Ecuador, alle scadenze dell’accordo con il FMI e sotto il ricatto delle compagnie petrolifere

Poco più di un anno fa, nell’ottobre 2019, l‘Ecuador, si incendiava per le proteste contro la riforma economica del governo liberista che voleva applicare i pesanti tagli al welfare previsti dall’accordo con il Fondo Monetario Internazionale. L’accordo consisteva in un prestito di 4,2 miliardi di dollari, ma costringeva al risparmio di 1,6 miliardi sulla spesa pubblica – ossia licenziamenti, aumento dei giorni lavorativi e riduzione della retribuzione dei dipendenti – e comportava l’eliminazione del sussidio statale sui carburanti e il conseguente aumento vertiginoso dei prezzi. Imponeva, inoltre, un maxi-condono sulle imposte delle grandi imprese multinazionali per una cifra complessiva paradossalmente pari a quella del prestito concesso. Colossi economici, per lo più nordamericani e cinesi, che gestiscono stabilimenti estrattivi e controllano reti di distribuzione di oro (Junefield, Lundin Gold, Ins Minerals) di rame (Ecuacorriente, ChinaExplorcobres), ma soprattutto  di petrolio (BP, Texaco-Chevron).

In un tempo relativamente breve, nella moltitudine che aveva invaso le strade, guidata dal movimento indigeno fino alle grandi città, erano confluiti sindacati e studenti, cooperative di lavoratori delle aree rurali e collettivi urbani per la giustizia sociale, militanti ambientalisti e comitati che si oppongono allo sfruttamento idrico e minerario, e questa moltitudine aveva dato prova che il risultato si poteva raggiungere, rovesciando le sorti del Paese. Moreno si era visto costretto a ritrattare sul paquetazo pur di mantenere stabile la sua posizione. 

Da allora però, la situazione non si può dire migliorata: allo scoppiare della pandemia il governo aveva vissuto una nuova crisi per la quale si era dimessa la ministra della Salute Pubblica, sostituita da Juan Carlos Zevallos Lopez, attualmente in carica. Inoltre, l’emergenza coronavirus in Cina, tra i maggiori importatori del petrolio ecuadoriano, aveva portato al crollo del prezzo di esportazione del greggio. 

Le conseguenze della diffusione del virus a livello globale hanno svelato definitivamente le disuguaglianze sociali locali. Nel caso dell’Ecuador, le manovre di investimento pubblico non hanno fatto altro che accelerare, nel corso dell’ultimo anno, estrattivismo minerario, privatizzazioni e liberalizzazioni, licenziamenti di massa e smantellamento del welfare, assecondando interessi predeterminati, funzionali a grandi imprese e gruppi di potere storicamente legati alle destre. Queste ultime, vedono il loro bacino elettorale più radicato e fedele nella provincia di Guayas, una delle aree maggiormente colpite dagli effetti devastanti del virus su una popolazione inerme, impreparata a rispondere a un’ondata dall’impatto così violento. 

Abbiamo ancora in mente le immagini raccapriccianti dei cadaveri abbandonati in strada, la totale mancanza di misure di prevenzione e di senso di umana solidarietà da parte delle Istituzioni e delle strutture sanitarie, immagini da inserire in un quadro di corruzione e di inadeguatezza generale, a livello sistemico. La soluzione delle autorità di Guayaquil, fu distribuire alla cittadinanza bare di cartone. 

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Ad oggi in Ecuador si contano più di dodicimila morti a causa della pandemia. 

I finanziamenti promessi dal FMI e l’incoerente gestione dei fondi pubblici da parte dello Stato costituiscono un continuo motivo di scontro: a maggio vengono stanziati 643 milioni di dollari da elargire nell’arco di cinque anni per arginare l’emergenza sanitaria, ma le condizioni di salute del Paese peggiorano e preoccupano. Si riaccendono le mobilitazioni, alcune delle quali represse sul nascere con feriti e arresti.

Lo scorso ottobre migliaia di persone sono tornate in piazza a manifestare, aderendo allo sciopero generale diffuso e a una giornata nazionale di resistenza popolare. Nel frattempo, i media nazionali davano il via a una campagna diffamatoria nei confronti dei movimenti che avevano animato le proteste del 2019. 

Nelle ultime settimane si respira un clima pre-elettorale di crescente tensione, influenzato in parte dagli avvenimenti che si sono susseguiti nel vicino Perù, ma soprattutto registrato ascoltando le testimonianze degli attivisti e leggendo i comunicati del Movimento Guevarista, che la polizia non esita a definire “gruppi di antagonisti, violenti” in un documento ufficiale di recente pubblicazione, con il preciso intento di delegittimare il dissenso e criminalizzare l’organizzazione sociale, ribadendo l’ovvietà del carattere reazionario del potere. 

La risposta dal basso è determinata: “La persecuzione politica è diretta verso chi aspira a una vita migliore per tutti gli ecuadoriani, per difendere i valori umani più sacri e per non vedere il nostro popolo sottomesso agli artigli criminali del FMI e della Banca Mondiale”.

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Il governo ha già incassato una parte del prestito internazionale, che vanta di aver speso nel saldare i debiti contratti dall’istituto di previdenza sociale (IESS), e aspetta ulteriori versamenti: 500 milioni di dollari a fine novembre dalla Banca Mondiale, e i restanti 2 miliardi di dollari a dicembre. D’altro canto, a causa del crollo delle esportazioni, la Banca Centrale dell’Ecuador prevede per il prossimo anno una contrazione del PIL tra il 7,3% e il 9,6%.

Le elezioni dovrebbero svolgersi il prossimo febbraio, mentre in questi giorni si discute una riforma fondamentale del sistema giuridico, la Legge Anticorruzione, anch’essa tra i requisiti imposti dal FMI, conformi alla Convenzione ONU, che prevede di introdurre nel Codice Penale nuove configurazioni per ipotesi di reato come clientelismo, peculato, tangenti nell’ambito degli affari privati.

Intanto, continua l’azione intimidatoria e persecutoria contro dirigenti di comitati popolari e attivisti sociali.

Il 9 novembre 2020 la stampa di tutto il mondo diffondeva le notizie della destituzione di Vizcarra al congresso nazionale di Lima, di moltitudini che nuovamente riempivano le strade di una metropoli latinoamericana, dell’ennesimo stravolgimento che cambia gli assetti politici di quelle regioni per noi remote del pianeta. Lo stesso giorno a Quito accadeva un fatto, forse di scarsa entità, che ci dà però un sentore dell’aria che si respira da quelle parti.

Ernesto Flores Sierra, portavoce del MGTL – Movimento Guevarista “Tierra y Libertad”, è stato pedinato ripetutamente dalla polizia in borghese mentre si recava presso uno studio medico per sottoporsi a un controllo, dovuto a un problema grave di salute. 

“Queste pratiche repressive da parte dello Stato tentano di zittire o di fiaccare l’azione di chi pensa sia possibile un mondo migliore, e si organizza per lottare, di chi ogni giorno lavora con ogni sua forza per rendere concreta, dal basso, la giustizia sociale”, il Movimento Guevarista non si lascia intimorire e attribuisce allo Stato la responsabilità su qualsiasi danno all’incolumità del proprio portavoce. (Qui il comunicato completo, traduzione a cura di Ya Basta! Êdî Bese!)

MGTL e Juventud Guevarista non hanno avuto remore a denunciare prontamente l’episodio, con preghiera di diffusione internazionale, come indicato in questi casi dai consulenti legali specializzati e dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani. Pare non sia un episodio isolato.

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**Pic Credit: da web

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