Un blocco di due giorni è entrato in vigore venerdì sera nella Striscia di Gaza per frenare la diffusione del coronavirus.
Fino a domenica alle 7:00, tutti i negozi tranne le farmacie dovranno rimanere chiusi e alle persone sarà vietato lasciare le proprie abitazioni (ammesso che ne posseggano ancora una), tranne per motivi di salute.
Abbiamo raggiunto al telefono Emanuela Franco.
La storia di Emanuela ha dell’incredibile. Lei, infatti, è un’italiana che ad ottobre del 2017 ha sposato Mohammed Abuoda, un palestinese che vive a Gaza e da allora è iniziata una vera e propria odissea per la coppia, fatta di burocrazia e problemi di “sicurezza”. Mohammed, avendo ricoperto in passato un incarico lavorativo amministrativo presso un ospedale pubblico della Striscia, potrebbe risultare per le autorità israeliane in qualche modo legato ad Hamas -anche se non ne ha mai fatto parte-, mentre non sono ancora del tutto chiare le motivazioni per cui l’Egitto continui a bloccarne il passaggio.
Ultimamente ai problemi si è aggiunta anche la pandemia. La loro vita da coniugi li aspetta in Italia, ma finora Emanuela è stata costretta a trasferirsi per dei periodi più o meno lunghi nell’enclave palestinese sotto assedio, sperimentando in prima persona cosa significhi vivere l’embargo, la crisi umanitaria e finanche i bombardamenti dell’esercito israeliano.
Al telefono Emanuela ci racconta che quest’ultima volta è arrivata a Gaza lo scorso 5 novembre attraverso il valico di Rafah con l’Egitto (in quanto moglie di un palestinese è quasi impossibile per lei entrare a Gaza attraverso il valico di Erez, passando per Israele) e da quel momento è isolata: il consolato italiano a Gerusalemme ha smesso di rispondere al telefono e l’ambasciata del Cairo scarica tutte le responsabilità burocratiche per la pratica di ricongiungimento familiare sulle autorità palestinesi del valico di frontiera.
La vita nella Striscia di Gaza sotto assedio dal 2007 di per sé non è semplice: in uno spazio di 365 chilometri quadrati lottano ogni giorno per la sopravvivenza circa 2 milioni di palestinesi, più della metà dei quali rifugiati. Circa il 90% dei suoi confini terrestri e marittimi e il suo accesso al mondo esterno sono controllati da Israele, mentre l’Egitto controlla il suo stretto confine meridionale.
Gaza assediata da 14 anni è soggetta ad un paralizzante blocco israeliano ed egiziano che ha sventrato la sua economia e privato i suoi abitanti della libertà di movimento, dei più basilari diritti umani e di molti beni vitali tra cui acqua, cibo, carburante e medicine. Un vero e proprio disastro umanitario con dei precisi responsabili politici.
Emanuela attualmente è doppiamente bloccata in questo lembo di terra palestinese colpito duramente negli ultimi anni dalle offensive militari israeliane, massacrato dalla scarsità di acqua potabile e di energia elettrica e che fa i conti con la precarietà delle infrastrutture. Bloccata dall’embargo e bloccata dal Covid-19.
La sanità di Gaza già normalmente è al collasso a causa dell’embargo e delle crisi alle quale ha dovuto far fronte eroicamente durante le offensive militari del 2009, 2012 e 2014 e durante l’anno della Grande Marcia del Ritorno. Più volte era stato lanciato l’allarme che l’epidemia di Covid-19 avrebbe potuto infliggere il colpo di grazia.
Lo scenario più cupo sta diventando realtà. “Entro una settimana non saremo in grado di occuparci dei casi critici causati dal coronavirus” aveva sentenziato Abdelnaser Soboh, responsabile per l’OMS dell’emergenza Covid-19 nella Striscia di Gaza. Le sue previsioni si sono avverate. Venerdì 11 dicembre è arrivato l’annuncio ufficiale: il 100% dei posti letto ospedalieri della Striscia di Gaza sono occupati; non c’è spazio per curare più nessuno!
Il Ministero della Salute ha segnalato 617 nuovi casi nelle ultime 24 ore a Gaza, per un totale di quasi 25.600 casi. 175 sono stati i decessi legati al virus.
Un ulteriore problema è legato ai kit ed alle apparecchiature per effettuare i kit diagnostici: non sono in numero sufficiente e Israele non li lascia entrare.
L’enclave palestinese aveva ricevuto quasi 20.000 kit di test COVID-19 dall’OMS dopo aver dichiarato che non poteva più eseguire test, tuttavia il lotto appena arrivato “è sufficiente solo per otto giorni”, ha dichiarato il ministero della salute gestito da Hamas.
L’embargo israeliano ha di fatto impedito negli ultimi 14 anni un accesso adeguato alle cure mediche agli abitanti di Gaza che, come avviene anche per l’alimentazione, dipendono anche per la sanità quasi totalmente dagli aiuti umanitari. Il sistema sanitario di Gaza composto da 13 ospedali pubblici e 14 cliniche, gestiti da organizzazioni non governative (ONG), è collassato a causa della persistente carenza di medicinali, apparecchiature biomedicali, forniture chirurgiche e formazione ed aggiornamento scientifico del personale medico legati al blocco.
La situazione umanitaria è peggiorata di giorno in giorno nell’enclave; due anni fa l’ONU aveva avvisato che sarebbe diventata “un luogo invivibile per gli esseri umani” a partire dal 2020. L’anno scorso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro (UNRWA) ha dichiarato che ci sono circa 620.000 abitanti di Gaza che vivono in estrema povertà, il che significa che non possono coprire i loro bisogni alimentari di base e devono sopravvivere con circa 1€ al giorno e quasi 390.000 vivono in povertà assoluta.