Maradona è morto e io non sono stato troppo bene

di Piero Cipriano

Insomma, mi dice Antonio Mura, dopo averlo tanto evocato, sognato, scritto, ci sei riuscito a conoscere il virus vis à vis?. Antonio è l’artista, 23 anni, che ai primi di febbraio, quando qualcosa era già nell’aria, disegnava la scimmia che, attaccata alla liana axis mundi o banisteriopsis caapi, fa la sua dissoluzione egoica tra i palazzi di un quartiere da cui non ci si può allontanare. Aveva visto, con quella seconda vista che pochi hanno, ciò che qualche settimana più tardi gli umani avrebbero sperimentato: il lockdown, la noia profonda, stare accovacciati nel nido domestico a covare le uova dell’esperienza mai covate prima.

In quei giorni, mentre Antonio Mura disegnava la scimmia, io scrivevo le parti che sarebbero entrate in Gli dèi diventano malattie, l’incipit de Il libro bolañiano dei morti, il mio libro psicopompico, guida, assistenza, accompagnamento, conforto ai viventi e ai morenti. Per metà libro tibetano e per metà letteratura + malattia = malattia, il piccolo, 24 pagine, capolavoro di letteratura scritto da Roberto Bolaño mentre era nel suo bardo.

Quando ci vediamo con Antonio Mura in video WhatsApp è giovedì 19 novembre, ho appena saputo dal sito della Regione Lazio che il tampone molecolare per Sars-Cov2 che ho fatto al drive in di santa Maria della Pietà (e sì, quello messo proprio dentro l’ex manicomio dove a maggio facevo le telefonate letterarie ai morti, agli scrittori morti, da Basaglia a Bolaño da Primo Levi a Nicanor Parra da Gombrowicz a Wilcock) è positivo.

Dunque, il virus ce l’ha fatta a penetrare le mascherine ffp2 gli occhiali le cuffie i guanti lo scudo spaziale che quando vai come un astronauta in pronto soccorso o nei reparti Covid a visitare le persone che hanno la Covid sindrome, tutto ‘sto rituale scaramantico apotropaico devi installare, salvo che lo stesso non ti protegge perché il virus non è superstizioso, conosce le scorciatoie, e se vuole passa lo stesso.

Ecco la cronaca squinternata (squinternata perché la febbre, o forse l’isolamento e la deprivazione sensoriale di due settimane, rimbambisce) della mia sindrome Covid. Sabato 14 notte la passo in ospedale. Mi chiamano di continuo in pronto soccorso. Mi vesto e mi svesto almeno quattro volte. In quelle continue vestizioni e svestizioni l’esserino si infila e prende possesso delle mie vie aeree. Domenica 15 inizia una febbricina. Lunedì 16 ho già 38 e chiamo in reparto. Non vengo, ho febbre. Per cautela inizio Zitromax. E’ un intuito. Lo so che la disseminazione del virus devi bloccarla subito. Non mi fido delle linee guida attendiste del ministero della salute. Come lo blocchi il virus? Con azitromicina o idrossiclorochina o entrambe. Opto per la prima. Martedì 17 ho ancora 38. Mercoledì 18 non ho più febbre ma sono, di prima mattina, in coda in auto al drive in dell’ex manicomio, per farmi infilare un bastoncino nel naso, proprio come fanno gli alieni agli addotti, avete presente? Mai visto Taken? Guardatevi Taken, è fico, lo produsse Steven Spielberg, il che è una garanzia. Be’, dopo che lo avrete visto, mi direte se questa operazione di tamponamento di massa, aghi infilati nel naso, non vi innescherà la paranoia di essere in un gigantesco esperimento di adduzione aliena. Di presa per il naso. Alieni che prendono per il naso gli umani per trasformarli in qualcos’altro.

Giovedì 19 il risultato dell’adduzione dice positivo. Ergo siccome questa non è l’influenza degli altri anni in cui badavi da solo a te stesso, no, qui ora è lo stato etico e sanitario che bada a te stesso, e ti mette agli arresti, non puoi uscire né tu (finché il tampone degli addotti continua a dire che sei positivo) né quelli che vivono con te. Moglie e figlie obbligate a stare con te, in casa, ma isolate da te, e isolate tra loro. Ognuno in una stanza, sono quattro le stanze, il bagno però è in comune, non ci avevamo pensato per tempo a dotarci di quattro bagni, maledizione, e meno male che siamo quel che suol definirsi una famiglia bene stante. Non possiamo uscire neppure a fare la spesa o andare in farmacia. Bisogna chiedere agli amici, se li hai, o darsi al cannibalismo endogamico. Per fortuna gli amici ci sono, Daniela fa la spesa, Massimo prende i farmaci, Cristina porta le pastarelle o le pizzette, Donatella la fruttivendola porta la frutta. Ognuno di loro a turno si porta via un po’ di immondizia.

La prima settimana (in accordo con Antonia, il mio medico di medicina generale) assumo Zitromax. Insieme a 50.000 UI di Vitamina D tutt’in una botta. Insieme a un grammo di vitamina C al giorno e a complesso B. Il ministero dice non serve, ma io sono un medico e sono pure il malato, e non mi fido del ministero.

Quando, dopo qualche giorno torna la febbricola, sono sul punto di prendere anche il Plaquenil. Mica mi convince il modo con cui hanno fatto fuori il vecchio farmaco antimalarico promosso da Didier Raoult, il miglior virologo al mondo per h-index e il più feyerabendiano di tutti. Uno che invece di attendere il salvifico vaccino recupera un farmaco vecchio di 70 anni e a marzo dice coronavirus game over! Ne ho visti pochi, di vecchi farmaci antipsicotici da tre euro, fatti fuori (stesso motivo per cui hanno messo tra parentesi l’idrossiclorochina: allungamento del tratto QTc) per far spazio ad antipsicotici che costano centinaia di volte di più. Stesso trattamento riservato all’antimalarico. Mi consulto anche con Stefano Manera, un medico di cui mi fido, e lui dice se la febbre supera 38.5, prendi Aspirina 500 per tre volte al giorno. Dunque: non paracetamolo, che leva il glutatione al fegato e il glutatione è antiossidante e non è il caso di esserne sguarniti a causa del paracetamolo. Meglio l’aspirina, che ha anche l’effetto antiaggregante. Fa un po’ quello che farebbe l’eparina, insomma. Alla fine, però, non ci sarà bisogno di prendere né aspirina né idrossiclorochina né cortisone perché la febbre non supera più 38,5. Zitromax è stato sufficiente.

Cinque anni fa presi l’influenza che poi si complicò in polmonite. Un mese a casa. Cortisone e due antibiotici. Persi cinque chili. Cinque anni fa non c’era la Covid. Se cinque anni fa ci fosse stata la Covid, con tutta l’informazione terroristica che l’accompagna a ogni ora del giorno e della notte, sarei morto di paura, non di polmonite. Molti sono morti così, sapete? Arrivano in ospedale con la febbre, fanno il tampone, al responso di positività la saturazione improvvisamente scende, i polmoni collassano di paura, il panico prende possesso dell’automatismo respiratorio e respirare smette di essere un atto naturale.

Insomma, non lo so se è stato per aver fatto la terapia preventiva con azitromicina, ma quest’influenza super special detta Covid con me è stata mite. Da uno a dieci se quella di cinque anni fa valeva otto (fui ai limiti del ricovero) questa vale cinque. Eppure, ogni tanto, quando passata la prima settimana la febbre ritornava, ha fatto capolino il dubbio: E se i polmoni impazziscono? E se inizia la cascata citochinica? E se i trombi? E non sarebbe meglio stroncarla definitivamente con l’idrossiclorochina e col cortisone? Antonia e Stefano (i miei due medici di riferimento) dicono no. Se febbre sopra 38.5, basta l’aspirina.

Ripenso a Basaglia. Il suo pensiero lungo. Ricordate cosa disse? Il medico ha imparato a conoscere l’uomo vivo, malato, dissezionando l’uomo morto, cadavere. (In effetti è stato così pure per la Covid: non avessero fatto le autopsie, contravvenendo le direttive del ministero della salute, a quest’ora non avremmo capito molto della eziopatogenesi della sindrome). Ecco perché l’ospedale, il tempio della medicina, somiglia al cadavere, come il cadavere, anche l’ospedale è diviso (squartato) nei reparti che sembrano gli organi del cadavere, cuore, digerente, ossa, eccetera. In ospedale, fateci caso, l’uomo malato viene messo sempre orizzontale, come cadavere, come uomo morto, per essere indagato come l’anatomopatologo indagava il cadavere. E’ per questo che l’ospedale (disse Basaglia) è un luogo dei morti. Anzi, disse che come l’ospedale è la morte della medicina, il manicomio è la morte della psichiatria. E perciò che lui disse morte al manicomio. E oggi forse direbbe morte all’ospedale.

O meglio, capiamoci bene, non direbbe morte all’ospedale nel senso di eliminare gli ospedali dalla medicina, no, non è il caso di essere così radicali, ma nel senso di togliere all’ospedale la centralità assoluta nella medicina. Così come fu necessario togliere la centralità assoluta al manicomio nella psichiatria. L’ospedale, per poter funzionare al meglio, deve tornare a essere il luogo delle patologie acute e complesse. Non l’imbuto dove si riversa tutta la patologia. Tutta la sofferenza. Se no l’ospedale muore. Perché l’ospedale è stanco, è malato, è affannato, respira male, è infetto. Negli ospedali, in queste settimane, si ammalano soprattutto gli operatori, medici infermieri ausiliari, sì che nei numerosi reparti Covid che negli ospedali hanno rimpiazzato i reparti per altre patologie, si ricoverano, soprattutto, i lavoratori dell’ospedale. E’ un cane matto che si morde da solo. A che serve l’ospedale, se è impegnato a curarsi da sé?

Ma già da prima, della pandemia, voglio dire, in ospedale, si moriva d’altro. Arrivavi per un femore rotto. Tu, vecchio, anziano, sì, dico a te, arrivavi in ospedale per quel maledetto femore rotto, ti operavano, ti saldavano il femore, ottimo intervento, bravissimi i chirurghi, ma morivi per una insidiosissima infezione da batterio super resistente, di quelli che solo in ospedale li trovi. Ma come te, ne morivano altri 49.000, ogni anno, in Italia, altro che Covid. Quanti ne ha uccisi il Covid finora? Più di 50.000? Be’, è lo stesso numero di persone che i batteri colonizzatori degli ospedali uccidono ogni anno. Ma ti immagini se solo i mass media terroristici avessero fatto, per mesi, una campagna tutta polarizzata sulle infezioni ospedaliere, non solo tu non ci saresti andato manco per il cavolo in ospedale, ma l’avresti messo a ferro e fuoco l’ospedale, altro che.

Basaglia citava Filippo Ignazio Semmelweis. Il ginecologo che, a metà dell’Ottocento, scoprì la causa della sepsi puerperale. Sono le mani dei medici, diceva Semmelweis, che dopo aver dissezionato i cadaveri, senza lavarle, visitano l’apparato genitale delle puerpere e le infettano a morte. Questo accadeva a metà dell’Ottocento in Europa. Le donne che andavano a partorire in clinica morivano, quelle che partorivano a casa vivevano. Uno dei primi esempi clamorosi di malattia iatrogena. Malattia determinata dall’intervento medico. Trasmessa dalla mano del medico.

Ora ci sono diversi medici, ne cito uno per tutti, Luigi Cavanna, che sostiene ciò che diceva Basaglia. “Il Covid si cura e si cura a casa. Svuotate gli ospedali”, lo dice in un’intervista di fine settembre 2020. A Piacenza, Cavanna ha curato centinaia di persone, di casa in casa, evitando che si ricoverassero. La medicina, dice, la smetta di essere ospedalocentrica, ritorni a essere medicina di territorio.

Guardiamo cosa sta succedendo. Nonostante, in questa seconda ondata, si sappia meglio come curare questa sindrome (che nel 95% dei casi è asintomatica o paucisintomatica) è ricominciata la corsa disperata in ospedale, come nella prima ondata di marzo aprile.
Allora fu la Lombardia, protagonista indiscussa del fallimento degli ospedali, d’altra parte era la regione che più di tutte, per una politica sanitaria ospedalocentrica e basata sulle strutture private, si era sguarnita in fretta dei medici di medicina generale che pochi, soli, senza dispositivi di protezione, si erano ammalati, alcuni erano morti, e gli ospedali e le rianimazioni erano collassate come i polmoni dei malati.
Le bare furono la sineddoche del fallimento della sanità lombarda trincerata nell’ospedale.

Passano sei mesi. Il Sistema sanitario nazionale, al cui vertice vi è un ministro troppo esile, impreparato, sprovveduto, il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro, avrebbe dovuto potenziare il territorio, non l’ospedale, far uscire dagli ospedali i medici e infermieri e portarli nelle case delle persone. Disseminare il territorio di USCA. Unità speciali di continuità assistenziale agilissime, costituite da un medico e un infermiere che andassero di casa in casa, a fare (come Luigi Cavanna) ciò che i medici hanno sempre fatto: visitare i pazienti, fare diagnosi, impostare terapie, fare relazione, tranquillizzare le persone con la presenza. Perché i medici depositari dell’arte medica lo sanno che ciò che cura non è solo il protocollo o la linea guida calata dall’alto, ma la complessità di una relazione detta terapeutica che è fatta (anche) di presenza.

Ad aprile era già chiaro che la sindrome Covid non era solo una polmonite interstiziale come si pensava all’inizio (grazie alle autopsie, lo si era capito) ma una sindrome che progrediva in tre fasi: influenzale, polmonare, endoteliale. Prevenire la seconda e la terza, agendo sin dalla prima con idrossiclorochina, cortisone, eparina, azitromicina.

Oggi gli stadi individuati sono cinque. Ne sappiamo ancora di più di aprile.
Fino al livello tre, la sindrome può essere curata in casa.
Come si fa a capire se uno può essere curato a casa?
Il primo stadio è quello della forma asintomatica o paucisintomatica chiamata Mild (blanda), per la quale non è necessaria cura. Sono il 95% dei positivi al Sars-Cov-2, abbiamo detto.
Il secondo stadio è quello della polmonite semplice. Qui si interviene con idrossiclorochina (quando tornerà possibile) azitromicina eparina e cortisone. Senza ossigeno.
Nel terzo stadio, quando la polmonite è di moderata gravità, può essere utile l’ossigeno. Ma senza, ancora, ricorrere all’ospedale.
Solo col quarto e quinto stadio, la forma severa e quella di pre-collasso, è necessario il ricovero ospedaliero.
Oggi, in Italia, per l’infodemia tossica, criminale, per il ripetere ossessivamente che i positivi sono contagiati quindi malati, le persone ai primi sintomi respiratori corrono in ospedale.
Già al secondo stadio. In ospedale continuano ad arrivare persone potenzialmente curabili a domicilio.
L’ospedale soccombe. Le persone muoiono. I media cicalano. Circolo vizioso. Non se ne esce.
Epilogo: continui lockdown. Quando non sai che fare, fai come nel medio Evo. Chiudi tutto. Dai la colpa ai cittadini. Perché sono loro gli irresponsabili, che si infettano.

Una decina di giorni fa una rivista mi manda delle domande. L’ultima domanda è:

Nel suo libro parla di due modelli che si sono confrontati in questa pandemia: quello biopolitico e quello psicopolitico. Il modello biopolitico europeo è in netto contrasto con quello psicopolitico asiatico. Molto spesso la gestione della pandemia ha trovato limiti che in Cina sono stati sorpassati facilmente. Crede sia probabile una cinesizzazione dell’Occidente?

E io rispondo:

Ci sarebbe un terzo, minuscolo modello di gestione, quello svedese, davvero democratico, perché enfatizza la responsabilità individuale e non infantilizza le persone vincolandole a regolamenti che cambiano ogni settimana, ma ciò non si può dire altrimenti la narrazione occidentale (secondo cui tutto il mondo è nel pieno della terza guerra mondiale) crolla. La Svezia, sarà pure piccola e poco popolosa, ma ha potenziato in pochi mesi la sua sanità, senza imporre lockdown.

E continuo:

Ma dicevamo i due modelli antagonisti che in modo diverso limitano la libertà. Quello psiocopolitico di controllo delle menti, asiatico, sembra aver stroncato sul nascere l’epidemia. A differenza del modello biopolitico europeo che nonostante i lockdown non ne viene fuori. Eppure, a pensarci bene, non siamo così lontani, anche noi, dal modello cinese. La macchina algoritmica che grazie a smartphone carte di credito social network eccetera incamera i nostri dati, ne sa più di noi ormai, è il nostro vero inconscio. Un inconscio algoritmico. L’occidente è già asiatico, solo che non se n’è accorto, viveva, fino alla pandemia, nell’illusione di essere una democrazia. La pandemia ha soltanto accelerato la presa di coscienza di ciò che il futuro ci riserva.

Bene, la parte iniziale della risposa, che enfatizza il modello svedese, viene omessa. Dicono per ragioni di spazio, ma io non ci credo. Viene omessa perché il modello svedese dimostra che si può gestire la pandemia ancora in modo democratico.

Invece, a quanto pare (ancora per un po’) insisteremo col modello di controllo dei corpi con isolamenti e lockdown, dopo però vireremo sul modello cinese basato sul sistema di credito sociale. Non avrai fatto il vaccino Covid? No? Niente aereo. Niente viaggi. Niente cinema. Niente treni. Niente metro.

Avremo tutti la tessera del bravo cittadino. Avremo un patentino vaccinale, grazie al qual poter essere (di nuovo) liberi cittadini. Perché il tema non è, solo, se il vaccino sia o non sia sicuro. E’ ovvio che c’è anche questo in gioco, ma non solo questo. Il tema è che la pandemia in parte è oggettiva, in parte è un fenomeno mediatico, una sindrome influenzale gonfiata mediaticamente fino a farla diventare la terza guerra mondiale, e solo per via mediatica potrà finire, la terza guerra mondiale. Finirà grazie alla tanto attesa arma di fine pandemia che è il vaccino. Ma il vaccino non è il modo per sconfiggere la pandemia (non si sa se darà immunità, transitoria o duratura, non si sanno gli effetti a lungo termine di un vaccino mRNA mai messo in campo prima), il vaccino è il mezzo con cui inaugurare il rating individuale, la cittadinanza a punti di marca cinese, anche nel resto del mondo. La società totalitaria prossima ventura ha le sue premesse nell’accettazione di questo vaccino. E nell’accettazione della tessera del bravo cittadino, che si vaccina senza colpo ferire.

Ma non li inquadrate già, i nuovi paladini di questo democraticissimo sistema di sorveglianza? Credevate che i più entusiasti fossero quelli di destra? Quelli che chiamavate i fascisti? Ma nemmeno per idea. I sostenitori dell’obbligo sono (andate a cercare i loro tweet) politici del campo progressista come i Faraone i Romano i Gori, influencer tipo i Gassman i Pelù i Vasco Rossi le Ferragni, virologi che non ne hanno azzeccata una come Bassetti, fino al capo del governo, che col tono suadente da post-democristiano dice, a proposito del vaccino Covid: io sono per la persuasione, perché non vorrei mai arrivare al TSO. Ovvero: cittadini, siete liberi di decidere se farlo oppure no, il vaccino, ma sappiate che se non lo farete (liberamente) possiamo sempre obbligarvi. Orwell, 1984.

Ce ne fosse uno, tra gli influencer, che nomina il modello svedese di gestione della pandemia. Ne ha parlato, in questi mesi, un’agguerrita psichiatra, si chiama Martina D’Orazio, da una decina d’anni lavora in Svezia. Lei è un’altra che, nella narrazione dicotomica di questi mesi (o sei responsabile che si beve tutta d’un fiato la narrazione ufficiale, oppure sei un negazionista complottista che nega il virus), si pone in questo mondo di mezzo dei parresiaci, là dove si sono collocati gli Agamben o i Bifo, per dirne due che ancora conservano la facoltà di pensare.

Cosa direbbe, di lei e degli altri parresiaci, lo psico-filosofo Umberto Galimberti (quello che Lorenza Ronzano, qui su carmilla, ha appena definito un intellettuale cosmetico) secondo cui i negazionisti sono pazzi e coi pazzi non si ragiona (Galimberti, peraltro, nel suo variegato panteon di maestri, cita sovente Basaglia, dimenticando che Basaglia coi pazzi ci ragionava, altro che). Cosa direbbe quell’altro buffo fenomeno inventato da Floris, la biologa Barbara Gavallotti, secondo cui il negazionista ha il cervello di un demente.

Mentre sono in coda al drive in di santa Maria della Pietà, il 18 novembre, le scrivo un messaggio su Messenger. Dopo un paio d’ore Martina D’Orazio mi risponde. Dice se vuoi possiamo sentirci. Dopo un po’ mi chiama. Penso che mi stia chiamando dalla Lapponia, dico accidenti, sembra che sei qua vicino, infatti, dice lei, sono a Tivoli, sono tornata in Italia, ho un part-time, tornerò in Svezia tra qualche settimana.

E’ irruenta e incazzata. Non è come me. La mia atarassia, il mio metodo zen, coltivato in ormai vent’anni di lavoro psichiatrico nei reparti hard. Non fossi stato capace di fare wu-wei avrei da un bel pezzo mandato tutti a quel paese e cambiato mestiere. Sopportare colleghi che ti spiegano perché è giusto legare le persone, sì sì, ti dicono, quello andava legato, e va tenuto legato per una settimana. Sopportare persone che ti dicono quello è uno schizofrenico, non rendendosi proprio conto del niente contenuto nell’affermazione tanto perentoria, come se noi sapessimo davvero cos’è quest’entità che chiamiamo la schizofrenia, e per questo motivo, aggiungono (siccome è schizofrenico) deve prendere per tutta la vita il farmaco depot. Non ho cambiato mestiere apposta per esercitare l’arte della pazienza, mica possono essere pazienti solo i pazienti, anche noi psichiatri dissidenti, radicali, dobbiamo esserlo, pazienti. Così un giorno, forse, riusciremo tutta questa pazienza a farla diventare curriculum per la santità.

Martina, sarà che in Svezia si è abituata meglio, non lavora in un reparto hard ma in un ambulatorio, non sopporta il modo con cui in Italia ma non solo in Italia, in tutta Europa direi, viene gestita la pandemia. Mi snocciola come grani di un rosario le caratteristiche della gestione svedese. Sono mesi che ne parla in giro, è furibonda del fatto che gli italiani siano così ottusi, e non si ribellino a un tale livello di soppressione delle più elementari libertà costituzionali.

E’ un fiume in piena. Mi riassume ciò che le ho già sentito dire in diverse interviste.

Dice la Svezia non si è fatta prendere dal panico da coronavirus, ma l’ha preso per quel che è: un virus che nell’80% dei casi è asintomatico. La principale obiezione al modello svedese: paese poco popoloso, bassa densità di popolazione, la trova pronta, dice: sono poco più di dieci milioni di abitanti, quanto la popolazione della Lombardia. Ma c’è una città, Stoccolma, che ha 960.000 abitanti, che sono più di Torino, che ne ha 867.000, e sai la densità di Stoccolma? 5129 abitanti per chilometro quadrato, più del doppio di quella di Roma, che ne ha 2195 per chilometro quadro. Insomma, Stoccolma, a parte Napoli e Milano, ha una densità di abitanti per chilometro quadrato più di ogni altra città italiana. Ma ciò che ha reso possibile alla Svezia di non fare il lockdown, continua, è l’aver potenziato la sanità del 300% e aver raddoppiato i posti di terapia intensiva: erano 500 in tutta la Svezia (quanto quelli della Lombardia) sono diventati 1000 nelle prime settimane della pandemia. E poi, aggiunge, hanno impiegato l’esercito non per militarizzare le strade, ma per trasformare uno spazio fieristico in ospedale Covid con 2400 posti letto potenziali che non è stato necessario utilizzare perché il sistema sanitario ha retto. E gli elicotteri dell’esercito: ricordate in Italia, durante la prima ondata, per cosa sono stati impiegati? Presidiare le spiagge, i parchi, i boschi, per braccare i runner o i passeggiatori da spiaggia. In Svezia gli elicotteri dell’esercito sono rimasti a disposizione come eliambulanze. Era così difficile farlo anche in Italia?

In Italia lo slogan è stato: state in casa. Sottotesto: deprimetevi, poltrite, abbuffatevi, alcolizzatevi, impasticcatevi. In Svezia hanno suggerito di uscire: l’aria aperta fa bene, rinforza il sistema immunitario. Avete presente questo sconosciuto? Il sistema immunitario? Sì, il sistema immunitario si giova di aria di sole di camminate di corse.

Martina, lo so, sono mesi che lo dico, ma qui tutti aspettano l’arrivo del vaccino, per salvare la pelle, per ricominciare a uscire, per vivere. Io, intanto, il vaccino me lo sto facendo. Non mi potranno obbligare a farlo.

In che senso lo stai facendo?

Nel senso che gli anticorpi al virus che ci toglie il fiato, me li sto facendo da solo, uno per volta, in questi giorni di malattia. Se lo scopo del vaccino è farti fare anticorpi, io li ho già. Non avrò bisogno del vaccino, quando uscirà.

Intanto siamo al primo di dicembre, dopo due settimane di influenza Covid il tampone di controllo mi dice che non ho più tracce del virus in gola e nemmeno nel naso. Da domani posso uscire. Ricomincio a essere un uomo libero.

Giuseppe Genna, di cui colpevolmente non ho osato leggere Reality perché la scrittura di Genna riesce a farmi sentire un minus habens, ho letto un suo post su Facebook dove scrive: “Da febbraio a fine settembre si contavano 35.894 decessi per Covid, in sette mesi. A oggi ci ritroviamo con 55.576 vittime. 20.000 in due mesi. In che senso staremmo facendo bene? In che senso avremmo azzeccato la formula del lockdown, come riportano alcuni quotidiani? Soltanto in Belgio, Iran e in Messico si registra un tasso di mortalità più alto di quello italiano. La Lombardia, poi, esprime un indice di mortalità che si valuta come primo al mondo: 195 morti ogni 100mila abitanti. Non Brasile, non USA, non Cina, non India: la Lombardia. Perché? Chi risponde a questa domanda?”

Già. Chi risponde a questa domanda?

La risposta, Giuseppe, è: hai visto le linee guida italiane per affrontare la Covid a casa? Sembrano fatte apposta per non prevenire guai peggiori. Per lasciare i malati al loro destino. No idrossiclorochina, perché uno studio bufala pubblicato su Lancet l’ha messo in stand bye. No eparina se non ai pazienti a rischio tromboembolico. No cortisone se non vi sono sintomi importanti. No antibiotico. No vitamine B C e D perché non sono scientificamente un rimedio alla Covid. Sì soltanto all’unica cosa davvero perniciosa: il paracetamolo ovvero la Tachipirina che riduce le riserve epatiche dell’antiossidante glutatione.

La risposta, Giuseppe, la trovi in un gruppo Facebook per soli medici: Coronavirus, Sars-CoV e Covid-19 il nome del gruppo. Oggi, 5 dicembre, prima di chiudere questo pezzo, un medico scrive se non sia il caso, per un paziente con Covid a domicilio, di prescrivere subito eparina cortisone e azitromicina, un altro medico dice che non è il caso, lui ribatte perché?, quello di prima dice perché devi seguire le indicazioni ministeriali, anzi, meglio, dice proprio: ti pare così brutto seguire le indicazioni ministeriali (intende il ministero della salute, ovvero Speranza) allora interviene un’altra medica che dice sì che pare brutto, i dati lo dimostrano che terapia domiciliare tardiva = ricovero, e siamo medici (che cazzo!), ogni caso è diverso, un broncopneumopatico sessantenne è diverso da un trentenne sano. E aggiunge: per seguire pedissequamente le indicazioni del ministero non occorreva laurearsi in medicina, ci riesci anche con la terza media. Ma il medico di prima, quello ligio alle linee guida del ministero, ribatte: approccio domiciliare è paracetamolo al bisogno e stop. Ma la dottoressa risponde: e dopo tre giorni un bel ricovero. Conclude la diatriba tra medici una pediatra di Ischia, che dice: ormai mi domando che senso abbia la nostra laurea e la nostra esperienza. Se bastassero linee guida, che senso avrebbe la nostra professione? Malato apre internet, scarica linee guida e si compra le medicine se ci sono. Vi è mai capitato di guardare in faccia un paziente e di dire, “questo non mi piace” anche se aveva le analisi buone? Si dovrebbe valutare caso per caso e poi applicare le linee guida se concordano con il quadro clinico e il buonsenso. So che questo commento attirerà molte critiche, ma anche i talebani delle linee guida fanno danni.

Ecco, i medici sono divisi in due: gli integrati, i talebani delle linee guida, che non vogliono assumersi la responsabilità di trasgredire le indicazioni dall’alto, e coloro che ci provano, a continuare l’esercizio dell’arte medica.

In ogni caso, la mia reclusione è finita, dalla settimana prossima ricomincio a fare il medico, ma è chiaro che sarà sempre più difficile fare davvero il medico, in questo mondo.


Disegno in apertura di Antonio Mura

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