Covid, l’idrossiclorochina funziona. 7 scienziati inchiodano l’Oms. Lo studio

Possiamo dirlo senza tanti giri di parole. L’idrossiclorochina, se usata nella prima fase della malattia, funziona. E pare sia sicura, oltre che efficace. Le affermazioni, dati alla mano, arrivano da un gruppo di scienziati internazionale, capitanati dal dottor Didier Raoult, che con evidenze cliniche pubblicate su the International Medical Journal il 29 settembre, smonta punto per punto i due assunti sulla base dei quali OMS ha ritirato il suddetto farmaco adducendone la pericolosità e la non efficacia. E smonta soprattutto quanto affermato dallo studio Recovery dell’Università di Oxford (la stessa che sta lavorando sul vaccino?), finanziato anche dalla Fondazione Bill e Melinda Gates.

L’idrossiclorochina funziona in combinazione con altri farmaci e se somministrata in prima fase. E non è pericolosa, nemmeno a dosi doppie rispetto ai parametri normali, come dimostra il documento che pubblichiamo integralmente.

A inchiodare questo farmaco poco costoso, impiegato dal 1945 per trattare la malaria e le sindromi autoimmuni (deriva dalla clorochina, che è la versione sintetica del chinino) era stato lo studio Recovery, condotto a marzo del 2020 dalla Università di Oxford (la stessa che sta lavorando sul vaccino) e finanziato anche dalla fondazione Bill e Melinda Gates, che decretava l’assenza di effetti benefici sui pazienti ospedalizzati a causa del Covid 19. Nello stesso periodo, un articolo apparso su The Lancet affermava che i pazienti trattati con idrossiclorochina presentavano tassi di mortalità del 35% superiori a causa di gravi aritmie cardiache. La pubblicazione fu ritirata dopo 13 giorni dalla sua uscita, perché contestata da 120 scienziati di varie nazionalità. Il 2 giugno 2020 altri 80 medici italiani presero posizione.

Nel documento che riportiamo, viene esplicitato sulla base di evidenze cliniche il successo dell’idrossiclorochina in prima fase, grazie ai suoi meccanismi antivirali e immunomodulanti, mentre chi la ha invalidata la ha utilizzata in fasi tardive, dove l’imponente stato infiammatorio rende necessari ben altri interventi! Quindi lo studio di risposta a Recovery dimostra che a non essere efficace non è l’idrossiclorochina, ma la tempistica con cui è stata valutata e testata. In realtà, mentre OMS la bandiva, a livello mondiale tanti medici portavano avanti congiuntamente il suo utilizzo con evidenze cliniche sperimentate sul campo, che riassumiamo qui: somministrazione di idrossiclorochina nelle prime 72 ore dall’insorgenza dei sintomi, abbinata a un antibiotico, in particolare l’azitromicina; all’aggravarsi eventuale dei sintomi, cortisone ed eparina a basso peso molecolare; a tale mix di farmaci si è aggiunto, nei territori e negli ospedali, l’utilizzo di plasma iperimmune. Risultato: la guarigione dei pazienti.

Il gruppo del professor Didier Raoult ha usato 600 mg al giorno per un massimo di 10 giorni in 1061 pazienti con COVID-19 riportando 8 decessi e un tasso di mortalità dello 0,75%.

Invece, lo studio Recovery la ha usata in modo massiccio, in dose NON terapeutica (2.400 mg nelle prime 24 ore di trattamento), con grande rischio di effetti collaterali come cardiopatie e retinopatie: ma nonostante ciò, a dosaggio più che doppio, non ci sono stati scostamenti dalla mortalità riscontrata durante i controlli.

In sintesi: il documento dimostra che l’idrossiclorochina funziona e non è pericolosa. E resta forte perplessità sulla posizione presa da OMS.

“La totale assenza di un approccio medico-clinico per la patologia COVID-19, dello Studio Recovery, deve necessariamente far riconsiderare all’OMS le decisioni prese in conseguenza a tale studio per non farsi carico della responsabilità di un aumento di decessi nel mondo.

La decisione di sottrarre nuovamente un farmaco, stavolta dimostratosi sicuro e di accertata efficacia nella fase iniziale di malattia, contribuisce ad aumentare le morti di persone che avrebbero potuto essere altrimenti curate e guarite e a prolungare la pandemia” chiosa lo studio, che pubblichiamo integralmente qui di seguito.

LO STUDIO INTEGRALE RECOVERY E IDROSSICLOROCHINA:

AUTHORS

Dilip Pawar MBBS, MD, PhD, DSM, MBA, FCP (USA) Clinico Farmacologo, Scienziato di ricerca sul cancro e Covid Expert Mumbai, India

Didier Raoult, MD Direttore dell’IHU Méditerranée-Infection Boulevard Jean Moulin Marsiglia, Francia

Nise Yamaguchi MD, PhD Clinico Oncologo e Immunologo Institute of Advances in Medicine Università di San Paolo, Brasile

Juan C. Bertoglio, MD Ass. Prof. Di Medicina e Immunologia Universidad Austral del Cile

Alberto Palamidese, MD. Professore Aggiunto di Pneumologia Ospedale Universitario di Padova Medical Association Directory Board Università di Padova, Italia

Vincenzo Soresi M.D. Director em. of Pneumology Ospedale Niguarda di Milano Professore em. di Anatomopatologia, Oncologia Clinica e Pneumologia Università di Milano, Italia

Juan L. Hancke, DVM, PhD Professore di Farmacologia e Tossicologia Università Austral del Cile

Mauro Rango Medical Writer Università di Padova, Italia

Graziella Cordeddu Medical Writer Università di Cagliari, Italia

Daniela Gammella Medical Writer Università di Parma, Italia

INTRODUZIONE

Perché parlare ancora di idrossiclorochina per la cura del COVID-19 quando lo studio Recovery condotto a Marzo 2020 dalla prestigiosa Università di Oxford e finanziato anche dalla Fondazione Bill e Melinda Gates, ha decretato il 4 Giugno 2020 che questo farmaco “non ha mostrato alcun effetto benefico sui pazienti ospedalizzati a causa del COVID-19?”

Perché continuare a parlarne dal momento che, in seguito a questo risultato incontestato, l’OMS ha deciso di ritirare il suddetto farmaco per curare la patologia COVID-19? [A]

La risposta è: perché in scienza e coscienza noi crediamo che lo studio Recovery sia ampiamente contestabile, nel metodo e nei conseguenti risultati riguardanti l’idrossiclorochina.

PREMESSA

Durante le ricerche di cure per il COVID-19, gli studi comprendenti l’idrossiclorochina furono interrotti dall’OMS già il 25 Maggio 2020 dopo la pubblicazione di un articolo su The Lancet , in cui si affermava che i pazienti che avevano ricevuto idrossiclorochina presentavano tassi di mortalità del 35% per gravi aritmie cardiache. Questa pubblicazione veniva ritirata dopo tredici giorni dalla sua uscita perché contestata da 120 scienziati di varie nazionalità, sia per la raccolta dei dati che per la metodica e il 2 Giugno 2020 anche ottanta medici italiani inviavano una lettera, alla rivista The Lancet e all’OMS, contestandola nel suo contenuto scientifico. Il Dott Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’OMS, consentiva quindi il 3 Giugno 2020 la ripresa degli arruolamenti dei pazienti in sperimentazioni con l’idrossiclorochina nello studio Solidarity. Recovery è diventato poi lo studio principale su cui l’OMS ha basato la sua decisione finale per confermare a tutte le agenzie del farmaco la sospensione dell’uso dell’idrossiclorochina per il COVID-19.

LO STUDIO RECOVERY

Lo studio ebbe inizio il 13 Marzo 2020 nel Regno Unito. Da 175 ospedali furono arruolati circa 11.500 pazienti che manifestavano sintomi respiratori più o meno gravi e molto spesso presentavano un quadro di polmonite interstiziale di vario grado. In sostanza tutti i pazienti si trovavano nella cosiddetta seconda o terza fase della malattia, fasi che avremo modo di descrivere meglio nel prosieguo di questa lettera. Lo studio fu diviso in diversi bracci e venne assegnato ai pazienti di ogni braccio un trattamento che consisteva essenzialmente nella somministrazione di UN SOLO farmaco.

UNA APPARENTE DIGRESSIONE

Usciamo per un momento dalla discussione dello studio per chiarire un aspetto fondamentale senza il quale la comprensione della sua critica potrebbe risultare non facilmente accessibile. Per fare questo occorre parlare del COVID-19 suddiviso nelle sue tre fasi di evoluzione patogenetica. La prima fase è quella in cui prevale la replicazione virale (il virus entra nel nostro organismo e si replica all’interno delle cellule). Può non dar luogo a sintomi oppure darne di simili a quelli delle classiche sindromi influenzali, malessere, artralgie diffuse, febbre, tosse secca. La sua prognosi è ottima, il decorso è benigno e si manifesta in circa l’85% dei contagiati. La seconda fase è quella della polmonite interstiziale, che colpisce molto spesso e in modo esteso entrambi i polmoni, in cui si ha una prima risposta infiammatoria e sintomi respiratori anche molto importanti. La prognosi in questa fase è variabile, spesso si rende necessario il ricovero ospedaliero. La terza fase, che può presentarsi in un numero ridotto di pazienti, è caratterizzata da un quadro clinico ingravescente causato da una iper risposta infiammatoria (la tempesta citochinica) che determina, tra l’altro, un quadro di Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID). In questo caso la prognosi è severa. Va detto che da parte dell’OMS non è mai stata data alcuna direttiva in merito ad un protocollo specifico da applicare in caso di COVID-19. Ciò nonostante, a livello nazionale, diverse associazioni mediche individuarono una combinazione di principi attivi da utilizzare per affrontare la patologia. Anche se tali indicazioni differivano da Paese a Paese (ma anche all’interno di uno stesso Paese spesso erano diversificate tra ospedale e ospedale, regione e regione) mantenevano, tuttavia un approccio simile che prevedeva l’abbinamento, in fase iniziale di malattia, di farmaci che congiuntamente esplicassero una azione immunomodulante e antivirale.

A partire dalle prime settimane di Marzo 2020, per affrontare ciascuna delle tre fasi di malattia, ogni terapia assegnata domiciliarmente o presso le strutture ospedaliere, faceva riferimento ad una combinazione di farmaci che si presentava simile, quando non addirittura coincidente, in più parti del mondo. Solitamente nelle prime settantadue ore dall’insorgenza dei sintomi i pazienti venivano trattati a domicilio abbinando l’idrossiclorochina ad un antibiotico, specificatamente l’azitromicina. Mentre all’aggravarsi dei sintomi e durante l’ospedalizzazione, si aggiungeva, ai farmaci utilizzati in fase precoce, l’utilizzo di cortisone e di eparina a basso peso molecolare (EBPM). A tale mix di farmaci si aggiunse poi, a macchia di leopardo, nei territori e negli ospedali, l’utilizzo di plasma iperimmune di persone guarite. Si è assistito ad un fenomeno, forse unico nella storia della medicina cioè ad una convergenza della pratica medica a livello mondiale, basata sulle evidenze cliniche sperimentate sul campo. Insomma, pur in assenza di una direttiva dell’Organizzazione Mondiale della Sanità le diverse esperienze nazionali dell’intero pianeta convergevano verso il medesimo approccio: un mix di farmaci che, sinergicamente, rispondessero alla replicazione virale, all’eccessiva risposta immunitaria aspecifica, alla coagulazione intravascolare, ciascun farmaco con un suo proprio ruolo specifico. 3 Questo utilizzo clinico nei vari territori internazionali aveva a suo fondamento plurimi studi prodotti nell’ultimo decennio che attestavano l’efficacia antivirale del principio attivo contenuto nell’idrossiclorochina, nei confronti del virus Sars, di cui il SARS-CoV-2 è parente stretto.

Su questi studi si è basata quindi la strategia terapeutica utilizzata per esempio l’IHU Méditerranée Infection a Marsiglia in Francia e in tutte quelle realtà che a tale esperienza si sono ispirate. Inoltre era conoscenza dei clinici specialisti in patologie respiratorie, il sinergico funzionamento tra i suddetti principi attivi e quelli di specifici antibiotici con attività immunomodulante e con anticoagulanti, tutti insieme fondamentali per la cura di sintomi simili a quelli provocati dal SARS-CoV-2, che pur essendo di altra natura eziologica (come il Mycoplasma pneumoniae), provocano al polmone danni paragonabili a quelli prodotti dal COVID-19.

CONTESTAZIONE A RECOVERY

Dopo questa apparente digressione torniamo allo studio Recovery. La nostra contestazione, premettendo le ragioni finora esposte, si basa quindi sui punti fondamentali che caratterizzano lo studio: -fase avanzata di malattia -monoterapia -posologia eccessiva Risulta quantomeno sorprendente che la Oxford University abbia fatto tali scelte per validare il funzionamento dell’idrossiclorochina nei pazienti trattati e studiarne la mortalità. In fase avanzata di malattia Come appare evidente dalle diverse esperienze cliniche sperimentate su territorio mondiale, nella stragrande maggioranza dei casi in cui i tassi di mortalità sono stati contenuti all’interno di una percentuale del 3%, si riscontra il diffuso impiego di idrossiclorochina e azitromicina in fase di malattia precoce (e di plasma iperimmune in fase avanzata ovvero di corticosteroidi, EBPM). Tale utilizzo precoce, trova la sua ragion d’essere nei meccanismi di azione antivirali e immunomodulanti dell’idrossiclorochina a cui si è più sopra accennato. Abbinando tali meccanismi alla prima fase di malattia, si permette al farmaco di esplicare le suddette proprietà esattamente nel momento in cui 4 queste sono richieste, ovvero nel momento in cui si assiste alla replicazione virale all’interno dell’organismo ospitante e si verifica la reazione direttamente conseguente del sistema immunitario. L’idrossiclorochina contrasta in modo fisiologico la risposta infiammatoria modulandola e non sopprimendola e impedisce l’insorgere della tempesta citochinica. L’idrossiclorochina ha dimostrato in vitro o in modelli animali di possedere un effetto antivirale attraverso l’aumento del pH endosomiale -che è determinante per la fusione virus-cellula- bloccando, in questo modo, l’ingresso del virus all’interno della cellula.

Un altro meccanismo d’azione dell’idrossiclorochina per combattere/contrastare i virus è quella di attivare le vie innate di segnalazione immunitaria dell’IFNβ, AP-1 e NF-κB, nonché l’aumento dell’espressione di geni antivirali e citochine come l’interferone beta (IFNβ). Inoltre l’idrossiclorochina esplica un effetto antinfiammatorio dovuto ad inibizione di sovraregolazione di mRNA di citochine proinfiammatorie, IL-6, IL-1β TNF-α e può bloccare l’attivazione delle cellule T interrompendo la segnalazione di calcio dipendente dal recettore delle cellule T.

Il fatto che la somministrazione sia avvenuta molto tardivamente durante il decorso della malattia non depone a sfavore dell’idrossiclorochina, bensì depone a sfavore della scelta terapeutica. In tali fasi avanzate infatti, vi è un’imponente infiammazione e per prevenire il quadro di coagulazione intravascolare disseminata tipico del COVID-19, ben altri interventi sarebbero stati richiesti per una corretta pratica medica. Monoterapia Nonostante le notevoli proprietà appena descritte dell’idrossiclorochina come antivirale e antinfiammatorio, le numerose esperienze cliniche hanno comprovato che la sua efficacia viene aumentata potenzialmente se utilizzata in abbinamento con un altro principio attivo che agisca in sinergia. Nel caso specifico del trattamento per il COVID-19 il farmaco che ha contribuito maggiormente a creare l’effetto combinato più favorevole, alla guarigione della malattia insieme all’idrossiclorochina, è stato l’azitromicina.

L’azitromicina è un macrolide che, oltre alla sua azione antibatterica, ha dimostrato di avere un’azione di immunomodulazione la quale differisce dall’immunosoppressione o dall’antinfiammazione in quanto è un ripristino non lineare della risposta infiammatoria che agisce modificando o regolando una o più funzioni del sistema immunitario. Usiamo il termine “immunomodulazione” per descrivere la downregulation di un’iperimmunità o iperinfiammazione senza compromettere la normale risposta immunitaria o infiammatoria per difendersi dall’infezione. I farmaci idrossiclorochina e azitromicina sono entrambi immunomodulatori che in modo sinergico prevengono gli effetti deleteri causati dalla massiccia infiammazione indotta da COVID-19 quindi sono due farmaci diversi ma con attività simili che lavorano in sinergia. Inoltre l’azitromicina è nota per fermare la produzione di citochine, un torrente di mediatori infiammatori che innescano l’infiammazione polmonare potenzialmente letale nei pazienti COVID-19.

Il regime di monoterapia, come non viene praticato anche per altre patologie, non trova a maggior ragione, giustificazione alcuna per venir attuato in caso di infezione da SARS-CoV-2 la quale si è dimostrata essere, come precedentemente spiegato, una patologia sì complessa ma che può essere affrontata in ogni sua fase con strumenti adeguati alla sua gravità. Non certo in monoterapia. Posologia eccessiva Altro aspetto, tutto da chiarire, riguarda l’alto dosaggio di idrossiclorochina somministrato che non trova giustificazione né nella pratica clinica fino a quel momento conosciuta, né in letteratura: infatti le dosi sono risultate più che doppie rispetto a quelle utilizzate abitualmente per le patologie di riferimento (malaria, lupus erythematosus, artrite reumatoide). Ogni farmaco è sicuro se usato a dosaggi stabiliti e diventa potenzialmente letale per dosi superiori. Lo Studio Recovery ha utilizzato un dosaggio di 2400 mg di idrossiclorochina nelle prime 24 ore di trattamento. Alla dose iniziale sono state poi aggiunte somministrazioni di 400 mg ogni 12 ore per altri 9 giorni, per un totale complessivo di 9,6 gr di farmaco in 10 giorni. 6 Giusto per fare un confronto, il gruppo del prof Didier Raoult in Francia ha usato 600 mg al giorno per un massimo di dieci giorni in 1061 pazienti con COVID-19, riportando 8 decessi ed un tasso di mortalità dello 0,75%. Va detto che nello stesso periodo, le esperienze territoriali italiane hanno visto un impiego di idrossiclorochina al dosaggio giornaliero di 400 mg.

Il regime di iperdosaggio di idrossiclorochina e la modalità di somministrazione in monoterapia non ha alcuna giustificazione medica nel trattamento del COVID-19. Si può quindi affermare, oltre ogni ragionevole dubbio che, nello Studio Recovery nel Regno Unito, l’idrossiclorochina è stata utilizzata in dose non terapeutica, a maggior rischio di effetti collaterali quali cardiopatie e retinopatie, non comprensibile in relazione ai canoni della pratica medica per tale patologia. Nonostante il dosaggio estremamente elevato e ingiustificato di idrossiclorochina non ci sono state sostanziali scostamenti dalla mortalità riscontrata nel braccio di controllo.

Quanto sopra dimostrato è in antitesi con le motivazioni che in precedenza venivano dichiarate dall’OMS per la prima sospensione dell’idrossiclorochina dopo la pubblicazione su The Lancet del documento che è stato poi ritirato e cioè che si trattava di farmaco non sicuro e potenzialmente letale. In realtà l’idrossiclorochina è un composto antivirale con un track record di sessantacinque anni per la sicurezza e l’efficacia, sviluppato a partire dalla clorochina che a sua volta è la versione sintetica del chinino. La clorochina e l’idrossiclorochina sono farmaci poco costosi e disponibili a livello globale che sono stati utilizzati in tutto il mondo dal 1945 per trattare la malaria, sindromi autoimmuni e varie altre condizioni. Lo stesso studio ha infatti dimostrato la totale sicurezza del farmaco, visto che in dosaggio più che doppio a quello comunemente utilizzato non ha provocato un tasso di mortalità superiore a quello dei controlli. In questa prospettiva appare di dubbia validità la scelta di attribuire oppure negare ad un farmaco una possibile capacità curativa sulla base di un uso improprio, in assenza di una sinergia farmacologica necessaria. 7 Risulta ovvio pertanto che non abbia potuto impedire la morte di molti pazienti. Solo se utilizzato secondo i corretti parametri evita i decessi e anche l’aggravarsi della patologia e le sue complicazioni. Un appunto sul desametasone Viceversa diventa degno di nota, per le ragioni che verranno chiarite nel prosieguo, riportare, in breve, il report relativo ad un altro farmaco utilizzato nello Studio Recovery: il desametasone.

Secondo i ricercatori del Recovery Trial dell’Università di Oxford viene descritto come l’unico farmaco che ha finora dimostrato di ridurre la mortalità e di farlo in modo significativo. I dati però non sembrano avallare l’aggettivo “significativo” utilizzato. I pazienti curati senza desametasone a 28 giorni avevano mortalità del 41% quando necessitavano di ventilazione meccanica, del 25% quando necessitavano di solo ossigeno e del 13% tra chi non necessitava di interventi respiratori di alcun genere. Il desametasone è risultato fondamentale per salvare 1 paziente su 8 con ventilazione meccanica e 1 paziente su 25 con ossigeno. Mentre non sono stati rilevati benefici nei pazienti con quadro clinico migliore che non richiedevano ossigeno. Non si comprende quindi a conclusione della sperimentazione sul desametasone, l’enfasi posta da parte del Professor Peter Horby e del Professor Martin Landray sui suoi effetti, come se si trattasse di una scoperta sensazionale.

L’errore commesso nello studio condotto dall’Università di Oxford e che riguarda tutto lo studio Recovery, è la monoterapia vale a dire testare un solo farmaco o tipo di trattamento. Soprattutto per quanto riguarda il desametasone, Recovery non è riuscito a mettere sufficientemente in evidenza la reale importanza dei corticosteroidi come salvavita nella seconda e terza fase della malattia così come quando vengono usati in combinazione con altri farmaci. Come abbiamo detto i corticosteroidi sono sempre stati farmaci elettivi nelle polmoniti interstiziali e hanno dimostrato di essere molto utili per affrontare l’epidemia di COVID-19, dovrebbero essere introdotti, insieme al plasma 8 iperimmune e anticoagulanti, nel momento in cui la tempesta citochinica sta per verificarsi, durante la seconda fase di malattia e si sono dimostrati utili anche nella terza fase di malattia.

L’utilizzo così come previsto in Recovery per il trattamento di COVID-19, in regime di monoterapia, ha svalutato la reale portata e importanza del desametasone. Ci teniamo a sottolineare che il cortisone viene usato, da circa 50 anni, in tutto il mondo in caso di polmoniti interstiziali, inoltre, non è una scoperta di Recovery nemmeno il suo utilizzo relativo al COVID-19 in quanto, analoghi del desametasone sono stati utilizzati, unitamente ad altri farmaci, in quasi tutte le strutture ospedaliere del mondo, a partire da Marzo 2020. Tali cure improntate alla pratica di un protocollo di farmaci hanno apportato agli ammalati di COVID-19 benefici di gran lunga maggiori rispetto a quelli riportati nello studio Recovery. Va detto, infine, che rimane ancora tutta da verificare l’efficacia dell’utilizzo del desametasone in prima fase di malattia.

CONCLUSIONI

Va detto con estrema chiarezza che molte realtà ospedaliere europee hanno avuto tassi di mortalità meno elevati, durante la fase epidemica, di quelli dello Studio Recovery. Basterebbe questa affermazione per far comprendere che le tesi di base dello Studio sono errate. Come abbiamo chiarito nell’esposizione della nostra contestazione, lo Studio Recovery non dimostra l’inefficacia dell’idrossiclorochina o l’efficacia del desametasone. Ciò che lo studio dimostra è soltanto l’inefficacia dell’utilizzo dell’idrossiclorochina in una fase non congruente di malattia e in monoterapia per combattere il COVID-19 e, nel contempo, dimostra la non adeguata efficacia del desametasone se non inserito nel contesto di un protocollo che lo associ ad altri farmaci, quindi dimostra che anche un ipotetico “salvavita” non lo è efficacemente se usato da solo. L’unica vera dimostrazione utile per la comunità medica e scientifica a cui conduce lo Studio Recovery appare essere la conferma delle evidenze basate 9 sulla pratica clinica, sviluppatesi durante l’epidemia, che hanno condotto i medici impegnati in prima linea, ad utilizzare una combinazione di farmaci che si è ben presto diffusa all’intero pianeta e che ha visto, nelle situazioni in cui è stata contenuta la mortalità entro bassissime percentuali, la costante della presenza di idrossiclorochina, azitromicina, cortisone, anticoagulante e, in taluni casi, plasma iperimmune. Lascia ancora una volta perplessi il fatto che l’OMS si basi, come fece con lo Studio pubblicato sul The Lancet e poi ritirato, su studi che danno piena evidenza di trattare una patologia come si trattasse di una patologia a loro completamente sconosciuta sulle sue manifestazioni ed evoluzioni cliniche.

La totale assenza di un approccio medico-clinico per la patologia COVID-19, dello Studio Recovery, deve necessariamente far riconsiderare all’OMS le decisioni prese in conseguenza a tale studio per non farsi carico della responsabilità di un aumento di decessi nel mondo. La decisione di sottrarre nuovamente un farmaco, stavolta dimostratosi sicuro e di accertata efficacia nella fase iniziale di malattia, contribuisce ad aumentare le morti di persone che avrebbero potuto essere altrimenti curate e guarite e a prolungare la pandemia. Questo, seppur inaccettabile in qualsiasi circostanza, si rileva come danno intollerabile anche e soprattutto nei paesi più poveri nei quali l’idrossiclorochina rappresentava il farmaco principale nel trattamento della fase precoce della malattia.

Nota [A]: come risultato di questa decisione, tutte le agenzie farmaceutiche regionali e nazionali hanno dato l’ordine, nei loro territori, di limitarne l’uso ai soli studi clinici. L’OMS ha dichiarato che la propria decisione è stata presa sulla base dei risultati di Recovery, su quelli di Solidarity e su una Cochrane review su altre prove su l’idrossiclorochina. 

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