilitazioni di massa e azioni dirette. Dobbiamo mettere in gioco i nostri corpi per bloccare, sabotare e distruggere l’apparato che i nemici della vita mettono in campo.
5. Crediamo che la lotta climatica debba essere transfemminista, antirazzista, antifascista, antiabilista e antispecista. L’intersezionalità si concretizza nella messa in atto di pratiche di cura e conflitto radicali e comuni.
6. Crediamo che vadano tutelate tutte le forme di vita senza distinzione alcuna, viviamo tutt* in profonda simbiosi all’interno dell’ecosistema mondo.
7. Sappiamo che il Covid-19 è parte integrante della crisi climatica, causato dalla distruzione degli ecosistemi e dalla predazione delle forme di vita. Dobbiamo opporci all’uso che il capitale sta facendo di questa pandemia come acceleratore dei processi di sfruttamento, controllo e devastazione.
8. Crediamo che l’accesso alla sanità e alle cure siano diritti inviolabili di ogni individuo senza distinzione alcuna e che non sia più accettabile dover scegliere a chi garantire le cure. All’idea di malattia come rottura del legame sociale vanno contrapposti il potenziamento e la territorializzazione della sanità pubblica, falcidiata da decenni di tagli, e le pratiche di cura comune.
9. Crediamo che le assemblee siano il momento di decisionalità di questo spazio politico e che debbano vivere assieme a momenti di azione diretta e mobilitazione. L’azione territoriale e l’orizzontalità devono essere punti fondanti del nostro agire, all’interno di una prospettiva europea e globale.
10. Sappiamo che la crisi climatica è il prodotto di un sistema irriformabile. Il cambiamento non può essere cercato nelle sue istituzioni, nelle liste elettorali, nei governi nazionali o internazionali. Il cambiamento è nelle lotte, nell’autonomia dei movimenti, nel rovesciamento del sistema e delle sue articolazioni. Il capitalismo va fermato ora, è tempo di rivoluzione.