«Finché possiamo dire: “quest’è il peggio”, vuol dir che il peggio può ancora venire».
W. Shakespeare, Re Lear
La desolazione di Piazza San Francesco ti sorprende una sera di fine luglio, mentre attraversi in bicicletta il centro di Bologna, per andare da tua madre a riparare un rubinetto.
Lo spazio di fronte alla facciata gotica della chiesa è serrato da un recinto di transenne. Vuoto, ad eccezione di un’auto dei vigili urbani parcheggiata proprio al centro.
Avevi letto sui giornali dell’ultimo provvedimento «contro la movida». Sapevi che con la scusa della pandemia il sindaco aveva colpito un luogo di ritrovo indecoroso, perché i ragazzini prendono a pallonate la porta della chiesa e i giovani bevono le birre fredde dagli ambulanti abusivi, seduti per terra. L’avevi sentito dire, eppure pensavi che «piazza chiusa» fosse una metafora, un modo di dire, non un’altra voce nella lista di ordinanze e sparate per le quali Virginio Merola lascerà ai Bolognesi un ricordo sgradevole. In questo caso quello dell’inquilino del Palazzo che dà la colpa alla Piazza, perfettamente in linea con gli altri amministratori di vario colore e grado.
Per curiosità, quella sera di luglio, modifichi il tuo percorso abituale e passi dallo slargo dietro il Mercato delle Erbe, a trecento metri da Piazza San Francesco. Lì, seduti ai tavolini, davanti agli aperitivi da dieci euro, gli avventori si assembrano nei déhors che si mangiano la strada. A quanto pare la pericolosità del coronavirus è inversamente proporzionale al costo delle bevande, e il virus circola di più laddove si spende meno e ci si siede gratis. Stando all’ultimo dpcm del 18 ottobre, pare addirittura che circoli soltanto dopo una certa ora.
Le piazze sono il cuore di una città, fin dai tempi di Pericle e di Platone. Sono il simbolo della politica, dell’incontro, del conflitto. Chiuderle significa avere in spregio l’idea stessa di cittadinanza, considerare i cittadini a priori irresponsabili verso se stessi e lo spazio che vivono insieme agli altri. A febbraio, nella seconda puntata del nostro Diario virale, scrivevamo che l’agorafobia, la paura dei luoghi pubblici e aperti, si era diffusa ben prima del nuovo virus, e che l’emergenza avrebbe rafforzato l’ideologia del decoro, del «padroni a casa nostra». Scrivendo «agorafobia» non pensavamo che qualcuno avrebbe tradotto alla lettera quel composto di termini greci. Piazza San Francesco è transennata da più di due mesi e da qualche giorno anche Piazza Verdi – da sempre luogo controverso della vita universitaria – e Piazza Aldrovandi, non molto distante, vivono lo stesso paradosso: luoghi di ritrovo dove non ci si può ritrovare. Eppure l’agoracidio lascia indifferente la città. Lo sgombero di tre piazze non viene associato ad altri sgomberi, come quelli di XM24, Ex-Telecom, Atlantide, Bartleby e via risalendo la timeline della trista Meroliade. Sul finire del secolo scorso le ipotesi di chiusura di Piazza Verdi scatenavano reazioni immediate da parte di fior di “revolucionarios”. Oggi nessuno protesta, nessuno abbozza uno straccio di corteo (per carità, sarebbe un assembramento).
Un sindaco interdice ai cittadini luoghi pubblici della città; gli fa eco un governatore regionale annunciando che ad Halloween verrà instaurato il «coprifuoco», come in un horror movie di serie B. Infine il dpcm del governo recepisce la dritta e affida agli amministratori locali la possibilità di chiudere vie e piazze dopo le nove di sera, ché il Coronavirus, si sa, è nottambulo.
Va bene tutto. Perché tutto viene fatto per il più nobile dei fini, al motto «per contenere il virus dobbiamo cedere quote di libertà» (M. Giannini). Quali libertà? Le libertà di chi? In base a quali evidenze scientifiche o almeno empiriche e a quali ragioni logiche?
Sì, perché forse potremmo davvero farcene una ragione se almeno fosse chiaro che serve a qualcosa. Se per salvarci dobbiamo mascherarci (fatto), svuotare le piazze (fatto), introdurre protocolli di comportamento per i luoghi frequentati da molte persone (fatto)… be’, eccoci qua. Gli ammalati però, a quanto pare, continuano ad aumentare. E nel discorso dominante continua a essere colpa nostra, degli italiani «indisciplinati» e «furbetti», che si accaniscono ad avere una vita sociale, a dover andare al lavoro o a scuola con i mezzi pubblici, a volersi tenere in forma fisica anziché arrendersi alla cattiva salute.
È lo stesso copione che abbiamo sentito recitare da febbraio a maggio. Come allora, è un copione non solo classista e fuorviante, ma anche farsesco e tragico allo stesso tempo, perché se dopo sette mesi il sistema sanitario è di nuovo a rischio collasso significa che il provvedimento più efficace nel tempo intercorso è stato quello della rotazione inclinata dell’asse terrestre, cioè l’estate. Adesso che torna il freddo, servono diversivi. Bisogna nuovamente dire che siamo noi a non essere abbastanza «virtuosi», per spostare l’attenzione dall’incapacità gestionale di questi mesi e dai risultati catastrofici delle politiche sanitarie degli ultimi decenni, ormai sempre più manifesti.
È lo stesso diversivo usato per il problema climatico: dev’essere la tua condotta personale a risolvere il problema, e non già quella del potere politico-economico che potrebbe imprimere svolte vere. Recitare il Mea culpa sull’altare del capitale è il destino grottesco al quale si vorrebbe che ci rassegnassimo.
Circa un mese fa è uscita di straforo la notizia che c’erano picchi di contagio nei macelli industriali. Qualcuno ha forse pensato di chiuderli e di rinunciare a mangiare carne per qualche tempo? Prima ancora i focolai erano stati trovati negli hub della logistica, tra gli spedizionieri che girano per tutta Italia. Qualcuno ne ha forse invocato la chiusura chiedendo ai cittadini di accettare la sospensione delle consegne a domicilio come un disservizio necessario? Chi lavora in quei luoghi? In quali condizioni vive e si sposta? In generale qual è la situazione della sicurezza sanitaria nelle fabbriche e negli uffici? E i mezzi di trasporto per raggiungerli quanto sono stati potenziati? I focolai nei luoghi di lavoro meritano giusto qualche trafiletto, esattamente come a marzo, quando ci si accaniva contro i runner e i passeggiatori, mentre le fabbriche della Val Seriana lavoravano a pieno regime, nonostante il fantomatico Comitato Tecnico-scientifico – l’abbiamo scoperto dopo – raccomandasse da subito un lockdown localizzato.
Intanto, mentre fissa al 75% il lavoro a cottimo (oggi noto con l’eufemismo smart working), il governo tratta con padronato e sindacati sui tempi di prolungamento del blocco dei licenziamenti, come fossimo a maggio. Un provvedimento da tempi di emergenza, appunto, quando ormai è chiaro che l’emergenza durerà abbastanza da diventare normalità e dovrebbe essere affrontata con un piano complessivo di sostegno al reddito a lungo termine. Si pensa a come garantire che i lavoratori non vengano licenziati, quando molti di loro, passata la buriana, non troveranno più né il posto né il datore di lavoro, perché avrà chiuso baracca. Chi guida il paese è sempre due passi indietro alla pandemia. Ma è sempre colpa nostra.
Mentre ci bersagliano quotidianamente di numeri e dati decontestualizzati e feticizzati, i mass media prediligono parlare di movida, di scuola e scuole calcio. Cioè dei giovani, degli improduttivi. E sani. Il capro espiatorio perfetto: colpevoli di non essere abbastanza inclini al sacrificio, di voler vivere, e soprattutto di non ammalarsi.
I contagi nelle scuole, per quanto limitati, ricevono un’enorme attenzione mediatica, anche se non danno la soddisfazione sperata, anzi. I dati del Ministero dell’Istruzione, gli unici che si conoscono, dicono che gli studenti contagiati, al 10 ottobre, erano lo 0,08% del totale, i professori lo 0,133% e il personale non docente lo 0,139%. Dunque il luogo a più alta concentrazione di minorenni nella società italiana non ha affatto una percentuale più alta di contagi. Però è quello più attenzionato dai media, preso di mira, colpevolizzato, dove si fa la didattica a distanza a rotazione, dopo averla rinominata «didattica digitale integrata», per renderla organica ai normali corsi di studio, come qualche mestatore già ad aprile prevedeva sarebbe successo; mentre la didattica “normale” non è ancora davvero cominciata, perché a un mese dalla riapertura delle scuole, in molti istituti gli orari delle lezioni sono bucherellati dall’assenza di tanti professori.
Lo stesso capita con lo sport giovanile. Da primavera a oggi gli sport dilettantistici di contatto sono stati prima proibiti, poi riammessi con i protocolli di distanziamento, quindi sono state riavviate le competizioni, per poi essere nuovamente sospese e proibito il contatto. Solo la rassegnazione non ci fa chiedere conto di decisioni a fisarmonica come queste, che impediscono qualunque programmazione e continuità, cioè chiedere sulla base di quali dati, di quanti tamponi positivi tra i ragazzi e le ragazze, vengano presi i provvedimenti sullo sport, che però, guarda caso, non toccano mai il professionismo. Mica vorremo danneggiare gli interessi del grande capitale?
E così, lunga vita ai supporti audiovisivi (per chi ce li ha), con cui fare scuola, socialità, divertimento, tutto dalla propria cameretta (per chi ce l’ha).
Quello che è certo è che stiamo fottendo una generazione. E chissà che tra qualche anno non ce la faccia pagare con gli interessi, scatenando una vendetta da fare impallidire il ’68. Nel caso, noi sapremo per chi tifare.
Ci viene detto che se non torniamo a flagellarci sarà anche peggio di primavera. In effetti probabilmente è vero, potrebbe essere ben peggio, visto che c’è l’inverno e non l’estate ad attenderci. E allora accettiamo questo stato di cose come necessario, fingendo di non sapere che il passaggio tra la necessità e la normalità è molto breve. È proprio così che funzionano le politiche dell’emergenza. Niente di nuovo. Ma viviamo una distopia più triste di quelle cyberpunk che dominavano la fantascienza degli anni Ottanta-Novanta. Di tutte quelle immaginabili ci è toccata la peggiore: la dittatura degli inetti. E non è mica detto che non ce la meritiamo.
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