Mohamed Bouazizi e la Tunisia 10 anni dopo

Questo articolo vede la luce a 10 anni dall’auto-immolazione col fuoco, il 17 dicembre 2010 nella città di Sidi Bouzid, dell’uomo che diventerà l’icona martire della rivoluzione tunisina, Mohamed Bouazizi. Di Mohamed Bouazizi oggi tutti conoscono il nome ma non altrettanto la vera storia, sebbene essa sia abbastanza ben documentata. L’articolo intende mostrare i legami tra le diverse sequenze dei processi di protesta in atto in Tunisia a partire dagli scioperi del 2008 nel bacino minerario fino all’ultimo movimento di El Kamour (sud-est del Paese) tra il 2017 e il 2020. Nel farlo cercherà di mostrare come la solidarietà di classe socio-spaziale, che spiega perché il suicidio di Bouazizi abbia provocato la grande rivolta che conosciamo, favorisca le resistenze collettive e il loro ruolo nei lunghi processi rivoluzionari.

Due domande importanti: perché il suo profilo, la sua situazione e la sua vita sarebbero importanti per comprendere i motivi per cui il suo suicidio[1] abbia scatenato la grande rivolta popolare la cui portata ha colpito direttamente o indirettamente gran parte del mondo? E quali indicazioni ci può fornire Mohamed Bouazizi sulle origini, la portata e la continuità della rivoluzione tunisina?

Il suicidio di Mohamed Bouazizi deve quindi essere considerato, da un lato, nel suo contesto familiare e personale e, dall’altro, nel contesto generale della protesta politica contro il regime di Ben Ali e, soprattutto, contro i processi di espropriazione, impoverimento e marginalizzazione. La città di Sidi Bouzid era, senza dubbio, uno dei luoghi di protesta e di resistenza che si moltiplicavano un po’ dappertutto nelle regioni emarginate del Paese. I lunghi scioperi nel bacino minerario (di Gafsa, ndr) del 2008 sono stati una tappa decisiva della contestazione.

Mohamed Bouazizi è nato in una famiglia povera ed era il maggiore dei suoi fratelli, cresciuti dalla madre dopo la morte del padre, avvenuta quando lui aveva solo tre anni. È cresciuto con “l’obbligo morale” di mantenere la madre, a scapito della sua carriera scolastica, finita con un fallimento. Qualche tempo prima del suo drammatico gesto era diventato un commerciante informale di verdura, con un’attrezzatura ridotta a una carriola e un cassone ribaltabile. Ma ha dovuto sopportare un’infinità di noie burocratiche e le molestie della polizia, che ha infine sequestrato la sua modesta attrezzatura, il 17 dicembre 2010, per impedirgli di lavorare. Furioso, frustrato e disperato, Mohamed ha finito per commettere l’ultimo atto di resistenza di cui si sentiva ancora capace[2] e ha innescato, inconsapevolmente, il conto alla rovescia per la fine della dittatura di Ben Ali il 14 gennaio 2011, appena un mese dopo.

Suicidio “individuale” e solidarietà di classe sociale-spaziale

Tra i tanti movimenti sociali che si sono susseguiti in tutto il Paese tra il lungo sciopero dei lavoratori nel bacino minerario di Gafsa del 2008 e le manifestazioni di solidarietà provocate dall’immolazione di Bouazizi, c’è stato il movimento sociale dei contadini a Sidi Bouzid nel giugno e luglio 2010. All’origine del movimento c’erano richieste legate all’accesso alle risorse naturali (terreni agricoli e acqua potabile e di irrigazione), ai sussidi statali e allo spinoso problema del sovraindebitamento.

Secondo diversi testimoni incontrati a Sidi Bouzid, e due membri della sua stessa famiglia, Mohamed Bouazizi era attivamente presente in queste manifestazioni. In ogni caso, il legame tra le “mobilitazioni” contadine dell’estate 2010 e quelle che hanno seguito il gesto disperato di Bouazizi mi sembra ovvio e spiega perché questo suicidio, a differenza di altri, ha scatenato una rivolta popolare in tutto il Paese. I primi a manifestare dopo l’auto-immolazione di Bouazizi sono stati dei figli di contadini che si erano riconosciuti in questo fatale atto di disperazione e resistenza.

C’è stata un’innegabile “solidarietà di classe” da parte degli abitanti della regione, direttamente colpiti dalle numerose difficoltà economiche e sociali[3]. Per diversi giorni, questa solidarietà di classe si è manifestata in tutto il paese, a partire dalle zone “rurali” (comprese le “città rurali”[4]), prima di raggiungere i quartieri popolari delle grandi città e, infine, i grandi centri urbani, compresa Tunisi. L’itinerario della protesta dimostra l’esistenza di una coscienza di classe che copre nella loro interezza gli strati popolari rurali e urbani.

Il governatorato di Sidi Bouzid è stato, fin dai primi anni ’80, teatro di una brutale intensificazione agricola avviata dallo Stato, che ha deciso di creare un polo agricolo “moderno” e intensivo orientato all’esportazione e basato sullo sfruttamento delle falde acquifere in profondità e sull’attrazione di capitali privati e pubblici. Così, negli ultimi quattro decenni, Sidi Bouzid è passata dal rango di regione dei margini semiaridi, con un’agricoltura estensiva basata sulla coltivazione di olivi, mandorli, pascoli, e e quella di cereali irrigati con acqua pluviale, a quello di prima regione agricola del Paese, con più di un quarto della produzione totale di frutta e verdura.

Un indiscutibile successo tecnico che nasconde però un vero e proprio fallimento sociale ed ecologico. Dal punto di vista sociale, Sidi Bouzid è ancora tra le prime quattro regioni più povere del paese (su 26 regioni) ed ecologicamente il livello delle falde acquifere sta calando vertiginosamente, l’acqua di irrigazione è sempre più salata e il degrado del suolo è visibile, anche ai non specialisti.

Qui gli investitori, la stragrande maggioranza dei quali provenienti da fuori regione, che la popolazione locale spesso chiama “coloni”, accumulano capitali e profitti, mentre i contadini locali accumulano perdite, drammi e suicidi. Senza questa enorme faglia socio-spaziale che divide il paese tra una periferia dipendente e un centro dominante, la morte di Mohamed Bouazizi probabilmente non sarebbe mai andata oltre la “notizia”… Inoltre, questa stessa linea di faglia tra il centro dominante e i margini dominati sarà all’origine di diverse altre scosse sismiche di cui parlerò più avanti.

Dopo la fase di Sidi Bouzid, che ha portato alla caduta della dittatura di Ben Ali e del suo regime, il Paese ha sperimentato diversi altri movimenti di protesta che si inscrivono negli stessi processi di resistenza dei margini sociali e spaziali. Nel resto dell’articolo cercherò di rivisitare due movimenti sociali particolarmente rilevanti, specificando il loro contesto storico, sociale e spaziale per mostrarne l’origine e l’evoluzione, da un lato, e i legami con il processo politico generale in atto dal 2008 (gli scioperi nel bacino minerario) ad oggi, dall’altro. Il primo movimento sociale è quello dell’oasi di Jemna (dal 2011), che si è concentrato sul diritto alla terra e alle risorse, e il secondo è quello di El Kamour (2017-2020), che si è concentrato più sul diritto alle risorse locali e soprattutto sul diritto allo “sviluppo”. Due casi diversi di lotte che costituiscono due momenti chiave dello stesso processo di contestazione.

In entrambi i casi, come in altri, la chiave di lettura della mobilitazione di massa va cercata nei processi e nelle dinamiche della solidarietà di classe socio-spaziale: “Sono di qui, appartengo alla stessa regione e allo stesso gruppo sociale, sono privato di risorse materiali e/o simboliche, quindi sono solidale con chi osa dire ‘no’ e resiste”. Questo è, in breve, quello che sentiamo a Kebilli-Jemna e Tataouine-El Kamour e altrove, e quello che leggiamo nelle dichiarazioni delle popolazioni locali riportate dai media. Sullo sfondo, sono il senso profondo dell’ingiustizia e la domanda di dignità a costituire il “motore” della resistenza e il “cemento” della solidarietà.

Jemna: il diritto contro la legge; una legittimità scomoda.

Nel 2011, dopo l’episodio di Sidi Bouzid e la caduta del dittatore, i tunisini hanno “scoperto” un’oasi, di cui la maggioranza della popolazione probabilmente non aveva mai sentito parlare prima: l’oasi di Jemna, situata nel deserto tunisino a metà strada tra Kebili e Douz. La sua improvvisa apparizione sulla mappa, grazie a un nuovo eclatante movimento sociale, è direttamente legata alla storia coloniale, alcuni elementi della quale rivengono a galla una volta incrinata la cappa di piombo calata su di essa[5].

Mentre la maggior parte dei coloni francesi aveva scelto di stabilirsi nel nord e nord-ovest del paese per creare grandi aziende cerealicole e zootecniche e persino vigneti e frutteti, altri hanno preferito andare a sud per specializzarsi nella produzione di datteri (varietà degla), la cui esportazione in Francia e in Europa era praticamente garantita. È il caso di un certo Maus De Rolley che, nel 1937, creò un nuovo palmeto che non è che un “prolungamento” dell’antica oasi di Jemna. Oggi il palmeto si estende su circa 306 ettari, 185 dei quali sono coltivati a palme da dattero con un totale di circa 10mila palme da dattero.

Le popolazioni locali, che detenevano la terra in proprietà collettive e indivisibili (tribali), erano state espropriate delle loro terre senza alcun compenso, con il pretesto che la terra non era coltivata, poiché il pascolo sui terreni comuni (pastorizia) non era considerato una vera e propria attività produttiva. All’epoca dell’indipendenza, queste popolazioni, che avevano combattuto contro gli occupanti, nutrivano forti aspettative che le nuove autorità restituissero loro le terre saccheggiate.

Ma quando le terre coloniali furono nazionalizzate nel 1964, lo Stato decise di mantenerle come proprietà statali e le annesse all’Office des Terres Domaniales (Otd), che fu reso responsabile della gestione dei terreni agricoli dello Stato, diventando così il più grande proprietario agricolo del paese. Questa decisione fu rafforzata all’epoca dalla politica di collettivizzazione degli anni ’60, che mirava a raggruppare le terre agricole in cooperative statali “socialiste”[6]. Ma il vero argomento contro la ridistribuzione delle terre nazionalizzate era che i piccoli agricoltori erano troppo ignoranti e arcaici e non avevano i mezzi finanziari e tecnici per sviluppare un’agricoltura intensiva e moderna. È del resto lo stesso argomento stigmatizzante che emerge ancora oggi ogni volta che la discussione su questo tema riemerge e affronta la questione dei modelli agricoli e delle scelte politiche in relazione all’agricoltura e all’alimentazione.

Anche se i loro eredi si erano già resi protagonisti di tentativi di rivendicare queste terre nel corso degli ultimi decenni, solo all’inizio del 2011 abbiamo visto occupazioni organizzate di terre dell’Otd da parte delle popolazioni locali che si presentavano come eredi legittimi. Ad esempio, la popolazione locale di Jemna ha occupato il palmeto dell’ex colono, rivendicando i diritti di proprietà e di utilizzo. Il braccio di ferro con le autorità, che esigevano la fine dell’occupazione, durò per diversi anni. All’argomentazione dell’illegalità dell’occupazione avanzata dallo Stato, gli occupanti opponevano la legittimità del diritto alle risorse e soprattutto ai beni comuni, comprese le terre collettive indivisibili e inalienabili. 

Dopo un lungo periodo di tensione, è stato raggiunto un compromesso. Di comune accordo, lo Stato ha ceduto la piena gestione del palmeto alla popolazione locale, ma senza restituire ad essa la proprietà fondiaria. Per la popolazione locale, questa soluzione negoziata era l’unico compromesso possibile?

Dietro la posizione dello Stato c’era il timore che una soluzione che prevedesse il trasferimento della piena proprietà del palmeto agli eredi legittimi avrebbe creato un precedente legale e un esempio che avrebbe infiammato centinaia di altri focolai di rivendicazioni fondiarie basate sulla stessa storia coloniale e postcoloniale. Ma già la sola occupazione delle terre contese rappresentava un esempio che ha spinto altre popolazioni locali a rivendicare, con qualche tentativo di occupazione, il diritto alla terra di cui i loro nonni erano stati espropriati durante la colonizzazione. Inoltre, credo che l’esempio di Jemna sia servito anche ad alimentare rivendicazioni di un legittimo diritto su altre risorse “naturali” locali, tra cui l’acqua, i prodotti minerari come il fosfato e gli idrocarburi, che hanno mobilitato le popolazioni della regione di Tataouine.

El Kamour: o il “popolo vuole”.

El Kamour, dove si è svolta un’altra fase di resistenza, non senza qualche successo, è una località situata nel mezzo della steppa desertica nel sud-est del paese, a sud della città di Tataouine sulla strada asfaltata che collega il paese ai giacimenti petroliferi dell’estremo sud. Si tratta quindi di un punto di passaggio per l’”oleodotto dell’espropriazione” che trasporta il petrolio greggio al porto di Skhira, situato a circa 50 km a nord di Gabes. È proprio questa posizione geografica vicino al gasdotto che spiega l’irruzione di El Kamour sulle mappe politiche del Paese e nei media.

Infatti, dietro El-Kamour, c’è l’intero governatorato e la città di Tataouine[7], che ospita circa 180mila abitanti. Arida e desertica, questa regione contiene la maggior parte delle risorse di idrocarburi della Tunisia, con il 40% e il 20% della produzione di petrolio e di gas della Tunisia [8], il che non impedisce di registrare qui uno dei più alti livelli di povertà del paese, come mostrano i seguenti dati: nel 2017, il tasso di disoccupazione era del 28,7 per cento della popolazione attiva (contro il 15,3 per cento dell’intero Paese) e il tasso di disoccupati laureati era del 58 per cento [9].

Cronologia rapida[10] degli eventi di El-Kamour 2017-2020

Il movimento di El Kamour è iniziato il 25 marzo 2017 con manifestazioni in diverse località del governatorato di Tataouine che sono confluite nel centro della città. Le loro rivendicazioni erano la condivisione delle risorse locali, principalmente gli idrocarburi, sviluppo locale, occupazione e infrastrutture. Di fronte al silenzio del governo, i manifestanti hanno organizzato un sit-in a El Kamour il 23 aprile. Così, il braccio di ferro si è indurito e l’escalation è diventata inevitabile, tanto più che un primo incontro faccia a faccia con il Primo Ministro, arrivato a Tataouine con l’intenzione di calmare le acque con qualche promessa simbolica, ha portato a un vero e proprio stallo. Il 20 maggio la stazione di pompaggio è stata occupata e due giorni dopo è stata sgomberata dall’esercito due giorni dopo, ma la tensione è rimasta al massimo.

Infine, il 16 giugno 2017 è stato firmato un accordo con il Governo grazie alla mediazione dell’Ugtt, che ne ha garantito l’attuazione. L’accordo prevede la creazione di 3000 posti di lavoro in aziende pubbliche locali per la tutela dell’ambiente prima del 2019 e di 1500 posti di lavoro in aziende petrolifere prima della fine del 2017. Inoltre, un budget di 80 milioni di dinari doveva essere stanziato per lo sviluppo della regione. Ma questo accordo non è stato  mai attuato e il governo ha  provato a guadagnare tempo di fronte all’impazienza della popolazione e ha scommesso sulla stanchezza degli attivisti e sullo sgonfiamento della mobilitazione.

Ma il 20 maggio 2020, i manifestanti di El Kamour hanno ripreso le manifestazioni e i sit-in in diverse località, hanno aumentato la pressione e istituito blocchi stradali su diverse strade per impedire il passaggio dei veicoli delle compagnie petrolifere. Il 3 luglio hanno organizzato un altro sciopero generale aperto in tutti gli esercizi pubblici e nei campi petroliferi. Il 16 luglio hanno chiuso la stazione di pompaggio, bloccando così il trasporto dei prodotti petroliferi verso nord attraverso gli oleodotti. Solo il 7 novembre 2020 è stato finalmente raggiunto e firmato un accordo tra gli attivisti di El Kamour e i rappresentanti del governo. In cambio dell’accordo, la produzione di petrolio e le attività delle aziende operanti nel settore energetico della regione dovevano riprendere immediatamente. L’accordo firmato l’8 novembre 2020 dal capo del governo contiene molti punti essenziali, alcuni dei quali già inclusi nel primo accordo firmato nel 2017 e mai attuati: uno stanziamento di 80 milioni di dinari per un fondo di sviluppo e di investimento dedicato al governatorato di Tataouine; il finanziamento di 1000 progetti, sotto forma di crediti entro la fine del 2020; creazione di 215 posti di lavoro per agenti di compagnie petrolifere nel 2020, seguiti da altri 70 nel 2021; assunzione di 1000 agenti e dirigenti da parte delle aziende pubbliche locali per la tutela dell’ambiente; 100 crediti per un valore complessivo di 2,2 milioni di dinari per il finanziamento di progetti; 1,2 milioni di dinari a beneficio delle associazioni di sviluppo; 2,6 milioni di dinari a beneficio dei comuni della regione; 1,2 milioni di dinari a favore dell’Unione Sportiva di Tataouine.

Conclusione: al di là dei tre casi di Sidi Bouzid, Jemna e El Kamour

I grandi movimenti sociali di cui abbiamo trattato hanno quattro punti in comune:

1) Si trovano per la maggior parte a sud, centro, ovest e nord-ovest del paese. Sono le stesse regioni marginalizzate e impoverite dove, tra il 17 dicembre 2010 e l’inizio di gennaio 2011, si sono svolte le grandi manifestazioni di solidarietà con Bouazizi e di protesta contro le politiche sociali ed economiche;

2) Le principali richieste di questi movimenti sono diverse nei dettagli, ma tutte si concentrano sul diritto alle risorse, ai servizi e al reddito dignitoso. Non vi sono quasi per nulla rivendicazioni più direttamente “politiche” (diritti politici, libertà individuali…);

3) Questi movimenti sociali, che adottano una certa radicalità nel loro discorso e nella scelta di alcune azioni “spettacolari”, segnano una certa rottura con i giochi politici e di potere che si svolgono dentro e intorno ai centri e alle piazze del potere;

4) Praticamente tutti sono stati accusati di essere movimenti regionalisti e tribalisti, anche separatisti e traditori. I manifestanti sono spesso sospettati di essere manipolati o addirittura marionette nelle mani di uno o dell’altro partito politico o di una potenza straniera.

Tuttavia, il loro successo, anche relativo, non sarebbe mai stato possibile senza, da un lato, la solidarietà di classe che si ritrova nei tre esempi discussi e, dall’altro, i rapporti di dominio e di dipendenza che caratterizzano il rapporto tra il centro del potere (la costa orientale) e i margini espropriati e impoveriti da molti, molti decenni. Infine, questi tre esempi e altri più recenti ci mostrano che i processi “rivoluzionari” inaugurati all’inizio del 2008 sono ancora attivi e probabilmente continueranno ad esserlo ancora per molto tempo.

Immagine di copertina: illustrazione di Armin Greder

Note:

1] Vedi anche: Ayeb, H. 2019, “Suicide in Tunisia: acts of despair and protest”.

2] Per maggiori informazioni, leggere l’articolo: Fautras, M. 2014, “Mohamed Bouazizi, l’ouvrier agricole : Relire la « révolution » depuis les campagnes tunisiennes”.

3] Vedi Ayeb, H. 2017, “Food Issues and Revolution: The Process of Dispossession, Class Solidarity, and Popular Uprising: The Case of Sidi Bouzid in Tunisia”. Cairo Papers in Social Science. 34, n. 4: 86- 110

4] La popolazione della regione è in gran parte rurale. Il 70% degli abitanti della città di Sidi Bouzid, occupa un’attività legata al settore agricolo (agricoltori, lavoratori agricoli, lavoratori stagionali agricoli, ecc.)

5] Vedi : Ayeb, H. 2016, “Jemna, ou la résistance d’une communauté dépossédée de ses terres”,  e Krichen, A. 2016, L’affaire de Jemna; question paysanne et revolution democratique

[6] Bush R., Ayeb H., 2019, Food Insecurity and Revolution in the Middle East and North Africa: Agrarian Questions in Egypt and Tunisia, Londra: Anthem Press.

7] Tataouine è la capitale dell’omonimo governatorato.

8] Arab reform initiative, 24 luglio 2020, “Tunisia: In Tataouine, Socio-Economic Marginalization is a time Bomb

9] Arab reform initiative, 24 luglio 2020, “Tunisia: In Tataouine, Socio-Economic Marginalization is a time Bomb” 

OXFAM 2020, «La justice fiscale en Tunisie,un vaccin contre l’austérité»

10] Per ulteriori dettagli: https://inkyfada.com/fr/2017/10/06/webdoc-tataouine-el-kamour-timeline/

Questo articolo è tratto da gliasinirivista.org ed è stato pubblicato in francese sul sito dell’Osservatorio sulla sovranità alimentare e l’ambiente di Tunisi (OASE) – e in inglese sul sito della Review of African Political Economy (ROAPE)

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento