Gli ingranaggi dei ricordi, di Marisa Salabelle

Arkadia, Cagliari 2020, pagg. 184 € 15

(Pubblichiamo una nota dell’autrice e il capitolo IV)

di Marisa Salabelle

Gli ingranaggi dei ricordi è un romanzo, come direbbe il vecchio don Lisander, “misto di storia e d’invenzione”. Come si usa dire oggi, è “ispirato a una storia vera”.

Affronta, alternandole nella narrazione, le vicende di due gruppi familiari: i Dubois e gli Zedda-Serra. All’interno di ciascuno dei due filoni si alternano a loro volta due diversi piani temporali: il 1943-44 e il 2015-16. Il gruppo dei Dubois è rappresentato dall’anziana Demy e da sua nipote Carla, che si divide tra la Toscana, dove vive, e Cagliari, dove si reca spesso per prendersi cura della zia inferma. È lei che le racconta di quando, durante la guerra, si è fatta la Sardegna a piedi con la sorella Bella e il fratello Felice, padre di Carla. Il gruppo degli Zedda-Serra è costituito da Generosa e suo marito con la loro numerosa famiglia: anche loro devono affrontare i disagi della guerra, i bombardamenti, lo sfollamento. Il fratello più giovane di Generosa, Silvio, vive a Roma, è arruolato nei Gap e prende parte all’attentato di Via Rasella. Sulla vera storia di Silvio Serra indaga un giovane laureando in storia, Kevin, pronipote di Generosa.

Ho voluto scrivere questo libro principalmente per due motivi: il desiderio di raccontare la storia di mio padre, adombrato nella figura di Felice, e quello di riportare alla luce la figura di Silvio Serra, che il Dizionario della Resistenza Einaudi definisce “un eroe sconosciuto”. Ho letto e studiato molto, mi sono affidata a racconti e ricordi familiari, ho guardato filmati e fotografie e su queste basi ho sguinzagliato la mia immaginazione, cercando di “vedere” i personaggi durante le loro avventure e di “ascoltare” le loro conversazioni. La materia del romanzo è seria, ma punteggiata di aneddoti, un po’ veri e un po’ inventati, che l’alleggeriscono e creano anche momenti di divertimento. È un po’ questa la mia cifra narrativa, la “leggerezza” in senso calviniano, una punta di ironia: posso dire anche cose molto dure, ma cerco sempre di smorzarle con un sorriso. È un pregio? Un limite? Non so: questo è il mio modo, direi.

Generosa. Cagliari, 1943

 
Antonia e Giannina si precipitarono giù per le scale spingendosi l’un l’altra e ridendo come due sceme. Finalmente una boccata d’aria. Signora Generosa non era la peggior padrona sotto cui potevano capitare, ma Eufemia, che era quella che aveva l’effettiva autorità su di loro, era una vera negriera, le trattava come schiave, facendole sgobbare dalla mattina alla sera. Certo, fosse stato per lei, non le avrebbe mandate in due al mercato, ma signora Generosa era più indulgente, o forse la condizione in cui si trovava la rendeva meno battagliera. Comunque fosse, ce l’avevano fatta, una mezzoretta tutta per sé erano riuscite a rimediarla, e non era poco, a quei chiari di Luna.

La famiglia del dottor Zedda era impegnativa, la casa grande, tante camere da tenere in ordine, tre maschietti pestiferi cui badare, cui presto se ne sarebbe aggiunto un altro che avrebbe urlato a pieni polmoni dalla mattina alla sera, e signora Generosa con le sue paturnie da donna gravida, e le camicie del dottor Zedda da stirare, e le provviste da sistemare in dispensa, aiutare Eufemia a preparare i pasti, apparecchiare, sparecchiare, lavare i piatti, e meno male che il bucato, almeno quello non toccava a loro. Antonia se voleva riposarsi un momento doveva chiudersi in bagno, ma venivano a bussarle pure lì: «E sbrigati, che c’è da fare! Non starai mica leggendo giornaletti, chiusa in gabinetto da mezzora!» Giannina lo stesso, non aveva un minuto di pace, neanche per guardare fuori dalla finestra, in cortile, dove i giovani di studio del notaio uscivano a prendere un po’ d’aria. Il notaio, Ulderigo Zedda, era il fratello del dottor Zedda, aveva casa e ufficio al pianoterra, tutto il palazzo apparteneva alla famiglia: secondo e terzo piano erano occupati da parenti più poveri, anziani che salivano le scale arrancando e famigliole con ancora più figli di quella del dottore; nel sottotetto, oltre a vari locali usati come ripostigli, lavanderia e stenditoio, c’erano le stanze della servitù, in una dormivano le due ragazze, nell’altra Eufemia.

Dal portone grande si usciva sotto i portici: appena fuori, le ragazze quasi si scontrarono con due dei tirocinanti del notaio. I giovani le squadrarono da capo a piedi con un odioso sorrisetto sulla bocca. Cosa si credevano quegli schifosi, solo perché frequentavano la Facoltà di Legge e il notaio Zedda li aveva presi a tirocinio, e nemmeno li pagava, né gli dava vitto e alloggio, almeno Antonia e Giannina mangiavano e dormivano a spese degli Zedda e racimolavano anche qualche soldo da mandare a casa, in paese.

Belle, non erano belle, e lo sapevano senza bisogno che qualcuno glielo facesse capire guardandole con quell’espressione disgustata: ma si erano visti allo specchio quei due? Si credevano belli e aitanti, forse? Giannina era bassa e tarchiata, con le caviglie grosse e il sedere largo, aveva i capelli neri e crespi che teneva raccolti in una crocchia e le sopracciglia folte che quasi si riunivano sopra il naso. Antonia era una spilungona, senza un’ombra di petto, chiara di pelle e di capelli, con il mento sfuggente.

«Ecco l’articolo “il”», commentò uno dei giovanotti, per ironizzare sulla differenza di statura tra le due. Spiritoso! Le ragazze passarono oltre impettite, ostentando grande dignità. I bellimbusti le guardarono allontanarsi commentando i loro posteriori con parole spregiative. Belli loro! Giannina e Antonia continuarono a camminare come se avessero una scopa nel culo finché non ebbero svoltato l’angolo del Largo Carlo Felice, poi, quando pensarono di essere fuori dalla visuale dei tirocinanti, si rilassarono e rallentarono il passo.

Il mercato coperto si trovava circa a metà strada tra il Municipio e piazza Yenne. A quell’ora della mattina era affollato di donne che giravano tra i banchi in cerca di qualcosa da comprare, ma la merce scarseggiava, in più la qualità del cibo non era granché: frutta marcia, verdura appassita, pesce pudesciu. La roba buona la tenevano nascosta per venderla al mercato nero, ma le ragazze sapevano da chi andare e come rivolgersi: se c’era qualcosa di gustoso, sulla tavola del dottor Zedda ci arrivava, poco ma sicuro.

«Già l’ho visto come l’hai guardato», disse Giannina, che delle due era la più sveglia.
«Chi ho guardato?»
«Mulas.»
«Mulas? Ma se sembra una scimmia! T’arrori…»
«Eja, puoi dire quello che vuoi, tanto lo so che ti piace.»
«E tu allora? Sei innamorata di Setzu…»
«Setzu? Mai’n sa vida!»

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