Sport e dintorni – Il mondo ultrà svelato da Daniele Segre

di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Dopo il cortometraggio Il potere deve essere bianconero, poi confluito in una più ampio documentario audiovisivo sulle curve della Juventus e del Torino intitolato Ragazzi di stadio (1978) e nell’omonima produzione editoriale riportante interviste e fotografie, con Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo (2018), film presentato nel corso del 36° Torino Film Festival, Daniele Segre torna a indagare il mondo degli ultras.

I pionieristici lavori sui tifosi realizzati dal documentarista torinese sul finire degli anni Settanta, hanno concesso ai giovani ultras, per la prima volta in Italia, la possibilità di presentarsi direttamente: è infatti la voce degli intervistati a restituire il senso della loro esperienza collettiva e a far emergere le molteplici sfaccettature sociali, politiche, simboliche della sottocultura del tifo.

Sin dal primo lavoro audiovisivo di fine anni Settanta emerge chiaramente quanto l’immaginario dell’epoca dei giovanissimi supporter risulti permeato dal clima politico dei tempi: le immagini del corteo degli ultras diretto allo stadio mostra passamontagna calati sul volto, mani levate mimando la P38, cori e scritte sui muri che riprendono l’antagonismo sociale dell’epoca. Le inchieste sul mondo del tifo di fine anni Settanta tratteggiano una generazione di tifosi che vivono con spontaneità e allegria l’avventura ultrà, tanto che le stesse discussioni all’interno dei rispettivi gruppi, durante i preparativi in vista del derby, risultano genuine e informali, ben lontane dalle maniacali gerarchie e dalla militarizzazione che caratterizzeranno il tifo di quarant’anni dopo.

Uno degli indiscussi meriti dei pionieristici lavori di Segre sul mondo ultras è quello di aver saputo presentare i giovani tifosi all’interno di un contesto sociale più allargato rispetto alle gradinate dello stadio. Una sequenza de Ragazzi di stadio, ad esempio, mostra un giovane operaio al lavoro in officina con la macchina da presa che indugia sulla ripetuta oscillazione del capo del ragazzo intento a seguire il movimento del macchinario non lasciando dubbi sul carattere alienante della sua attività lavorativa. Dismessa la tuta da lavoro il giovane si sistema in abiti civili per lasciare la sua vita d’officina e le immagini, con lui, passano alla sua alla sua esistenza fuori dalla fabbrica ed è qui che il mondo del tifo si rivela come una spasmodica ricerca di vita oltre la routine della fabbrica.

Dai racconti dei giovani emergono le forme organizzative dei gruppi, le modalità dell’autofinaziamento e, nel caso degli “Ultras Granata”, anche il ruolo della componente femminile all’interno del tifo organizzato. Nonostante nelle curve siano presenti anche giovani di area neofascista, entrambe le tifoserie torinesi risultano in maggioranza orientate a sinistra, soprattutto estrema, dalla quale, non a caso, riprendono molti slogan. Gli attriti tra le diverse impostazioni politiche sono attenuati dalla comune “fede” calcistica che suggerisce di “lasciare la politica al di fuori dello stadio”.

Da parte loro i tifosi granata manifestano nei confronti della Juventus un odio da loro definito “classista” mentre i supporter juventini non avvertono contraddizione tra tifare per la squadra di Agnelli e dirsi di sinistra. Al di là delle appartenenze politiche a valere è soprattutto, come detto, la “fede” calcistica, fondamento del legame di gruppo, e la curva come spazio di socializzazione nel quale stringere amicizie, vivere un’esperienza disinteressata, creare un’unità che può nascere anche dagli scontri con la polizia e con gli ultras delle altre squadre.

Cosa resta, a distanza di tanto tempo, del mondo ultrà di fine anni Settanta? Cosa è sopravvissuto e cosa è invece decisamente cambiato? È anche per rispondere a tali interrogativi che Segre realizza Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo. Il nuovo lavoro è incentrato sul gruppo juventino dei “Drughi” che conta di una componente di tifosi di lungo corso e una di giovani. Nel corso del film si alternano in modo incalzante immagini di cortei, coreografie, interviste a camera fissa registrate nella sede del gruppo, immagini tratte dai primi lavori di Segre accostate a riprese recenti, come a suggerire possibili confronti. Nelle prime sequenze di questa nuova realizzazione, la macchina da presa conduce all’interno della sede del gruppo inquadrando i murales sulle pareti d’ingresso e la foto di Mussolini che campeggia tra i vessilli bianconeri, per poi mostrare diversi tifosi in buona parte costretti a seguire la partita alla televisione a causa delle diffide che vietano loro l’accesso allo stadio.

A differenza di quanto avvenuto nei documentari precedenti, ora i tifosi sembrano abituati a fare i conti con la macchina da presa, tanto che frequentemente si atteggiano in studiate “pose da duri”, come a voler sfruttare l’occasione offerta dalla vetrina del documentario. Nel nuovo film Segre non palesa mai la sua presenza né nelle immagini né attraverso la “voce off” e, probabilmente, ciò è dovuto anche alla maggior propensione dei tifosi di oggi ad autorappresentarsi.

Come quarant’anni prima, il film restituisce l’esperienza totalizzante del tifo vissuto in una dimensione comunitaria e la dedizione assoluta e continua alla propria causa è considerata il segno distintivo dell’autentico tifoso che si differenzia così dai tiepidi e detestati spettatori della tribuna. Alcuni supporter raccontano dei problemi che l’appartenenza al gruppo ha comportato in famiglia e sul lavoro e, in diverse circostanze, emerge come, più che la partita, ai giovani interessi conquistarsi spazi di protagonismo.

Il nuovo lavoro di Segre consente di cogliere alcune trasformazioni avvenute nel mondo degli ultras in relazione ai mutamenti sociali e politici. Se i vecchi “Fighters” bianconeri ritratti dall’autore a fine anni Settanta si presentavano come un gruppo relativamente informale e spontaneo, i nuovi gruppi hanno costruito nel tempo un preciso assetto organizzativo. I “Drughi” sollecitano la partecipazione e nello stesso tempo la incanalano e la inquadrano in un sistema di ruoli e di regole, di ordine e di disciplina interna. La struttura fa capo a un direttivo guidato da leader carismatici che si sono conquistati “sul campo” un primato indiscutibile e ribadito ogni domenica nei rituali della curva. Esiste una precisa divisione dei compiti che deve essere rigorosamente rispettata: il “lanciacori”, gli “striscionisti”, l’addetto alla “logistica” che si occupa del reperimento dei biglietti e dell’organizzazione delle trasferte e persino il “capoguerra”, colui che decide se ci si deve o meno scontrare, e con quali modalità, con i gruppi avversari.

Anche dal punto di vista politico il cambiamento è netto. Afferma risoluto un “anziano” intervistato: «la nostra è una curva che segue ideali di destra e ne siamo orgogliosi», poi aggiunge perentorio che l’ideologia politica non deve però mai prevaricare gli interessi della curva. Un altro ultras di vecchia data spiega: «non c’è democrazia allo stadio… altrimenti ognuno fa quel che vuole… un po’ di dittatura ci deve essere per forza». Un esponente storico della curva si sente in dovere di precisare che «non c’è razzismo. Il razzismo per me è un’altra cosa, non è cantare “Vesuvio lavali col fuoco” o “’Firenze in fiamme”… oppure urlare contro il giocatore “negro”… quello non è razzismo è uno sfottò… ci diverte cantare queste canzoni ma non è razzismo».

La leadership del gruppo, esclusivamente maschile, è costituita soprattutto dagli “anziani”, in alcuni casi reduci dei vecchi “Fighters”, che si autorappresentano come custodi della memoria e demiurghi del tifo juventino. Dalle loro interviste emerge la classica logica binaria che struttura l’immaginario collettivo degli ultras – fedeltà/tradimento; onore/disonore; ardimento nello scontro fisico/ignavia -, l’orgoglio per le battaglie combattute che li ha portati a essere sottoposti al divieto di partecipare agli incontri sportivi, la concezione della violenza, con i relativi codice di onore, inglobati nell’ideologia della curva che fanno assoluto divieto di denunciare i nemici. Non senza contraddizioni afferma un tifoso: «Il mondo ultras è fatto di forti, di vincitori e di vinti, di violenza verbale, anche di violenza fisica così come il mondo che ci circonda, violenza verbale la troviamo tutti i giorni, in televisione, sui giornali, al cinema, la violenza è ormai qualcosa che innaturalmente è entrata a far parte della nostra esistenza, noi l’abbiamo sempre vissuta, nel bene e nel male, per cui non è un qualche cosa che vediamo contro natura, è qualche cosa che ci appartiene, appartiene al mondo ultras storicamente».

Anche lo spazio della curva risulta ora sottoposto a una rigida regolamentazione costruita sui “meriti” acquisiti nel tempo e viene rivendicata con orgoglio la specificità della curva rispetto agli altri settori dello stadio. Alcuni ricordano anche come l’eroina nei primi anni Ottanta abbia falcidiato la tifoseria e come il ricambio generazionale abbia, in alcuni casi, provveduto ad allontanare alcuni “vecchi” perché legati a un mondo che a loro non apparteneva.

Nel documentario viene mostrata anche una riunione del “Direttivo” ove, tra i presenti, si intravedono anche alcune ragazze. Un “anziano” ricorda come molti della vecchia guardia siano diffidati e come ci si adoperi per aiutare i gruppi “più meritevoli”. A dare il senso della stretta gerarchia che contraddistingue la curva, un giovane tifoso, durante la riunione prende la parola solo per dire con orgoglio ai “vecchi”: «noi siamo qui non per dire la nostra ma per metterci a disposizione».

Alcuni intervistati approfondiscono la “logica ultrà” spiegando cosa significa stare “in prima linea” evitando di scappare durante gli scontri. C’è anche chi tiene a ricordare che «non abbiamo mai toccato i bambini e le famiglie… come facciamo a riconoscerci allora? Dall’odore! Quello puzza come te». Un “anziano” ricorda: «tanti anni fa esistevano anche delle regole; ci si trovava a mani nude, magari con qualche mazza di piccone ma niente di particolare. Il codice fondamentalmente doveva essere quello ma poi, col passare del tempo, sono successe tante cose brutte che hanno portato anche a vedere armi, coltelli e pistole nei vari gruppi ultras». Alcuni tifosi si soffermano anche sulle esperienza dell’arresto, della detenzione, delle pene subite, del sostegno legale e della rete di solidarietà in carcere.

Pur mostrando diversi elementi di continuità con le analoghe esperienze delle passate generazioni, il mondo ultras contemporaneo che emerge da Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo, palesa diversi e profondi mutamenti a testimonianza delle grandi trasformazioni che hanno caratterizzato la società italiana e il suo immaginario. Al di là delle curiosità per un’esperienza che, tra mille contraddizioni, in risposta ad un desiderio di partecipazione e ad un bisogno di socialità, ha saputo coinvolgere in Italia decine di migliaia di individui, il lavoro di Segre, come ha spiegato lui stesso nel corso della presentazione al Torino Film Festival, si propone come spunto per «per raccontare la realtà del tempo presente e il calcio probabilmente è solo una scusa per raccontare qualcos’altro che avrebbe senso approfondire e scavare».

Negli ultimi tempi alcune tra le maggiori curve italiane sono state investite da inchieste giudiziarie che hanno fatto emergere gravi contiguità di alcuni gruppi del tifo con la malavita organizzata e con l’estrema destra. È questo un fenomeno che merita di essere indagato con attenzione al fine di comprendere quanto sia estesa tale deriva. La stessa tifoseria juventina è stata al centro di una recente inchiesta della procura di Torino coinvolgendo diversi dei protagonisti del recente film di Segre.
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Per una trattazione più articolata a proposito del lavoro di Segre sul mondo del tifo si rinvia alla pubblicazione: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, “I ragazzi di stadio”. Il viaggio di Daniele Segre nel mondo degli ultras, in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”, 3 (2019) [03-11-2019]. [Link]

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