di Sandro Moiso
Renzo Sabbatini, La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e mercato, Salerno Editrice, Roma 2020, pp. 190, 16 euro
«La Storia è per definizione un processo di scoperta e non un dogma da dare per scontato» ( L. Hunt – History. Why it matters, 2018)
E’ proprio questa frase posta in esergo a rendere pienamente il senso della ricerca che Renzo Sabbatini ha dedicato alle rivolte popolari che scossero la Repubblica di Lucca e la sua società tra il maggio del 1531 e l’aprile del 1532. Una ricerca che approfondisce non soltanto la conoscenza che si può oggi avere degli albori dell’Età moderna, ma anche quella delle contraddizioni che accompagnarono le trasformazioni economico-sociali e politiche che precedettero la formazione dello Stato moderno e l’affermazione totale dell’economia monetaria e del capitalismo mercantile destinati a porre le basi dell’attuale modo di produzione.
Se un tempo, dalla fine dell’Ottocento a quasi tutto il Novecento, tutto ciò era stato visto come un progressivo e (quasi) cosciente percorso di realizzazione della società contraddistinta dai valori della borghesia imprenditoriale, oggi questo assioma è entrato pesantemente in crisi a partire proprio dalla minor fiducia riposta, sia a livello scientifico che sociale, nelle possibilità di sviluppo infinito dell’economia e del ciclo produttivo basato sull’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta.
Oggi, infatti, il modello lineare di sviluppo e progresso racchiuso nelle ricostruzioni storiche fatte nel periodo precedente, sia che provenissero dall’ambito istituzionale che da quello para-marxista, assomiglia troppo ad una visione teleologica della Storia, con un inizio e un fine delineati e delimitati una volta per tutte. Naturalmente la visione maggiormente contraddittoria degli avvenimenti passati non è frutto soltanto del pensiero di singoli ricercatori o di quello della collettività degli stessi, ma soprattutto degli avvenimenti presenti e delle lezioni che ci costringono a ricercare, ancora una volta e con chiavi interpretative diverse, nel passato. Nazionale o mondiale che esso sia.
Se le contraddizioni sociali del presente spingono gli studiosi, come Sabbatini, a reinterpretare, almeno parzialmente il passato, ciò è dovuto al fatto che, nel campo della Storia, Passato e Presente si influenzano a vicenda. Il primo ha sicuramente determinato il secondo, ma le necessità del secondo finiscono altrettanto col portare ad una ridefinizione delle vicende passate. Se poi si considera che il Presente costituisce in continuazione un attimo fuggevole, precipitando costantemente in ciò che ci ostiniamo a chiamare Futuro, diventa allora evidente che è proprio l’ultimo a determinare le scelte del Presente e le interpretazioni del Passato. Con buona pace di tutti coloro che si affannano a creare e ricreare modelli evolutivi, politici e interpretativi validi una volta per tutte.
Se invece interpretiamo il lavoro degli storici più onesti e attenti ai cambiamenti, attuali e passati, nel senso sopra suggerito potremmo accorgerci che la Storia stessa, come disciplina, non costituisce altro che un continuo work in progress, più vicino ai caratteri della ricerca scientifica moderna che non a quelli della funzione giustificazionista e stabilizzatrice delle età precedenti.
Ecco allora che i fatti riportati nel testo, riguardanti la “piccola” Repubblica di Lucca nel ‘500, nell’esposizione fattane da Sabbatini ci rimandano ad un periodo di autentica “guerra civile”, i cui risultati definitivi si sarebbero visti soltanto a decenni o secoli di distanza, che, però, allo stesso tempo ci rinvia ai tempi attuali e alle rivolte in ogni parte del pianeta che li caratterizzano. Un contesto più ristretto, quello della Lucca cinquecentesca, che però ricorda da vicino il più vasto rivolgimento sociale, politico, economico e religioso che percorse la Francia nei due secoli e mezzo che precedettero la Grande Rivoluzione (qui).
Quella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 1531, il cantar maggio invece di essere il consueto, gioioso inno all’inizio della bella stagione, magari con qualche carnevalesca licenza o satira impertinente, si trasformò, per il “pacifico e popolare” stato di Lucca, nel lugubre annuncio di una lunga e sanguinosa fase di lotta politica e sociale […] Protagonisti sono i giovani setaioli che
abitano nei borghi murati a ridosso delle mura medievali, presto inglobati all’interno della nuova cerchia urbana. Hanno respirato la tensione che dalla fine di gennaio correva tra gli artigiani contro i mercanti per le nuove leggi, severe e punitive, e prendono l’occasione del calendimaggio per « far qualche novità contro di loro » […] Cosí, in formazione militare duecento giovani marciarono per i borghi e per la città, senza timore e rispetto della giustizia. E quando incontravano qualche nobile cittadino, non solo non gli facevano la dovuta riverenza, ma lo guardavano con atteggiamento di sdegno e di disprezzo. Ripresi da un «cittadino qualificato e raro nelle sue azioni», che pacatamente li consigliava a non aggirarsi per la città armati, con il rischio di commettere qualche grave reato, ma di andare invece a cantare e a divertirsi nelle campagne, i giovani gli risposero a muso duro che erano fuori di sé e di levarsi dai piedi urlandogli frasi sdegnose e minacciose. « Scorretti et audaci, in modo che ciascuno se ne meravigliava », i giovani setaioli scorrazzarono tutta la notte per la città e le ville vicine.
Ma questo è solo il prologo. La sollevazione prende avvio il giorno seguente, il primo maggio, con un grande assembramento di tessitori e altri artigiani della seta, non nella sede della loro Scuola, ma nella chiesa di San Francesco, « dove hanno l’altare per loro devotione », e poi anche nel chiostro del convento, vista l’enorme partecipazione. Come si è giunti a questa « raunata seditiosa »? Sediziosa e certamente illegale, ancor più perché non si tratta di una rivendicazione che oggi chiameremmo sindacale, ma esplicitamente politica dato che la folla tumultuante chiede il ritiro di una legge approvata dal Consiglio generale1.
Qual era dunque il provvedimento approvato dal Consiglio generale della Repubblica che era stato all’origine del rivolgimento giovanile di una notte e poi, per quasi un anno, di quello, anche violento e armato, degli strati popolari e più poveri della stessa?
E’ proprio l’autore a spiegarcelo sulla base dei documenti dell’epoca e con lo sguardo rivolto ad una situazione economica e produttiva internazionale che, di fatto, avrebbe segnato la fine dei privilegi accordati alle consorterie artigianali e alle corporazioni dei piccoli produttori.
Il gruppo dei mercanti interessati alla lavorazione della seta (i consoli della Corte dei Mercanti e i sei indicati dal Consiglio generale per l’elaborazione delle nuove disposizioni), di fronte alla crisi del mercato internazionale e a quelli che sono definiti « abusi » degli artigiani, mette in campo (anche con una forzatura istituzionale) una riforma che mira a “proletarizzare” i maestri tessitori indipendenti togliendo loro la possibilità di tessere in proprio e riducendoli, da piccoli imprenditori
quali erano con alle dipendenze qualche lavorante, a quasi-salariati, peraltro con una forte riduzione del compenso. In sostanza – sensibili alle tendenze che percepiscono nei mercati di Lione, Londra, Anversa nei quali sono ben presenti e attivi – i grandi mercanti cercano di superare l’organizzazione corporativa cittadina: in nome del mercato, più una rivoluzione che una riforma.
Il primo maggio la sollevazione prende avvio, con il tumultuoso assembramento di testori in San Francesco e il giorno successivo il Consiglio cancella tutte le nuove, punitive disposizioni, anzi fissa il prezzo delle manifatture in misura ancor più favorevole ai maestri artigiani.2
Questo però, anche se risoltosi inizialmente in maniera favorevole per i piccoli artigiani, costituirà soltanto il primo atto dello scontro a venire; in uno scenario in cui gli attori saranno numerosi e destinati spesso a mutare ruolo, funzione e fini. Uno scontro tra classi ancora, per certi versi, spurie e soltanto parzialmente consapevoli delle forze politiche, economiche, morali, religiose e dei conseguenti interessi individuali e collettivi che si erano messi in moto.
Uno scontro, che l’autore finisce col definire, sulla base delle testimonianze dei contemporanei, come una vera e propria guerra civile, che si concluderà soltanto con la vittoria dei mercanti e dei nobili della città con l’aiuto dei contadini, soprattutto dei mezzadri o salani, del contado circostante. I cui interessi sul momento sarebbero stati più vicini a quelli dei proprietari terrieri delle “sei miglia” intorno alle mura di Lucca, in cui a partire dal Quattrocento si era diffusa una proprietà cittadina, che a quelli dei piccoli artigiani e dei lavoratori salariati della stessa. Una distanza di interessi cui i capi della rivolta non seppero dare risposte utili e che finirono col travolgerli.
La vicenda degli Straccioni si presenta come conseguenza della schizofrenia tipica dei primi secoli dell’Età moderna, in cui le vecchie logiche corporative si scontrano con il progressivo affermarsi delle regole del mercato. I drappi di seta vengono fabbricati dagli artigiani cittadini nel rispetto
(almeno formale) delle regole dell’arte che assicurano la protezione, quantomeno dei maestri artigiani (e assai meno dei loro lavoratori salariati). Ma poi, sul mercato lontano, francese, fiammingo, tedesco, i drappi sono venduti con la regola della concorrenza sul prezzo. Indipendentemente dal grado di consapevolezza che i contemporanei potevano avere del fenomeno, si è così di fronte alla dirompente alternativa tra la difesa del vecchio ordine corporativo, che assicura la pace sociale ma ormai non piú lo sviluppo economico, e l’azzardo del nuovo che comporta la libera competizione sul mercato globale con la perdita di ogni rete protettiva.3
Molti saranno gli episodi che segneranno quello che per i benpensanti del Palazzo fu un autentico annus horribilis e molte le conseguenze delle scelte operate dalle differenti fazioni che si incrociarono e si scontrarono in quegli undici mesi, ma quel che vale davvero la pena qui di sottolineare è costituito dall’attualità di uno scontro e di una protesta che, all’interno di un primo processo di globalizzazione dei mercati e della produzione, rinvia immediatamente, fatte le dovute differenze, ai malesseri che agitano le società attuali; in cui la perdita di sicurezza e di certezze economiche e sociali dei lavoratori e delle classi medie in via di proletarizzazione è causa di proteste e scontri che non trovano ancora un indirizzo reale verso cui dirigersi, anche perché le grandi ideologie novecentesche possono fornire loro soltanto risposte parziali, se non addirittura fuorvianti.
Proprio come le certezze della ricerca storica precedente non bastano più a dare risposte alle domande sul nostro passato oppure sul nostro divenire futuro. Per questo il libro pubblicato da Salerno, nella collana Aculei diretta da uno storico attento ai movimenti sociali del passato e del presente come Alessandro Barbero, si rivela oggi estremamente stimolante e utile per tutti coloro che non vogliano più accontentarsi di una Storia data per scontata e di una Politica fatta di slogan e frasi fatte.