L’autostrada per Delhi, nello stato del Haryana, a prima vista sembra un esteso campo da picnic di un chilometro di lunghezza. Agricoltori provenienti da tutte le parti del paese, in particolare dalla regione nord-orientale del Punjab – il cosiddetto “granaio dell’India” – siedono tra le infinite file di trattori parcheggiati. Per la festa della repubblica del 26 gennaio, le organizzazioni contadine hanno annunciato un enorme raduno di trattori verso la capitale. Ogni poche centinaia di metri c’è una stazione dove viene distribuito del cibo: ci sono lenticchie, riso, pane, ma anche pizza. La protesta è iniziata lì nei villaggi, durante l’estate, ma per fare maggiore pressione sul governo i contadini si sono gradualmente trasferiti nella capitale. Questo ha portato alla luce la loro causa a livello internazionale: ad esempio a Verona, durante il mese di dicembre, si sono tenute alcune significative manifestazioni di solidarietà.
A settembre, il partito al governo Bharatiya Janata Party (BJP), di stampo nazionalista indù, ha deciso di liberalizzare il mercato agricolo. Si tratta essenzialmente di abolire le garanzie sul prezzo dell’acquirente per alimenti basilari come il grano e il riso, portando così le grandi aziende alimentari a negoziare direttamente con gli agricoltori. Con questa riforma, il governo promette meno corruzione e meccanismi di distribuzione più efficienti.
Amol Singh, originario di Patiala, nel Punjab sud occidentale, è uno dei manifestanti. Lui e suo padre sono tra i leader della Bharatiya Kisan Union – Dakaunda, un’organizzazione composta da 32 associazioni di agricoltori che recentemente ha lanciato le proteste. Il suo timore è che le grandi aziende abbassino i prezzi così tanto da minacciare i mezzi di sussistenza minimi di molte persone. «Non si tratta solamente di politica dei prezzi», afferma Amol Singh. «A lungo termine, questo darà alle aziende l’opportunità di cambiare le condizioni che regolano la produzione locale», finendo quindi per acquistare gradualmente i terreni, appropriandosene. Amol Singh sottolinea che tutto ciò mette in pericolo non solo i mezzi di sostentamento della popolazione rurale, ma anche quelli di tutti e tutte: «le garanzie statali sui prezzi sono direttamente collegate al sistema di distribuzione e sovvenzione nazionale degli alimenti – spiega – ciò che il governo compra dagli agricoltori a prezzi fissi, lo mette successivamente a disposizione dei più poveri come garanzia di base».
Questa riforma si inserisce quindi nel profondo sconvolgimento economico e sociale che questo governo ha instaurato dal 2014 – compresa una massiccia riduzione dei diritti dei lavoratori e un profondo cambiamento della legge sulla cittadinanza. Il cosiddetto Citizenship Amendment Act (CAA) è stato concepito al fine di rendere più difficile per i musulmani dimostrare la loro residenza legale in India. Coloro che non rientrino nel nuovo registro dei residenti verrebbero così minacciati di essere imprigionati nei campi.
Le richieste della popolazione rurale hanno incontrato un ampio consenso all’interno dell’opinione pubblica. Quando il governo ha cercato di giustificare le brutali azioni della polizia, ritraendo i contadini in protesta come terroristi controllati dal Pakistan, è subito scoppiata una tempesta su Twitter che ha raggiunto il Canada, dove molti abitanti originari del Punjab hanno famiglia. Alla fine il governo ha dovuto ammettere la sconfitta. «Dipendiamo tutt* dal cibo, la gente sa di aver bisogno dei contadini», dice Atif Jung, il cui stesso padre lavora come agricoltore. Atif attualmente lavora ad una ricerca dottorale sull’influenza politica dei sindacati agricoli nello stato dell’Uttar Pradesh. Sottolinea inoltre come sia necessario prestare attenzione alle tensioni presenti all’interno della comunità agricola. «Larga parte di chi attualmente è alla guida del movimento sono Sikh del Punjab e Jats del Haryana. Queste regioni sono certamente le più affette, ciononostante è evidente come in particolar modo la popolazione rurale musulmana si trovi nettamente ai margini del movimento». I Jats sono un gruppo di contadini indù prevalentemente conservatore, che in passato hanno espresso vicinanza al governo. Inoltre, aggiunge, è ormai palese un capillare coinvolgimento degli usurai, i quali vedono la loro rete di prestiti personalizzati e -spesso vergognosi- interessi minacciati dalle riforme. I negoziati tra questi gruppi sono falliti, la questione deve ora essere risolta davanti alla Corte Suprema.
I media internazionali dipingono le proteste dei contadini come una rivolta popolare contro le riforme neoliberali: una continuazione delle manifestazioni antigovernative contro la legge sulla cittadinanza, una protesta post-Covid in versione 2.0. Ma non è così semplice. L’attuale campagna, guidata da leader prevalentemente maschi, è fondamentalmente diversa dalle proteste che l’anno scorso hanno scosso l’opinione pubblica: durante lo scorso inverno i partecipanti avevano resistito al freddo, bloccando le strade e catalizzando l’attenzione sulle potenziali minacce ai diritti umani rese possibili dal CAA. In prima linea: donne, musulmani, dalit – questi ultimi discriminati in base alla casta, un sistema che di fatto non esiste più.
Sono proprio queste categorie ad essere oggi solo marginalmente coinvolte nel movimento contro la riforma agraria. Quando il gruppo della Bhartiya Kisan Union Ekta (Ugrahan) ha mostrato solidarietà nei confronti dei detenuti del movimento di opposizione al CAA, ogni altra organizzazione di contadini ha immediatamente preso le distanze. «Gli agricoltori non hanno nulla a che fare con tali anti-nazionali», ha dichiarato a The Print Akshay Narwal, leader del gruppo Rashtriya Kisan Mahasangh. È tanto forte il timore che lo stesso movimento venga rapidamente delegittimato, come già accaduto ai diritti dei musulmani quanto al godere di un’equa protezione della propria cittadinanza.
Quasi tutti e tutte concordano sul fatto che le cose non possano andare avanti così. Anche se la liberalizzazione del mercato potrebbe essere impedita, continua ad esistere un sistema di grandi disuguaglianze all’interno della produzione agricola. In particolare per le donne, l’accesso alla proprietà dei terreni è ancora difficile. Eppure sono soprattutto loro a lavorare come braccianti nei campi, nonostante gran parte di questo lavoro venga nascosto come “lavoro domestico”. Il capo dell’organizzazione MAKAAM, Seema Kulkarni, si sta quindi adoperando affinché queste richieste siano incluse tra le ragioni dell’attuale protesta. «Anche se le donne sono state coinvolte in tutti i principali movimenti di contestazione agricola, i vari leader hanno spesso ignorato le loro preoccupazioni», dice. Precisa inoltre che una maggiore attenzione alla distribuzione e all’uso delle risorse potrebbe condurre ad un uso più oculato delle stesse, rappresentando un primo passo verso un’agricoltura più sostenibile.
I leader della protesta contro il disegno di legge sulla cittadinanza di un anno fa continuano a dimostrare solidarietà verso i contadini, anche se questi ultimi non sempre sembrano ricambiare. «Se vogliamo che gli altri siano solidali con noi, dobbiamo essere i primi», dice Nasreen Syed, che in questi ultimi due anni si è occupata dell’organizzazione di entrambi i movimenti di protesta a Bangalore. «Solo così possiamo formare un movimento più ampio e solido contro il governo. Dobbiamo dare vita ad alleanze».