Tra Azerbaijan ed Armenia è riemerso uno scontro militare accesosi nel 1988 e acutizzatosi con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica. Il conflitto ha visto contendersi una regione di poche migliaia di chilometri, quella del Nagorno-Karabakh, a partire dalla dichiarazione d’indipendenza dei cittadini di questo territorio nel 1988; gli armeni che hanno da sempre rifiutato l’Azerificazione. Da allora è stato ripetutamente violato il cessate il fuoco, fino ad oggi, in cui si registrano aspri combattimenti tra esercito azero e forze indipendentiste armene. Abbiamo parlato di questo argomento, rivolgendogli alcune domande a Hovhannes Gevorkian, giurista che vive a Berlino, ma è nato e cresciuto in Armenia, a Yerevan.
Quali sono le ragioni che hanno determinate l’escalation militare e gli attacchi tra Azerbaijan ed Armenia? Credi che dietro gli attacchi dell’ esercito azero ci sia l’esercito Turco? E se si, perché?
L’attuale escalation militare è chiaramente guidata dalla Turchia, poiché non sono coinvolte solo armi turche e servizi di intelligence, ma anche mercenari jihadisti sostenuti dai turchi provenienti dai territori occupati in Afrin/Rojava. È anche degno di nota il fatto che l’Azerbaigian abbia avuto esercitazioni militari comuni con la Turchia in agosto, che possono essere viste come una preparazione a questa guerra. Funzionari statali turchi come il Ministero della Difesa, Hulusi Akar o lo stesso presidente dello Stato Recep Erdogan hanno una retorica molto belligerante. Erdogan, ad esempio, ha affermato che ora porteranno a compimento «la missione dei loro antenati nel Caucaso», un chiaro riferimento al genocidio turco degli armeni e di altri cristiani nel 1915.
Quindi i rapporti sono pessimi ed entrambi gli Stati non hanno più rapporti diplomatici dalla guerra degli anni ’90. Il presidente della regione di Artsakh (Artsakh è il nome armeno di Karabach), Arayik Harutunyan è arrivato a dire che «non l’Azerbaijan, ma la Turchia sta combattendo questa guerra con noi, con le sue moderne attrezzature, i jet e il personale militare». E infatti la Turchia è coinvolta come non lo è mai stata prima e anche sul piano retorico, dopo lo scoppio dei primi scontri di luglio, è ancora più aggressiva dell’Azerbaigian. Si può anche notare che la Turchia sta conducendo la guerra anche su Internet e a volte anche la rete telefonica in Azerbaigian è chiusa e i giornalisti stranieri non possono entrare nel paese (tranne i giornalisti turchi favorevoli a Erdogan e uno di loro, Ibrahim Karagül del quotidiano Yeni Safak, ha persino suggerito di bombardare Yerevan).
Puoi raccontarci alcuni dei momenti più significativi del conflitto tra Azerbaijan ed Armenia, che dura ormai da decenni?
Il momento più significativo è stato sicuramente la lunga guerra dal 1988 al 1994, dove circa 30.000 – 50.000 persone sono morte e più di un milione di persone sono fuggite dalla loro patria. Crudeltà e deportazioni di massa sono avvenute da entrambe le parti e anche numerosi massacri di civili.
Fu una guerra sanguinosa nel contesto del crollo dell’Unione Sovietica, di cui entrambi i paesi facevano parte. L’Armenia ha vinto la guerra su Karabach e non solo controlla Karabach stessa, ma anche alcune delle province vicine come Kelbajar. È importante affermare che entrambi i paesi hanno firmato il 12 maggio 1994 un cessate il fuoco, non un accordo di pace. Da allora l’Azerbaigian rivendica i territori come parte dello stato azero, mentre l’Armenia li vede di fatto come parte dell’Armenia. Di tanto in tanto ci sono state sempre schermaglie, ma nell’aprile del 2016 è scoppiata di nuovo una guerra su vasta scala, ma è durata solo quattro giorni poiché la comunità internazionale (soprattutto la Russia) ha fatto pressioni per trovare una soluzione diplomatica. La regione è ora prevalentemente armena, ancor di più come era in epoca sovietica, quando circa l’80% degli abitanti erano armeni.
Ci sono sempre stati negoziati, ma non sono andati da nessuna parte, il che ha frustrato l’Azerbaigian, mentre l’Armenia voleva più o meno mantenere lo status quo. Formalmente Artsakh si è dichiarato indipendente, cosa che l’Armenia non ha mai riconosciuto per motivi diplomatici, cosa che potrebbe cambiare a causa di questa guerra.
La Russia, che ha buoni rapporti con entrambi i Paesi, ma soprattutto con l’Armenia, dove ha anche una base militare, ha spesso agito da mediatore, ma rimane più o meno calma in questo momento. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha comunicato intensamente sia con Yerevan che con Baku ed è molto esperto in materia (i suoi genitori sono addirittura del Caucaso), ma vedremo che tipo di azioni intraprenderà la Russia tenendo presente che ha vari interessi contraddittori con la Turchia, non solo nel Caucaso ma anche in Siria e in Libia.
Come giurista posso dire che la situazione è molto più complessa di quanto spesso descritto dalla maggior parte dei media. Il popolo di Artsakh ha tenuto nel 1991 un referendum in cui ha votato a favore dell’Indipendenza che la comunità internazionale non l’ha mai accettato, agendo in maniera opposta a quanto fatto per il Kosovo o il Sud Sudan l’ha accettato. Vediamo che questo caso è anche una questione di diritto all’autodeterminazione: non sorprende che l’Assemblea nazionale della Catalogna (una regione che ha avuto un referendum e ha dichiarato l’indipendenza) abbia per esempio espresso solidarietà per l’Armenia.
Due anni fa in Armenia ci fu un’importante mobilitazione di massa per i diritti sociali e civili. Qual è la situazione del paese oggi?
Grazie alla mobilitazione di massa, Nikol Pashinyan è salito al potere ed è Primo Ministro dal maggio 2018. Ha un programma liberale e ha dichiarato fin dall’inizio che “Artsakh è armeno”, dimostrando che per quanto riguarda la politica estera non ci sarebbero stati grandi cambiamenti. Ma è stato eletto e sostenuto per porre fine alla corruzione, aumentare il tenore di vita e democratizzare le istituzioni statali. Economicamente l’Armenia era sulla buona strada, con un aumento del PIL nel 2019 del 7,6 per cento rispetto al 2018.
L’economia è la chiave in un Paese dove tra il 2008 e il 2018 oltre 300.000 persone sono emigrate a causa di una pessima situazione economica, ma anche di uno stato corrotto. In quel periodo il primo ministro era Serj Sargsian ed era molto impopolare: ci sono state molte segnalazioni che aveva truccato le elezioni e, anche se il suo mandato sarebbe dovuto terminare nel 2018, ha voluto continuare e candidarsi ancora una volta estendendo il suo potere nello stesso modo che abbiamo visto fare a Wladimir Putin a Recep Tayyip Erdogan, e naturalmente Ilham Aliyev. Quell’annuncio nell’aprile 2018 ha dato il via a un movimento di massa che ha fatto grandi azioni di disobbedienza civile.
Il 2020 sarebbe stato un anno chiave dal punto di vista economico – considerando che alcuni analisti parlavano anche di una “Silicon Valley caucasica” dovuta al forte sviluppo del settore informatico dell’Armenia – ma la pandemia di Covid 19 ha fermato tutto e ha colpito duramente l’Armenia. Come molti altri paesi, l’Armenia è andata in lockdown, il che significa che la situazione economica è peggiorata. Ma soprattutto per i giovani esistono ancora i ricordi e le richieste (come l’aumento dei salari) del movimento di massa del 2018.