Prima la Lombardia e la Campania e poi, a macchia d’olio, anche la Regione Lazio hanno deciso la scorsa settimana di decretare il coprifuoco da mezzanotte alle cinque del mattino. La pratica del coprifuoco è antichissima e risale ai tempi del Medioevo; una campana suonava a una determinata ora serale e gli abitanti dovevano spegnere i propri fuochi casalinghi con la cenere per non generare fumo e per non rischiare di incendiare durante la notte le abitazioni, costruite principalmente con il legno.
Ricordiamoci, però, che nel Medioevo non esistevano sistemi diffusi di riscaldamento interni, termosifoni o elettricità e per la maggior parte della popolazione il suono di quella campana si traduceva nel terrore del freddo notturno. E mentre a corte i Re godevano di tecnologici camini o stufe, dormivano sotto coperte pregiate di lana e indossavano pellicce calde di ermellino, orso o volpe, i sudditi erano costretti a spegnere l’unica fonte di calore concessa patendo il gelido buio.
Nel corso del XIV secolo, soprattutto in Francia, la pratica del coprifuoco venne assimilata e tradotta nell’impiego di ronde di cittadini che a turno controllavano che tutti spegnessero il proprio fuoco, ma anche che non accadesse niente di quello che di pericoloso c’è la notte: assassinii, furti, rapimenti e altro. E così la sorveglianza popolare notturna diventò presto un sistema poliziesco di vigilanza e punizione dei sudditi, con mandatario il Re di Francia.
È di dominio pubblico il resto della storia del coprifuoco; utilizzato in epoca contemporanea come strumento di controllo della popolazione in periodi di emergenza, di guerra e di agitazione sociale, fino ad arrivare al giorno d’oggi, in cui la misura viene utilizzata per limitare l’incontro tra persone e la circolazione del Coronavirus.
Ma quanto è realmente efficace? Che cosa si nasconde dietro alla decisione di imporre un coprifuoco in determinate fasce orarie in un periodo di pandemia?
A mio avviso è palese la continuità, anche in questa situazione, con la concezione storica del coprifuoco: le amministrazioni preferiscono scaricare la responsabilità di alcuni eventi (come lo erano gli incendi medievali) direttamente agli strati inferiori della società, continuando a colpevolizzare i comportamenti individuali e provando a mettere dei cuscinetti a problemi evidentemente strutturali, sistemici, contro cui i singoli possono, in realtà, fare ben poco.
Anzi, il potenziale organizzativo, creativo e solidale delle masse viene completamente schiacciato dalle misure repressive e così, ancora una volta, si va a colpire il terreno della riproduzione sociale per salvaguardare quello della produzione economica. Le persone, infatti, continuano ad andare a lavoro, prendendo i mezzi pubblici, attraversando i luoghi di lavoro che non sono messi in sicurezza e gli ospedali sono saturi e con pochissimi finanziamenti.
In una condizione del genere, pensiamo sia veramente la ‘’movida’’ il problema dei contagi? Anche la totale assenza di ricerche approfondite, di dati e rilevazioni empiriche in tutti i luoghi che si attraversano, ci parla di un totale disinteressamento governativo rispetto ai reali pericoli a cui si può andare incontro quando si esce di casa. Una gestione realmente democratica dovrebbe informare i cittadini dei rischi connessi al vivere fuori dalla propria abitazione e soprattutto ascoltare le voci di tutte quelle soggettività più colpite dalla crisi che già dai primi mesi di lockdown hanno portato avanti importanti rivendicazioni. I lavoratori dello spettacolo ne sono un esempio lampante, come i collettivi di medici, gli universitari, i ricercatori, i riders, i disoccupati, i lavoratori in nero, le sex workers ecc…
Pur nella loro dimensione liquida, l proteste dei giorni scorsi a Napoli e nei giorni precedenti in tutta la Campania rendono evidente la contrapposizione tra salute e lavoro, sulla quale i governi costruiscono le misure anti-covid. Certo, la composizione sociale estremamente variegata delle proteste rende difficile una lettura politica. Ma è anche palese che l’impoverimento di massa che sta colpendo in particolare il sud in questi mesi evidenzia una contraddizione: da una parte la richiesta di poter accedere ad un reddito universale, ad una sanità adeguata e di una vita degna, dall’altra parte si preme per continuare a tenere aperte le attività di lavoro, le scuole, gli uffici pubblici, tutto in nome dell’economia e del PIL.
Poco importa se andando a lavoro si rischia di contrarre il virus, se la gente non riesce a portare a casa il pane o se continuano a morire nei corridoi degli ospedali. Non dimentichiamo che, soprattutto in Campania e prima del lockdown, la salute era comunque messa in secondo piano: le discariche, il biocidio, infatti portano ad ammalarsi e a morire. Non ci sembra che questo importasse particolarmente al governatore De Luca che ha sempre preferito criminalizzare i movimenti ambientalisti e chiuso gli occhi di fronte alla devastazione del territorio.
Il sistema è sempre lo stesso: prima i soldi, gli affari, le imprese, il lavoro, e dopo la salute, la vita, la dignità e la giustizia. Da tempo quindi l’investimento strutturale ai sistemi sanitari è scarsissimo, se non nullo, e pare sempre di più che questo coprifuoco sia una misura insufficiente e dannosa, soprattutto per chi lavora nella ristorazione e nel mondo dello spettacolo. Perché allora non scendere in piazza? Credo che – a un certo punto – protestare, conquistarsi i diritti, non sia più solo una scelta ma una necessità. Infatti quanti di noi, razionalmente, avrebbero scelto di rischiare di prendere il Covid scendendo in piazza se questa paura non fosse minore della fame, della povertà, dell’assenza di tutele statali?
La frase da imparare come un mantra è sempre la stessa: il lockdown, il coprifuoco, non sono uguali per tutte/i. C’è chi si scalda con le coperte di ermellino guardando in basso chi muore di freddo. Vogliamo davvero vivere in un mondo in cui “i Re” possono decidere della vita e della morte delle persone? In cui l’unica priorità diventa quella di spegnere il fuoco notturno per salvaguardare la sicurezza giornaliera della produzione? In cui ci sentiamo individui con dei diritti solo se funzionali al capitale?
Questo è il momento di agire, di riconquistare spazi di intervento e potere lì dove le istituzioni hanno lasciato giganteschi vuoti e povertà. Questo, naturalmente, significa anche prendersi cura delle proprie comunità, sia dal punto di vista sanitario che politico ed economico. Se non vogliamo che la situazione peggiori dobbiamo essere noi a invertire la rotta, a rivendicare con forza e determinazione un reddito universale e il diritto alla salute, che includa qualsiasi soggettività e categoria. Non è tempo di scendere a compromessi: il fuoco continuerà ad ardere, è compito nostro appiccarlo, indirizzarlo, alimentarlo. Il nemico è proprio chi lo vorrebbe coprire.