Il vittimismo fascista nelle città italiane: storia di una lapide.

di Wu Ming 2

Il 18 novembre di ottantacinque anni fa diventavano operative le sanzioni commerciali decise dalla Società della Nazioni contro il Regno d’Italia, dopo l’invasione fascista dell’Etiopia. Due giorni prima, il Gran Consiglio del Fascismo decideva che in tutti i municipi del paese doveva essere murata una lapide a ricordo dell’assedio economico.

Si dispose che le targhe fossero scolpite su una lastra di marmo di Carrara, in tre diverse dimensioni, ma con il medesimo stile e la stessa iscrizione:

18 novembre 1935, XIV. A ricordo dell’assedio / perchè resti documentata nei secoli / l’enorme ingiustizia / consumata contro l’Italia / alla quale / tanto deve la civiltà / di tutti i continenti.

Il testo era in linea con il tipico vittimismo all’italiana, gonfiato dalla propaganda di regime, dal momento che l’embargo durò appena otto mesi e fu tutt’altro che “enorme”, visto che vari paesi lo aggirarono, trovarono scuse e cavilli, mentre altri – come gli Stati Uniti – nemmeno facevano parte della Società delle Nazioni.

L’Opera Balilla della provincia di Carrara istituì un apposito comitato, che spedì ai podestà un modulo da compilare per ordinare la targa, con i tre modelli possibili, le misure e i prezzi.

Il 18 novembre dell’anno successivo, le nuove lapidi vennero inaugurate in tutti i comuni, da fetentissimi assembramenti di camicie nere, con cerimonie “brevi e solenni”.

Il destino di quelle targhe, dopo la caduta del fascismo, è una lunga storia di guerriglia topografica, e dei vari interventi che si possono mettere in campo per maneggiare le pietre della memoria, in particolare quelle legate alle vicende del colonialismo italiano.

Molte lapidi commemorative dell’iniquo assedio furono semplicemente rimosse, senza lasciare traccia, e oggi non si sa dove siano finite. A volte rispuntano da un cortile interno o da un magazzino comunale, e i sindaci si interrogano su come trattarle.

Altre vennero scalpellate, in modo da rimuovere i fasci littori e l’intera scritta, e si presentano ancora così, mute e misteriose, in paesi come Volturara Appula (FG), Archi (CH), Castel Frentano (CH), Castel S. Vincenzo (IS), Valdieri (CN), Colli a Volturno (IS), Fossa (AQ), Villalago (AQ) o Scontrone (AQ).

In altri casi, le lapidi scalpellate hanno subito interventi successivi: quella di Gildone (CB), è stata coperta con mattonelle di ceramica, per formare il simbolo del comune, mentre quella di Guidonia (RM) si è deciso di restaurarla così com’era.

Interventi di restauro sono stati realizzati anche sulle targhe rimaste intonse, ma aggredite dal tempo, come a S. Massimo (CB) o a Sestino (AR). In quest’ultimo caso, l’amministrazione ha deciso di “spiegare” la vecchia targa con una nuova, dove tra le altre cose, con una certa incoerenza, si afferma che:
«La guerra d’Etiopia o seconda guerra italo-etiopica é ricordata per l’uso, seppur modesto, delle armi chimiche. L’occupazione, che durò cinque anni, restituì alla storia le pagine buie dei massacri e dei crimini commessi dagli occupanti italiani a danno delle popolazioni africane.»

Meglio hanno fatto a Palazzolo Acreide (SR), con un testo decisamente più chiaro:
«La stele tentava di giustificare la sottomissione di una nazione libera, l’Etiopia, da parte del regime fascista, in contrasto con i Valori e i diritti universali oggi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale. L’Amministrazione comunale ha preferito non rimuovere questa lapide, testimonianza di un periodo della storia d’Italia che va ricordato alle nuove generazioni per evitare di ricadere negli errori del passato.»

Un numero considerevole di lapidi del “18 novembre” venne riutilizzato. In fondo si trattava di oggetti preziosi, pesanti, e una volta scalpellati i fasci littori, si poteva incidere il marmo con nuove parole. Il maggior numero di questi riutilizzi, più di una trentina,  scelse la via della nemesi storica: le nuove scritte ricordano la Liberazione, i morti della Resistenza o le vittime della dittatura, come nel caso di Palermo (“ai martiri della criminale oppressione fascista”), di Orzinuovi (BS) (“a tutti gli orceani caduti nella lotta clandestina e nella guerra di Liberazione”), di Trichiana (TV), Loro Ciuffenna (AR), Racconigi (CN), Borgomanero (NO), Sant’Eufemia a Maiella (PE), Belvedere Ostrense (AN), Tirano (SO), Argelato (BO), Suzzara (MN), Poggio Rusco (MN), Massa Fiscaglia (FE).

Ci sono poi esempi di un riuso più vario, tanto che, in diversi casi, non è facile stabilire se la lapide modificata sia proprio quella fascista, oppure un’altra, prodotta in maniera identica. A Salerno, per esempio, ce ne sono tre dello stesso tipo, ed è impossibile che siano tutte “lapidi delle sanzioni”. Di solito la presenza, ai lati della scritta, di due cilindri (i vecchi fasci littori), è un buon indizio di autenticità. A Orzivecchi (BS) la stele è stata dedicata alla Madonna, nell’anno mariano 1954; a Montelongo (CB) e San Felice sul Benaco (BS) l’hanno trasformata nell’insegna “Municipio”; a Passirano (BS) la nuova dedica è ai caduti di tutte le guerre. A Mondovì (CN) e a Vico Equense (NA),  si è deciso di ricordare un antico evento della storia comunale, mentre a Sala Consilina (SA) uno dei “cinquecento” caduti di Dogali, tanto per restare in ambito coloniale. A Cervere (CN), sulla lapide abrasa è stato applicato un bassorilievo a tema religioso. A Pescosansonesco (PE) la dedica sostitutiva è per un santo locale. A

Rotzo (VI) lo spazio ricavato serve per affermare che quel comune “è consacrato al cuore immacolato di Maria”. A Isola d’Asti (AT) si ricorda un imprenditore locale che fece costruire il municipio. A Chieti, un missionario gesuita in India e Giappone. Un caso particolare è quello di Santo Stefano Medio (ME), dove la targa si trova sulla facciata della chiesa di santa Maria dei Giardini e ha una doppia iscrizione: nella parte superiore, il testo originale delle “inique sanzioni” e in quella inferiore, un elenco dei caduti della Seconda guerra mondiale, risalente agli anni Settanta.

Infine, ci sono le tante lapidi (almeno una quarantina) che sono rimaste al loro posto, senza commenti, chiose, glosse o restauri, come se niente fosse. Alcune, rese ormai illeggibili dalla corrosione, come quella di San Severino Marche (MC), altre meglio conservate, come a Lorenzago di Cadore, Codevigo, Siculiana, Preci, Montecavallo, Cascia, Pontinia… Qui ne trovate un buon elenco, ma vi chiediamo di segnalarci quelle che conoscete, fotografando eventuali azioni “esplicative” di guerriglia.

Cogliamo l’occasione per segnalare due iniziative degli ultimi mesi, che ci sono sembrate particolarmente ben riuscite.

La prima è ad opera del collettivo Arbegnuoc Urbani di Reggio Emilia, che mette insieme vari gruppi antirazzisti e antifascisti, tra i quali Casa Spartaco, Casa Bettola e Istoreco, cioè l’Istituto provinciale per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea.

Per la loro prima azione di strada, gli arbegnuoc reggiani hanno scelto Via Makallè, coinvolgendo gli studenti del polo scolastico che prende il nome dalla strada. Il 3 ottobre scorso hanno reintitolato la via a Sylvester Agyemang, uno studente morto lì vicino investito da un autobus. Hanno incollato cartelli e disegni per raccontare il contesto delle battaglie combattute a Makallè, in Etiopia, e hanno completato il tutto con musica e letture. Qui un video con i principali momenti dell’iniziativa.

La seconda risale invece ai primi di settembre, in quel di Bergamo, dove una serie di cartelli sono stati appesi alle targhe stradali che portano i nomi di Gabriele D’Annunzio, Antonio Locatelli (protagonista dei bombardamenti con l’iprite durante l’invasione dell’Etiopia), Reginaldo Giuliani (cappellano delle Camicie Nere d’Eritrea e volontario nella Guerra d’Etiopia), Guido Paglia (seniore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, volontario in Etiopia), Indro Montanelli, Gennaro Sora (protagonista del massacro di Gaia Zeret, in Etiopia). Comune denominatore dei cartelli, la richiesta di reintitolare le strade a donne con grandi meriti e l’affermazione che “Fascismo e colonialismo furono anche violenza di genere”.

Entrambi gli esempi ci arrivano da un tempo che ci pare ormai remoto, quando le scuole superiori erano aperte e il coprifuoco era ancora associato alla legge marziale. Ci auguriamo invece che lockdown e quarantene non ci tolgano l’abitudine a scendere nelle strade, senza dimenticare i nomi che portano, le lapidi che le addobbano, le storie che raccontano.

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